Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / La pederastia greca: una pagina imbarazzante che avrebbe alcune cose da insegnarci

La pederastia greca: una pagina imbarazzante che avrebbe alcune cose da insegnarci

di Francesco Lamendola - 05/01/2015

Fonte: Arianna editrice


 

 


 

Generalmente, l’atteggiamento della maggior parte degli storici moderni della civiltà greca, posti di fronte al fenomeno della pederastia, oscilla fra un pudibondo imbarazzo, che li porta a metterla fra parentesi, quasi si trattasse di uno sgradevole, ma tutto sommato ininfluente incidente di percorso, e il desiderio di guardare bene in faccia il fenomeno, intuendone l’enorme importanza per l’evoluzione di quella civiltà, però nutrendo un pregiudizio di segno opposto: che noi moderni, figli della civiltà cristiana, non possiamo capire la sua vera natura, che siamo portati a distorcerne il significato e che non ne sappiamo apprezzare il ruolo sostanzialmente positivo.

Due estremi, due forme di preconcetto, due esempi di quello che NON dovrebbe essere il giusto atteggiamento professionale degli storici nei confronti della materia di cui si occupano nei loro studi, cioè il passato. Gli uni tenderebbero a condannare, in base alle categorie culturali che sono proprie del loro tempo, e commettono così un errore gravissimo, quello di volersi accostare al passato con le lenti del presente; gli altri tendono ad esaltare, e cadono, così, nell’errore diametralmente opposto e speculare rispetto all’altro. Anch’essi vorrebbero imporre al passato le proprie convinzioni ideologiche, intellettuali, morali, ma in polemica con il PROPRIO recente passato: e arruolano, per così dire, i Greci di duemilacinquecento anni fa nelle file del loro esercito privato, per condurre, implicitamente, una crociata contro ciò che rifiutano della propria civiltà: le radici cristiane, appunto.

Ma quale dovrebbe essere il giusto atteggiamento storiografico, una volta riconosciuta l’importanza e la consistenza del fenomeno rappresentato dalla pederastia nel mondo greco, anche e soprattutto nei suoi risvolti pedagogici e culturali, come ormai sono propensi a fare pressoché tutti gli studiosi del mondo classico? Innanzitutto, un atteggiamento di cautela e di modestia, improntato a una considerazione di ordine generale (ma di cui gran parte degli storici non vuol nemmeno sentir parlare): perché la storia non è una scienza e, dunque, non può pretendere di adoperare mezzi d’indagine, né di pervenire a conclusioni che siano in qualche modo assimilabili a quelli che sono propri delle scienze. In secondo luogo, cautela e modestia dovrebbero essere ispirate dalla ulteriore considerazione che un paradigma culturale non potrà mai vedere e giudicare il mondo con gli occhi di un altro paradigma culturale, perché parla un altro linguaggio e, soprattutto, perché parte da altri presupposti materiali, intellettuali e spirituali. Non si tratta solo di una differenza di contenuti, ma di metodo e di premesse: l’uomo dell’età informatica non saprà mai perché l’uomo dell’età della pietra credeva, ad esempio, che la magia potesse favorirlo nella caccia o propiziargli la pioggia: potrà descrivere i suoi riti e risalire alle sue credenze, ma gli sfuggirà l’ultimo perché, l’intima essenza di quelle credenze. E la cosa più sbagliata che potrebbe fare sarebbe quella di giudicarle dal punto di vista delle proprie, con la sufficienza e l’alterigia che sono caratteristiche di chi, sentendosi superiore, si pone di fronte all’inferiore.

E adesso torniamo al fenomeno della pederastia nel mondo greco; fenomeno che poi, dopo la conquista romana, si diffuse in tutto il bacino mediterraneo e oltre, ma sempre più deformato e stravolto, fino a giungere alla pratica indiscriminata della promiscuità sessuale e della omosessualità più sfrenata (mentre la pederastia, in origine, era un fatto ben delimitato nella vita di un uomo, sia in senso temporale che nei suoi risvolti sociali, estetici e morali). La difficoltà di parlarne, oggi, aumenta per il fatto che il giudizio sulla omosessualità in se stessa, a partire da qualche anno, si è radicalmente modificato, e così la sua percezione comune: si è passati dal considerarla una anomalia, una aberrazione, o, nel migliore dei casi, un disordine, a vederla come un orientamento sessuale perfettamente legittimo e, quindi, “normale”, tanto valido e socialmente accettabile quanto può esserlo l’orientamento eterosessuale o, poniamo, quello bisessuale.

