La fine immaginaria della politica della paura
di Norman Solomon - 29/08/2006
Solo se i mezzi d'informazione smetteranno di farsi soggiogare e inizieranno a far luce sulle contraddizioni insite nel concetto di “guerra al terrore”, le idee e le informazioni – l’essenza della democrazia – riprenderanno a circolare come dovrebbero. E solo allora si verranno a creare le condizioni per poter discutere di come mai così tanta gente nel mondo oggi odia gli Stati Uniti d’America |
Dopo quasi cinque anni di “guerra al terrore”, l’argomento principale rimane quello dei media e della politica statunitensi. Sì, ho saputo dei recenti sondaggi che segnalano un crescente calo del sostegno pubblico per la politica del presidente George Bush. Questo mese ho letto un fiume di commenti volti a segnalare le difficoltà dell’attuale amministrazione statunitense sul tema del terrorismo – domenica scorsa Frank Rich sul New York Times ha trionfalmente proclamato che “l’era degli americani suscettibili alle teorie della paura è finita”. Ciò è senz’altro confortante, anche se si tratta di un qualcosa che oscilla tra la soddisfazione e l’illusione. La paura autoindotta potrà anche essere in vacanza, ma di certo non se ne è andata per sempre. Il ritornello della “guerra al terrore” inizia a logorarsi, ma resta valido come pretesto per le presenti e future campagne guerrafondaie. La guerra in Iraq appare, se possibile, ancor più raccapricciante di un anno fa. Allora, verso la fine dell’estate, Frank Rich scrisse sul Times un editoriale – intitolato “Qualcuno dica al Presidente che la guerra è finita” – che derideva un affermazione di Bush datata 11 agosto 2005, secondo cui “alcuna decisione” per il ritiro delle truppe dall’Iraq era stata ancora presa. Rispondendo a mezzo stampa qualche giorno più tardi, Rich concluse: “Il paese ha già fatto la sua scelta. Siamo fuori dalla guerra”. Un anno dopo, siamo “fuori dalla guerra”? Molti americani sono consapevoli che la “guerra al terrore” – una mera scusa per muovere guerra – non sia altro che un’accozzaglia di letali sciocchezze. Ma qualcuno vede all’orizzonte il congedo del militarismo americano? Qualcuno pensa che gli oppositori “mainstream” di Bush e della sua amministrazione possano dissipare la campagna guerrafondaia del Pentagono? Guardando avanti, qualcuno può ragionevolmente credere che i leader del partito democratico riescano a ergersi contro le motivazioni per un’offensiva aerea contro l’Iran – di fronte alle tesi secondo cui un attacco massiccio è diventato necessario contro le proliferazioni nucleari di un regime, quello di Teheran, che sostiene l’organizzazione “terroristica” Hezbollah e che auspica la distruzione di Israele? In questa fine estate 2006, tutto quello che dovete fare per accorgervi della sistematica opera di costruzione di una campagna bellica a favore di un attacco aereo all’Iran è sfogliare le pagine del New York Times. Proprio oggi, di fronte ai vostri occhi, la propaganda tradisce il medesimo blitz di cui lo stesso quotidiano Usa si rese protagonista quattro anni fa – un’infinita copertura mediatica volta a evidenziare i supposti “sforzi diplomatici” che il governo Usa avrebbe messo in atto per evitare il conflitto. “L’era della paura autoinflitta è finita”? Non fatemi ridere. Una guerra contro un nemico definito può finire, una guerra contro una vaga minaccia no. Alla fine del novembre 2002, al programma “Washington Journal” l’ex generale dell’esercito Usa William Odom dichiarò agli spettatori di C-Span: “Il terrorismo non è un nemico, non può essere eliminato. È una tattica. È come se decidessimo di voler dichiarare guerra agli attacchi notturni e ci aspettassimo di vincerla”. Proseguendo nella sua chiosa eretica, Odom aggiunse: “Non vinceremo la guerra al terrorismo. E ciò incrementerà la paura. Gli atti di terrore non hanno mai fatto cadere le democrazie liberali. Gli atti parlamentari ne hanno conclusa qualcuna”. L’amministrazione Bush, naturalmente, non ha mai posseduto tali capacità di discernimento. Nel frattempo, solo in rare occasioni i democratici hanno efficacemente contestato i paradigmi della “guerra al terrore/terrorismo”. E se alcuni giornalisti hanno espresso crescente perplessità sulla retorica della Casa Bianca e dei suoi sostenitori, la maggior parte dei mezzi d’informazione abbraccia costantemente la tesi secondo cui gli Usa sarebbero effettivamente in guerra contro il terrorismo. Così, ciò significa ignorare come il fuoco a stelle e striscie abbia in questi anni terrorizzato la popolazione civile – direttamente in Iraq e in Afghanistan, indirettamente nella Striscia di Gaza e in Libano. Il film "Good Night, And Good Luck" drammatizza la decisione del giornalista Edward R. Murrow di sfidare la caccia alle streghe contro i sospetti comunisti messa in atto dal senatore Joseph McCarthy. Per coloro che si chiedono perché così tanti reporter rinuncino a indagare su analoghe iniziative – quelle che hanno compromesso la vita politica statunitense per anni –, possiamo dare uno sguardo ai servizi dei media Usa nel 2006 e ottenere una parziale risposta. Certo, ci sono stati e ci sono alcuni giornalisti distintisi per aver tenuto duro di fronte alla politica di Bush e alla sua retorica dell’antiterrorismo. Tuttavia, nella stragrande maggioranza dei casi – in particolare per quanto riguarda le prime pagine dei giornali e gli argomenti di punta delle trasmissioni televisive – i reporter accettano e sostengono la visione del mondo dell’amministrazione americana senza battere ciglio. Simbolicamente, sotto il titolo “Sale il numero dei soldati americani presenti in Iraq”, il 23 agosto Associated Press ha riportato: “Non più di 2.500 marines verranno richiamati volta per volta, ma non esiste limite al numero totale di coloro che potrebbero tornare a prestare servizio nei prossimi anni a fronte di nuove esigenze dettate dalla 'guerra al terrore'”. Solo se i mezzi d'informazione smetteranno di farsi soggiogare e inizieranno a far luce sulle contraddizioni insite nel concetto di “guerra al terrore”, le idee e le informazioni – l’essenza della democrazia – riprenderanno a circolare come dovrebbero. E solo allora si verranno a creare le condizioni per poter discutere di come mai così tanta gente nel mondo oggi odia gli Stati Uniti d’America.
L’ultimo libro di Norman Solomon è “War Made Easy: How Presidents and PunditsKeep Spinning Us to Death”, pubblicato da Wiley nel 2005 ed edito in Italia da Nuovi Mondi Media con il titolo “MediaWar. Dal Vietnam all’Iraq. Le macchinazioni della politica e dei media per promuovere la guerra”. Solomon è fondatore e direttore esecutivo dell’Institute for Public Accuracy. Fonte: AlterNet |