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«Esse est inter omnia perfectissimum»

di Francesco Lamendola - 20/01/2015

Fonte: Arianna editrice



 

San Tommaso d’Aquino, nella sua opera «De potentia», afferma, tirando le somme di un articolato ragionamento (7, 2, ad 9), che «fra tutte le cose l’essere è la più perfetta» («esse est inter omnia perfectissimum»); e secondo alcuni storici della filosofia, ad esempio Battista Mondin, questo sarebbe, forse, l’aspetto più originale di tutta la metafisica tomista.

In altre parole: il fatto di essere, di esistere, rappresenta la massima perfezione di una cosa, a parità delle altre qualità che essa può avere. Un poeta o un pittore possono immaginare, ad esempio, un paesaggio stupendo, di una così sublime perfezione, quale mai occhio umano ha veduto: ma ad una simile perfezione mancherà ancora l’ultimo grado, quello dell’esistenza: perché si tratta, appunto, di un paesaggio solamente immaginato, o magari descritto in versi o raffigurato sulla tela; non, però, di una realtà esistente per se stessa, indipendentemente da colui che l’ha concepita. Così pure, un moralista o un filosofo possono immaginare, e descrivere nei loro discorsi e nelle loro opere, una creatura umana dotata di tutte le più eccellenti qualità spirituali e priva del benché minimo difetto, della più piccola imperfezione: però a quella creatura mancherà pur sempre l’ultimo e decisivo grado per essere realmente, interamente perfetta: quello dell’esistenza.

L’esistenza delle cose, il fatto che le cose esistano e che possiamo vederle, possiamo parlarne, possiamo essere, noi stessi, partecipi della loro esistenza, è il prodigio più grande ed è la più meravigliosa perfezione che sia data ad un ente; un dato così sublime, così struggente, così straordinario, che solo la forza dell’abitudine può averci assuefatti al suo quotidiano manifestarsi, al suo dispiegarsi vittorioso contro lo sfondo impensabile del nulla. Eppure, che le cose esistano non è scontato; non è scontato che, invece del niente, vi sia qualcosa; né che noi esistiamo, che possiamo essere non solo testimoni, ma anche partecipi di un tale trionfo dell’essere. Noi ci perdiamo nella funzione predicativa dell’essere: il fatto che una cosa sia in un modo o in un altro, per esempio che sia verde oppure gialla, o che sia presente oppure passata, o che sia giusta oppure sbagliata, ci fa perdere di vista il prodigio fondamentale: che quella tale cosa è, semplicemente, senza attributi, senza modi, indipendentemente dalle circostanze in cui si concretizza e si manifesta. Il fatto che ci sia, è straordinario; ed è straordinario che ci siamo noi. Quella cosa avrebbe potuto non esserci; noi stessi avremmo potuto non esserci; invece ci siamo, esistiamo, siamo qui.

Straordinario non è che il mare sia di un certo colore, ma che ci sia; non è che questo pezzo di pane abbia un certo profumo, ma che ci sia; tutte le qualità delle cose sono una conseguenza del miracolo iniziale: che esse ci siano, invece del nulla. Il nulla, noi non possiamo nemmeno pensarlo; non lo si può contrapporre all’essere, come se fosse anch’esso qualcosa: il nulla è mancanza di essere, privazione radicale di essere, zero assoluto. Non possiamo pensarlo, perché noi siamo: e il solo fatto di esserci, di essere in mezzo ad altre cose che sono, fa sì che, per noi, l’unica maniera di pensare il reale sia quella di pensarlo come esistente. La nostra mente non è fatta in modo da poter pensare il nulla; nessuna mente finita ne sarebbe capace, perché dove c’è l’essere, il nulla è una semplice ipotesi concettuale, non qualche cosa di concretamente pensabile, e sia pure di concretamente pensabile come il contrario dell’essere.

Il nulla non è il contrario dell’essere, perché, se fosse tale, sarebbe già qualcosa, sarebbe pur sempre qualcosa; mentre il nulla è il vuoto assoluto, dove il pensiero si smarrisce, perché non ha il minimo appiglio a cui afferrarsi, la minima consistenza su cui esercitare la riflessione. Come diceva Epicuro della morte (ma con una piccola modifica, perché la morte, dopotutto, se non è una cosa, è pur sempre un evento), così noi possiamo dire del nulla che esso non è assolutamente niente per noi, perché fino a quando ci siamo noi, esso non c’è; e se, invece di esserci, noi non ci fossimo, allora non sarebbe cosa che ci potrebbe riguardare.