Ancora una volta: lo storico non è un eremita che vive sulla Luna; è un uomo che vive fra i suoi contemporanei, che ne assorbe le idee e i valori, anche se per caso decide di contestarli; pertanto il suo atteggiamento non è mai realmente spassionato, sebbene egli dovrebbe cercare di esserlo. Soprattutto, lo storico non è un giudice: il suo scopo non è quello di emettere sentenze, né di condanna né di assoluzione, ma quello di sforzarsi di capire e di aiutare gli altri a capire. Se si dimentica di ciò, cessa di essere uno storico e diventa, a seconda dei casi, un censore o un apologista: esito intellettualmente disonesto e, comunque, ingiustificato rispetto all’obiettivo: una conoscenza del passato che sia il più possibile sgombra da preconcetti.

Sembrerebbero, queste, osservazioni di puro buon senso, addirittura banali, se non francamente superflue: eppure, per fare solo un esempio, si provi a sfogliare un libro di storia che tratta dell’Inquisizione, o delle purghe staliniane, o dell’antisemitismo nazista, fino ai suoi esiti estremi di Auschwitz, e ci si accorgerà di quanto raramente gli storici – i quali, dopotutto, non sono quegli scienziati asettici e imparziali che vorrebbero far credere di essere – si abbandonano alle passioni morali, politiche, religiose, e lasciano cadere anche la semplice finzione dell’obiettività, cosa che appare fin dall’uso del vocabolario. Vi sono forse degli storici che, parlando di quelle vicende, vicine o lontane, si siano astenuti dall’adoperare continuamente espressioni di sdegno, di orrore, di riprovazione, di esecrazione? Certo, è umano e comprensibile: ma è poco storico. Vi sono degli storici i quali, parlando di Hitler, si siano astenuti dal dichiararlo un folle, un criminale, un mostro in sembianze umane? Può darsi che egli sia stato un folle; certamente fu un criminale e, in un ceto senso, anche un mostro; ma è questo che lo storico deve fare: giudicare? Non deve piuttosto sforzarsi di capire? Capire non è assolvere, come non è condannare: capire è tentare di percorrere i sentieri che hanno portato quell’individuo, quel gruppo o quella società a scegliere una direzione piuttosto che un’altra, a giungere a certi esiti anziché a certi altri.

Per capire, bisogna assumere il punto di vista di coloro che si studia; bisogna sforzarsi, per quanto ciò sia difficoltoso, di pensare come pensavano loro, di sentire come sentivano loro, di vedere il mondo come lo vedevano loro. Quando si studiano le credenze dell’uomo antico, bisogna dimenticarsi, in un certo senso, che la Terra è rotonda; bisogna assumere il suo punto di vista, secondo cui la Terra è piatta: altrimenti non si comprenderà nulla. Gli antropologi e gli studiosi delle religioni già lo sanno; solo alcuni storici si ostinano a non saperlo, a fare finta di nulla. La loro inconsapevolezza e la loro arroganza intellettuale traspaiono dal linguaggio: i termini che adoperano, laudativi o dispregiativi, dicono tutto, anche se un giudizio vero e proprio non viene formalmente espresso. Ma è come se lo fosse.

La pederastia nel mondo greco, dunque. L’argomento è ormai abbastanza noto perché ci asteniamo, qui, dal farne una ricostruzione: esistono molti buoni libri sull’argomento, per esempio quello di Kenneth J. Dover, «L’omosessualità nella Grecia antica», che peraltro, come dice il titolo, allarga lo sguardo al fenomeno della omosessualità nella sua interezza, il che corrisponde già ad un punto di vista ”moderno” (per i Greci, la distinzione non era fra omosessuali ed eterosessuali, ma fra omosessuali attivi ed eterosessuali da una parte, ed omosessuali passivi dall’altra; quanto alla pedofilia, non andavano tanto per il sottile), ai quali rimandiamo per gli approfondimenti del caso. Qui lo diamo per noto, comprese le sue implicazioni letterarie, filosofiche e storiche - le quali, del resto, chi conosca anche solo superficialmente le figure di Saffo, di Socrate o di Alcibiade, non può certo ignorare.