Questa incompatibilità radicale dell’essere e del nulla, per cui se vi è l’uno, non può esservi l’altro, configura l’esistenza delle cose come una sorta di spinta vittoriosa che le porta ad emergere nello splendore dell’esistenza, fuori dal buio del non-essere; per cui Jacques Maritain ha potuto parlare del trionfo sul nulla della cosa più umile, poniamo di un filo d’erba. Ecco perché le cose sono un prodigio, per il solo fatto di esserci; e – stranamente - in genere è il poeta, e non il filosofo, a stupirsene, a meravigliarsene, a gioirne e ad esultarne. Evidentemente, anche i filosofi si sono dimenticati, sovente, il punto di partenza della loro stessa attitudine speculativa: del fatto, cioè, che essi non avrebbero alcunché su cui ragionare, alcunché su cui interrogarsi, se le cose, anche le più umili, anche le più quotidiane, non fossero.

Il vero filosofo non dovrebbe stupirsi tanto per il fatto che le cose siano in un determinato modo, ma che siano, puramente e semplicemente, invece di non essere. Certo, la bellezza delle cose, la bontà delle cose, la verità delle cose, ciascuna nel proprio ambito e secondo la propria funzione, destano continuamente stupore e ammirazione. Stupore e meraviglia si provano, ad esempio, davanti allo spettacolo della circolazione sanguigna nel corpo umano, e, in genere, davanti allo spettacolo della mirabile complessità e armonia che regnano nell’organismo dei viventi; e gli stessi sentimenti non si possono trattenere davanti allo spettacolo di un bosco o di un giardino pieni di vita, di un’alba o un tramonto in riva al mare, dello sfavillare d’innumerevoli astri nel limpido cielo notturno, o del candore della neve e dei ghiacci che brillano al sole sulle pendici d’una imponente chiostra di montagne. Ma la cosa più straordinaria, più sconvolgente di tutte, è che le cose esistano; che esitano i nostri occhi per ammirarle; che esista la nostra anima per goderne l’intima dolcezza.

Se, poi, vogliamo fare un passo avanti nella riflessione su tale prodigio, arriviamo ben presto a considerare le implicazioni del doppio significato che siamo soliti attribuire alla parola “essere”, quando ci riferiamo alle cose. Infatti, allorché diciamo, per esempio, che nel prato c’è un cespuglio di rose, intendiamo sia che le rose sono in un certo modo («nel prato»), sia che le rose SONO, che sono invece di non essere. Così facendo, tendiamo a confondere il concetto di essenza con quello di esistenza: diamo un per scontato il fatto che, se le cose sono così e così (colorate, profumate, ecc.), ovviamente ciò accade perché esse ci sono, vale a dire perché esistono, invece di non esistere. Se diciamo che la rosa è profumata, il verbo essere viene adoperato per indicare una modalità della rosa, lasciando implicito, e scontato, il fatto che la rosa esiste, dopotutto.

Questo avviene perché noi non possiamo concepire l’essenza di una cosa, il fatto che una cosa sia se stessa e non un’altra, che abbia una propria ineliminabile specificità («quiddità», diceva San Tommaso) separata dal fatto che quella tale cosa abbia, nello stesso tempo, anche la proprietà fondamentale e che fa da supporto a tutte le altre, attuali o eventuali proprietà: quella dell’esistenza. Per noi, le cose sono in una certa maniera, perché possiedono l’esistenza (e magari l’esistenza di secondo ordine del semplice pensiero immaginativo, come la rosa del poeta): la nostra mente è fatta in modo tale che non arriviamo a concepire l’esistenza di una cosa, senza che tale cosa abbia determinate proprietà; e, viceversa, che l’esistenza delle specifiche proprietà di una cosa sia resa possibile dal fatto della sua esistenza. Noi, infatti, siamo enti fra gli enti, in un mondi di enti; siano cose fra le altre cose – cose senzienti e pensanti, ma pur sempre cose, nel senso che non ci siamo dati l’esistenza da noi stessi, non siamo emersi dal nulla per un atto della nostra volontà.

Sorge perciò la domanda se non sia possibile, anzi, se non sia necessario e indispensabile, pensare l’esistenza di qualcosa che non sia determinabile in ragione delle sue proprietà, ma in se stessa, cioè come puro essere, come esistere incondizionato e assoluto; che si lega con l’altra domanda, da dove le cose abbiano tratto la loro esistenza, da dove noi abbiamo tratto il nostro esserci, il nostro stupirci e interrogarci, il nostro affannarci intorno al problema della verità. La domanda, dunque, è questa: esiste un essere che sia essere in quanto essere, essere senza condizioni, senza un prima e un dopo, senza un dentro e un fuori, senza un questo e un quello; un essere che È, puramente e semplicemente, e le cui determinazioni sono di tanto superiori alla nostra capacità di vedere, di comprendere, d’immaginare, da far apparire le nostre domande come un incerto balbettare; un essere che non trae da altro la propria esistenza, ma da se stesso? Un essere che, a differenza degli enti, accidentali e provvisori, sia necessario ed eterno?

La ragione, l’istinto, il buon senso, tutto si accorda per condurci a un risposta affermativa; tutto ci indirizza in quella direzione. Se non vi fosse un tale fondamento, come potrebbero esistere le cose, come potrebbe esistere il mondo?

Ma il mondo, dicono le filosofie panteiste, è eterno esso stesso: il mondo è Dio. Contraddizione in termini: se il mondo fosse eterno, allora non sarebbe il mondo, non sarebbe il mondo che conosciamo, che vediamo, che studiamo: perché sappiamo che il mondo ha una certa età, e gli scienziati sono anche riusciti ad indicarla, sia pure approssimativamente; e ciò che ha un’età, ha un’esistenza finita, concentrata nel tempo, con un inizio e una fine. Non è eterno, non è sempre esistito; e anche una serie di Big Bang rimanderebbe solo l’inizio all’infinito. Inoltre, noi sappiamo che il mondo non è necessario: esiste, ma potrebbe anche non esistere. Tutto ciò che ci è dato esperire con i sensi è accidentale; nulla di ciò che vediamo e conosciamo fisicamente è necessario: non la terra, non il sole, non le galassie, non la vita, sia quella dell’umile organismo unicellulare, sia quella dell’uomo più intelligente e profondo. Le cose ci sono, ma potrebbero non esserci: nulla, in esse, le rende necessarie; non c’è niente, assolutamente niente, in loro, che renda indispensabile la loro esistenza. La loro esistenza è gratuita: è, se vogliamo, un atto di amore, perché è un dono, nel senso più ampio del termine. Un dono è ciò che si offre spontaneamente, disinteressatamente e gratuitamente: quando non si pongono condizioni, quando non si domanda niente in cambio.

Noi abbiamo ricevuto questo dono, e con noi tutte le cose che esistono. Non esistiamo per nostra volontà; la spinta vittoriosa che ci ha portati ad emergere dal nulla, non è  partita da noi, perché noi non c’eravamo. È partita, per forza di cose, da Qualcuno o da Qualcosa che esiste in modo assoluto, che È, senza condizioni. Quando i filosofi e i teologi affermano che un tale Essere è questo o quello, per esempio che è somma verità, somma bontà, somma bellezza, si esprimo, inevitabilmente, in forma antropomorfa: bisognerebbe specificare molto chiaramente che si tratta di bellezza, bontà e verità secondo il nostro modo di vedere e di giudicare le cose; perché, per noi, le cose, le cose che conosciamo, quelle che cadono sotto i nostri sensi e quelle che possiamo indagare pienamente per via razionale, possono anche presentarsi come brutte, false o cattive. Ma l’Essere assoluto, l’Essere con la “e” maiuscola, è al di là di simili alternative, che sono proprie della dimensione duale in cui siamo immersi (corpo e anima, mondo naturale e mondo soprannaturale); l’Essere non potrebbe essere in altro modo da come è; possiede la volontà – altrimenti non avrebbe tratto le cose all’esistenza – ma non la possibilità dell’errore, dell’imperfezione, dello scacco. È perfetto, perché È in modo assoluto, totale, incondizionato.

L’Essere è come il cielo al di sopra delle nubi. Sotto le nubi il tempo atmosferico è soggetto a variazioni, a mutamenti; sopra di esse, no: esso permane sempre uguale a se stesso, imperturbabile, sfolgorante di perfezione. Noi, pertanto, chiamiamo le cose “buone” o “cattive”: e abbiamo ragione di fare così, perché esse sono realmente tali; ma sono tali per noi, sono tali quaggiù, in fondo allo stagno nel quale sguazziamo, scambiandolo per il mare aperto: ma non solo tali al cospetto dell’Essere, perché dall’Essere ogni cosa esce buona e, in senso relativo, perfetta. Certo, le cose non sono perfette in senso assoluto: esse, infatti, partecipano dell’essere, ma non sono l’essere; così come le cose infuocate partecipano del fuoco, ma non sono il fuoco; e le cose illuminate partecipano della luce, ma non sono la luce.

E questa è la grande lezione che gli uomini debbono tener sempre presente: che essi partecipano dell’essere, ma non sono l’essere, visto che sono stati chiamati ad esistere, ma non si sono dati da sé la loro esistenza. Di conseguenza, gli uomini sono in un modo o in un altro: non sono assolutamente e perfettamente; loro compito è, appunto, quello di imboccare e percorrere, per quanto possibile, la via delle perfezione, perché ogni cosa è chiamata alla perfezione, anche se, nella dimensione fisica dello spazio e del tempo, tale meta non è mai pienamente raggiungibile. Se lo fosse, le cose non sarebbero più cose, gli enti non sarebbero più enti: sarebbero un tutt’uno con l’Essere. Ma questa è la meta finale, e non è in potere delle cose e degli enti:così come non si sono dati da sé la propria esistenza, neppure possono fare ritorno all’Essere da se stessi. In ciò sta la bellezza della vita, il suo fascino, ma anche il suo impegno. Abbiamo un compito da svolgere, quello di tendere alla perfezione: che consiste nel riconoscere, amare e lodare l’Essere, sorgente perfetta di tutto ciò che è.