E dunque ci domandiamo: se è vero, come è vero, che la pederastia divenne, a un certo punto, un fenomeno universalmente ammesso e tollerato, se non addirittura incoraggiato, nel microcosmo delle “poleis”, anche e sopratutto nei suoi risvolti educativi, quale peso complessivo ebbe nell’evoluzione della civiltà greca? Fu, nel contesto di tale evoluzione, positivo o negativo? Può insegnarci qualcosa, in un senso o nell’altro, pur tenendo conto delle grandi differenze materiali e spirituali che separano la nostra civiltà da quella greca antica? Insomma: è un esempio da imitare, o comunque da ammirare, oppure no? Domanda che va posta non in base a considerazioni di tipo moralistico, ma proprio in base al criterio della coesione e della vitalità di un popolo, di una cultura, di una civiltà.

Ha scritto Robert Flacelière nel libro «La vita quotidiana in Grecia nel secolo di Pericle» (titolo originale: «La vie quotidienne en Gréce au siècle de Périclès», Paris, Hachette, 1959; traduzione dal francese di Maria Grazia Meriggi, Milano, Rizzoli, 1983, pp. 144-8):

 

«Per quanto tale tema [cioè la pederastia] sia imbarazzante non lo si può passare sotto silenzio; l’amore per i ragazzi ha avuto un ruolo troppo importante nell’educazione greca. Persino la parola amore (“eros”) è usata assai di rado, nei testi dell’età classica, quando si tratti dell’attrazione fra i due sessi, ed è invece riservata quasi esclusivamente all’amore omosessuale. Un poeta come Eschilo che non aveva mai rappresentato in teatro l’amore-passione tra un uomo e una donna aveva assunto come soggetto dei suoi “Mirmidoni” l’amore carnale fra Achille e Patroclo (mentre l’”Iliade” allude a un’amicizia calda ma pura fra i due eroi). La tradizione era così forte in Grecia, a questo riguardo, e così persistente, che ancora in età romana che Plutarco, pur essendo un ottimo marito e padre di famiglia numerosa, si ritenne in dovere di dedicare molte pagine del suo “Dialogo sull’amore” a dimostrare che le ragazze, dopo tutto, potevano suscitare sentimenti appassionati allo stesso modo dei ragazzi. Si dirà che questo stato di cose dipendeva dal fatto che le fanciulle, ad Atene, vivevano recluse e restavano ignoranti? Ma a Sparta, dove si mostravano in pubblico seminude e dove nemmeno i ragazzi coltivavano la propria mente, la pederastia fioriva (o infuriava) più largamente e apertamente che nella stessa Atene. In compenso è innegabile che la nudità dei giovinetti presso il pedotribo abbia favorito la pederastia. Le numerose pitture vascolari che rappresentano ragazzi ed efebi intenti ad esercizi ginnici recano iscrizioni come “kalos”, che equivalgono a dediche a “bei ragazzi”. Ma bisogna andare più in là con le interpretazioni. H. J. Marrou ha giustamente sottolineato l’origine militare della omosessualità  in Grecia. Prima di tutto essa fu una forma di “cameratismo guerriero” che sopravvivrà al medioevo ellenico e che però si conserverà meglio negli stati dorici che conobbero una “ossificazione” arcaicizzante delle loro istituzioni.  In apparenza sembrerebbero i dori ad aver introdotto tali costumi nell’Ellade. La città greca, anche evoluta come l’Atene del secolo di Pericle, , restava un “club maschile”, un “ambiente maschile chiuso” vietato all’altro sesso, dove l’attaccamento appassionato di un uomo (“éraste”) all’adolescente dai 12 ai 18 anni circa (“eromene”) poteva generare nobili sentimenti di coraggio e di onore. Il famoso “battaglione” di Tebe del IV secolo era un esempio tipico di valore collettivo sostenuto e cementato da amicizie omosessuali. E fin dal VI secolo ad Atene, i celebri “tirannicidi” sembrano aver agito più che per amore della libertà, perché un figlio del tiranno Pisistrato aveva osato posare gli occhi sul bell’Armodio, amato da Aristogitone.  Plutarco cita molti casi analoghi in altre città, nelle quali l’uccisione del tiranno fu in realtà un atto ispirato dalla gelosia o dalla vendetta amorosa, quindi un delitto passionale, ma i tirannicidi furono celebrati come liberatori, per cui gli onori loro dedicati  si riflessero sull’amore maschile.

Presso il grammatista, il citarista e il pedotribo il giovane ateniese imparava delle nozioni, delle tecniche, dei movimenti, ma non un’educazione morale propriamente detta. Essa è certamente la più difficile a impartire e per esempio, ai nostri giorni in Francia, non basta aver cambiato il nome di “Ministero della Pubblica Istruzione” in “Ministero del’Educazione nazionale” per garantire immediatamente una migliore educazione. Forse il pedagogo se ne incaricava? Ma era uno schiavo: come avrebbe potuto insegnare le virtù peculiari di un uomo libero? Il padre, educatore naturale, era troppo occupato dagli affari della città. Restava solo la possibilità di una influenza esercitata da un ragazzo più grande, nei confronti di uno più giovane. Ad Atene, sembra che le leggi di Solone vietassero agli uomini che non avevano nessun compito da svolgervi non solo l’accesso non solo alla scuola ma anche alle palestre, ma i dialoghi di Platone ci dimostrano che tale divieto non era rispettato: il “Lisia”, ad esempio, ci fa entrare in compagnia di Socrate e di vari giovani suoi amici nella palestra di Micco dove ammirano il “bel Lisia”. In queste occasioni un uomo poteva notare un adolescente e sedurlo con le sue attenzioni; se l’adolescente vi rispondeva e si legava a lui d’affetto, si creava fra loro un’intimità che, certamente, poteva restare asessuata ma che spesso assumeva un altro carattere. Spesso tale amicizia era esaltante sia per il più adulto, animato da un ardente desiderio di proteggere e formare l’”eromene”, sia per il più giovane, pieno di riconoscenza e di ammirazione per l’”éraste”. Tale era, per lo meno, l’ideale della pederastia “pedagogica” come la definivano gli antichi: l’amore che si consacra a un’anima giovane e dotata e che, attraverso l’amicizia, arriva alla virtù. Forse bisognerà spingersi a dire che lo stato incoraggiava tali legami? Certamente no, se erano di natura sessuale. Anche a Sparta, e a Creta, dove pure la pederastia si manifestava apertamente, i rapporti fisici e, a più forte ragione, la violenza esercitata su un efebo, erano vietati e, almeno in linea di principio vietati dalla legge. Per Atene, la lettura del “Contro Timarco”di Eschine ci dimostra chiaramente come l’opinione pubblica fosse contraria, almeno quanto le leggi, alla prostituzione, il prossenetismo e la violenza esercitata sugli adolescenti. Ma i partigiani della pederastia affermavano che si trattava sempre di amicizie molto pure e Platone ne fa la condizione del’ascesa dell’anima verso il Bello e il Bene e il principio stesso di ogni conoscenza veramente superiore. Ammettiamo che l’amore di Socrate per Alcibiade sia restato puro, con grande disappunto del giovane, ma, come dirà Plutarco, “se l’amore per i ragazzi si nega alla voluttà lo fa per vergogna e timore del castigo; poiché ha bisogno di un onesto pretesto per avvicinare dei bei ragazzi, mette avanti l’amicizia e la virtù.  Si copre di polvere nel ginnasio, prende bagni freddi alza le sopracciglia; esteriormente si dà l’aria di un filosofo e di un saggio a causa della legge, poi di notte, quando tutto tace “dolce è raccogliere quando il guardiano è assente”. Una massima tipicamente greca dice che la bellezza fisica è “il fiore della virtù” come se l’anima modellasse sempre il corpo e come se a un bel corpo dovesse sempre accompagnarsi una bella anima.

In certe regioni del mondo greco, e in certe epoche, l’esistenza di “club maschili” suscitò in risposta la formazione dei “club femminili”, e al’omosessualità maschile rispose il saffismo. Saffo fu, nella Lesbo del VI secolo, una educatrice e, insieme, una grandissima poetessa che gli antichi ponevano al livello di Omero.  Dirigeva una specie di “pensionato” per fanciulle dove fra maestre e allieve si tessevano amicizie amorose. Ma nella Grecia di Pericle non c’era nulla di analogo.»

 

Riassumendo, e cercando di trarre delle conclusioni di carattere generale, che possano essere di qualche utilità anche per la civiltà odierna, pur tenendo conto delle profonde differenze esistenti fra i loro due diversi paradigmi culturali.

I Greci conoscevano e praticavano la pederastia fin dall’età arcaica: essa non fu il frutto della fase matura della loro storia, ma nacque, probabilmente, con la pratica del cameratismo maschile, a cui Sparta specialmente, e tutta l’area dell’insediamento dorico, erano fortemente improntate. Anche se a noi può apparire paradossale, la pederastia non fu il risultato di una “mollezza” cui pervenne una società raffinata e prossima alla decadenza, ma il prodotto di una civiltà giovane, basata sul militarismo e ispirata agli ideali aristocratici e guerrieri, che si legavano indissolubilmente con il culto eroico della patria. Ciò è particolarmente evidente nel caso del Battaglione sacro di Tebe, oltre che nell’episodio dei 300 Spartani di Leonida, che si sacrificarono combattendo alle Termopili: le coppie di giovani amanti si battevano con valore disperato perché difendevano non solo le sorti della patria e la loro stessa vita, ma anche quella dell’amico del cuore. Nella colta Atene, tanto aperta e cosmopolita quanto Sparta era rozza e provinciale, la pederastia assunse poi uno sviluppo tipicamente culturale, insediandosi nelle palestre e in tutti i luoghi ove dei ragazzi in fiore praticavano, nudi, gli esercizi ginnici e degli uomini maturi, con la scusa dei bagni o della conversazione “filosofica”, avevano l’occasione di incontrarli, di ammirarli e di corteggiarli a loro piacimento.

Il fatto che nella cultura greca la pederastia assumesse una dimensione pedagogica importantissima e riconosciuta alla luce del sole, anche se spesso se ne tacevano le implicazioni carnali, dimostra quanto quella cultura avesse smarrito il senso del giusto e del lecito e di come fosse sprofondata nel disordine: senza voler fare del facile moralismo, ci sembra difficile sostenere che un adulto, dopo aver insidiato un giovinetto imberbe, talvolta poco più di un bambino, e averne fatto il suo giocattolo sessuale, avesse le carte in regola per trasmettergli anche dei valori morali e degli insegnamenti culturali: eppure è proprio quello che la società greca, ufficialmente, mostrava di credere, anzi, essa soleva circondare un tale rapporto erotico d’un alone nobilmente romantico. Platone ha speso su quel rapporto pagine ispirate a un senso di ardente desiderio, sia pure sublimato nelle altezze rarefatte della speculazione filosofica; ma l’erotismo sottinteso conserva comunque una carica fortissima.

Non staremo qui a spiegare perché l’iniziazione omosessuale di un ragazzino da parte di un adulto, per quanto ufficialmente ignorata dalla società, che preferisce voltare la testa dall’altra parte, e per quanto idealizzata dai poeti e dagli scrittori, cui piace ammantarla d’un alone romantico e comunque raffinato, non corrisponda alla maniera più desiderabile d’impostare il fatto educativo. I Greci, evidentemente, non avevano le remore morali che abbiamo noi; o, per dir meglio, erano molto abili a travestire e camuffare gli aspetti sgradevoli della pederastia, e in ogni caso le sue connotazioni crudamente carnali, con altri sentimenti, che, essendo di carattere sociale e non privato, come l’amor di patria, meglio si prestavano ad essere accettati dalla società. Valga per tutti il caso dei tirannicidi Armodio e Aristogitone: due amanti che decisero di vendicare una offesa sessuale mediante il delitto politico e che perciò, anche se tutti i loro concittadini sapevano perfettamente quali fossero stati i reali  moventi del loro gesto, vennero assunti nell’Olimpo degli eroi della patria ateniese, in quanto simboli della libertà contro la tirannia.

Tutto questo è piuttosto ipocrita; così come è piuttosto ipocrita, nei dialoghi platonici, il continuo gironzolare di Socrate in mezzo ai bei ragazzi che praticano l’atletica a corpo nudo, e il continuo civettare di costoro nei confronti del filosofo fascinoso, anche se maturo e non fisicamente bello, mentre poi sembra che tutto si risolva in dispute verbali e in dotte discussioni, o, al massimo – come nel «Simposio» - in banchetti più che rispettabili, nei quali si fa un gran parlare d’amore, ovviamente nella versione omosessuale, ma durante i quali pare che nessuno sfiori l’altro neppure con dito, mentre la realtà deve essere stata ben diversa. Qui non si tratta di fare il processo alle intenzioni: è lo stesso linguaggio degli scrittori greci che tradisce la reale natura del rapporto paidetico fra adulto e ragazzo, dato che, come ha osservato giustamente il Flacelière, essi non parlano mai di “eros” quando si riferiscono al rapporto fra l’uomo e la donna, ma pressoché esclusivamente quando alludono al rapporto fra’”érastes” ed ”eromenos”.

Le moderne femministe possono anche trovare una qualche soddisfazione – e così, in realtà, si sono regolate – davanti al fatto che, in “risposta” alla pederastia maschile, nella società greca sorse anche una forma di pederastia femminile, come nel caso della poetessa Saffo; anche se la cultura femminista si è poi trovata imbarazzata a dover “decidere” se Saffo, dopotutto, era solo una maestra e una ispirata poetessa d’amore, oppure se rivendicare con fierezza la circostanza, come in effetti è piuttosto evidente, che i suoi versi attestano effettivi rapporti d’amore lesbico fra lei e le fanciulle del suo “pensionato”, rapporti che, come quanto avveniva nelle palestre ateniesi o nelle caserme spartane, dovevano avere ben poco di spirituale, o, se lo avevano, dovevano averlo in subordine e quasi come corollario alla relazione esplicitamente sessuale.

Nella Grecia antica, dunque, il rapporto esistente fra i due sessi era gravemente squilibrato, per non dire che era totalmente e irrimediabilmente stravolto: quando vi si nega, in pratica, che l’uomo e la donna siano fatti per innamorarsi l’uno dell’altra, e, anzi, si guarda con una sorta di commiserazione l’uomo che abbia la “debolezza” d’innamorarsi di una donna, perché l’amore “vero” non può essere che quello fra due uomini, anzi, fra un uomo assai giovane ed uno senz’altro maturo (come si legge, fra l’altro, in un dialogo di Luciano di Samosata); e quando i padri di famiglia sono talmente affaccendati nella cosa pubblica da non avere il tempo, né la voglia, di sapere cosa facciano i loro giovanissimi figli maschi con gli uomini che ronzano loro attorno in tutte le occasioni possibili di vederli o sorprenderli nudi – quegli stessi padri che sarebbero pronti a sguainare il pugnale e commettere un delitto d’onore, per preservare o vendicare la verginità delle loro figlie -, allora è impossibile sottrarsi a un senso di profondo disagio, di pensosa tristezza.

E questo disagio aumenta ulteriormente se si è costretti a constatare, leggendo le opere di commediografi come Aristofane (o, nell’ambito del mondo romano, di poeti come Marziale) che la vera natura dei rapporti fra uomini e ragazzi era ben nota e provocava chiacchiere e salaci commenti; non solo: che dalla pederastia si diffuse, come i cerchi generati nell’acqua dalla caduta di un sasso, la pratica omosessuale in quanto tale, senza limiti di tempo e di età, che tanto scandalo aveva provocato all’inizio; e che si diffuse, insieme ad essa, anche il tristo fenomeno della prostituzione maschile.

Le cose erano giunte al punto che, nella commedia «Gli uccelli», davanti a un folto pubblico divertito ed, evidentemente, consenziente, Aristofane fa dire a un suo personaggio, imprecando il nome di Zeus, che gli piacerebbe incontrare il padre di un bel ragazzo il quale lo rimproveri aspramente perché, dopo aver fatto innamorare il suo figlioletto, lo trascura e gli passa a accanto senza nemmeno concedergli una carezza sui testicoli. Di nuovo, senza moralismo: non è forse matura per il crollo una simile società, talmente sprofondata nel disordine spirituale e così dimentica dei suoi doveri morali verso la gioventù, così ottenebrata e ossessionata dall’ansia del godimento sessuale, da non rendersi conto di essersi spinta troppo oltre?

Forse, i Greci cominciarono a uscire dal seminato allorché, nel loro appassionato naturalismo, giunsero all’idolatria della bellezza fisica; allorché arrivarono a elaborare l’idea seducente, ma totalmente erronea e moralmente aberrante, che la bellezza fisica non possa non essere la testimonianza esteriore della bellezza interiore, e viceversa, che la bruttezza fisica sia indice di bruttezza morale (si pensi, per fare un esempio fra mille, al disprezzo riservato, nell’«Iliade», al brutto Tersite, che è, nello stesso tempo, anche vile, maldicente, presuntuoso). Una volta stabilita questa idolatria della bellezza fisica, era inevitabile che i Greci la inseguissero ovunque, in maniera ossessiva, incuranti delle più estreme conseguenze; e anche se, ovviamente, il giudizio estetico che si voglia dare e la preferenza che si voglia accordare alle grazie del corpo maschile o a quelle del corpo femminile, sono cose del tutto soggettive, non vi sono tuttavia molti dubbi che una società guerriera, o comunque affascinata dal vigore e dalla potenza muscolare, finisca per assegnare la palma al corpo maschile: tanto è vero che, sovente, gli artisti greci, quando vogliono rappresentare una bella fanciulla, la dipingono o la scolpiscono come fosse un ragazzo, con la semplice aggiunta di un seno.

Anche da questo punto di vista si potrà, allora, misurare l’enorme progresso che l’avvento della civiltà cristiana ha rappresentato, rispetto a quella greco-romana, beninteso se si è liberi dai pregiudizi anticristiani che oggi vanno tanto di moda: perché precisamente ad essa va attribuito il merito d’avere ricondotto l’ammirazione per la bellezza fisica entro limiti più ragionevoli e, soprattutto, di aver rivendicato la priorità della bellezza morale, che non sempre si accompagna alla venustà del corpo (cosa che Platone, nel culto del suo maestro, aveva solo intuito, dato che Socrate era brutto; ma poi s’era fermato a metà, incapace di liberarsi dall’ossessione per la bellezza, e aveva cercato una soluzione di compromesso). Al cristianesimo, inoltre, checché se ne dica, oggi, da parte della cultura femminista, va l’altro merito, ancora più grande, di aver restituito piena dignità alla donna in quanto essere umano, rivestendola così di fascino e interesse agli occhi dell’uomo: quello stesso uomo che, nella Grecia antica, sembrava non vederla nemmeno, se non come animale da riproduzione e come serva domestica.

Ecco dunque un grande popolo, autore di una splendida e ammiratissima civiltà, che si è abbandonato volontariamente, coscientemente e deliberatamente, nella palude di un rovesciamento sistematico dell’ordine sessuale, e che ha trasmesso ai suoi membri di sesso maschile un disprezzo totale nei confronti della donna, relegandola al ruolo subordinato di moglie e di madre, peraltro pienamente sottomessa e priva di voce in capitolo non solo nella sfera pubblica, ma anche – a differenza della donna romana – in quella familiare; un popolo, si direbbe, che, mediante questo pervertimento sistematico, e prolungato nei secoli, del rapporto naturale fra i due sessi, ha rincorso tenacemente, ostinatamente, una sorta di suicidio spirituale, oltre che biologico; che lo ha fatto con piena coscienza e, come si è visto, con una notevole dose d’ipocrisia, come se volesse auto-convincersi che tutto andava nel modo più giusto.

Non si tratta, ripetiamo, di moralismo spicciolo, ma di una semplice constatazione. Che forse ha qualcosa da insegnarci ancora oggi, in questi nostri tempi di felice “emancipazione”, in cui viene chiamato matrimonio non solo quello fra uomo e donna, ma anche quello fra uomo e uomo e fra donna e donna; e in cui alle copie omosessuali viene anche riconosciuto il diritto di avere e di crescere dei bambini  (adottivi, nel caso dei genitori maschi; ottenuti con la fecondazione eterologa, nel caso delle donne). Soltanto Nerone, nel mondo greco-romano, era arrivato a tanto, allorché aveva preteso di “sposare” il suo amante Sporo, che gli faceva pubblicamente da moglie; e, dopo di lui, Eliogabalo, il più corrotto, il più vizioso fra i pur discutibili imperatori del Basso Impero (anche facendo doverosamente la tara alle fonti tendenziose che parlano di loro); nemmeno essi, però, avevano preteso di creare una “famiglia” con tanto di bambini…