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Che errore costruire una falsa immagine di sé per esorcizzare il proprio fallimento

di Francesco Lamendola - 20/01/2015

Fonte: Arianna editrice

 

 

È certamente conforme alla natura umana, ma nei suoi livelli più bassi di consapevolezza, costruirsi una falsa immagine di sé per “assolversi” delle proprie insufficienze, dei propri errori, delle proprie responsabilità mancate.

Ci si costruisce una falsa immagine di sé relativamente ad un singolo evento o anche relativamente ad una vita intera: nel primo caso, il movente è il senso di colpa per ciò che si è fatto o, magari, per ciò che non si è fatto, per ciò che non si ha avuto il coraggio di fare; nel secondo caso, il movente è la mancanza di considerazione per se stessi, l’oscura coscienza della propria inadeguatezza esistenziale. È difficile sia sopportare il peso di una cattiva azione, sia, a maggior ragione, quello di una intera vita di fallimenti: più semplice, più sbrigativo rimuovere il problema, auto-convincendosi che non è successo niente, o, se è successo, che è stata tutta colpa degli altri, delle circostanze, del destino.

Vediamo così l’aggressore che, dopo essersi costruito e ripetuto un paio di volte la propria menzogna giustificatrice ed auto-assolutoria, finisce per crederci davvero, e per vestire, indignato e fremente, i panni dell’aggredito; il carnefice che diventa vittima, il traditore che si sente tradito, il bugiardo che si sente ingannato, l’invidioso che si sente invidiato, e così via. Nessuna menzogna è troppo grossa da digerire, se lo scopo è quello di tacitare il senso di colpa o il senso di inadeguatezza: diventa quasi una forma di legittima difesa.

Vi sono, così, delle persone, che vivono immerse nella menzogna dalla testa ai piedi; che non possiedono un minimo di sincerità, di franchezza e di lealtà con se stesse (non parliamo con gli altri), che non sono mai state capaci di guardarsi allo specchio della coscienza e di vedersi così come sono realmente e come tutti le vedono: tutti tranne loro. Lo studente pigro è stato bocciato per il malanimo dei professori; il commerciante disonesto è fallito per colpa della scorrettezza altrui; l’impiegato incapace e fannullone è stato licenziato per la malevolenza e la perfidia del suo principale; colui che ha partecipato ad un concorso pubblico non lo ha vinto solo perché i posti erano già riservati ai raccomandati e non perché egli non possedeva i necessari requisiti di capacità e di preparazione professionale.

Vi sono delle perone aride, ciniche, amorali, che nella vita collezionano amari fallimenti, ma non hanno mai il coraggio di guardare in faccia la realtà e preferiscono costruirsi un castello di menzogne, al riparo del quale compiangersi e compatirsi, beninteso dopo essersi costruiti una falsa immagine di innocenza perseguitata, di benevolenza incompresa, di generosità sprecata, di altruismo mal ripagato, addirittura di fiducia mal riposta.

Vi sono mogli o mariti che si raccontano la favola di essere delle belle persone, che la vita ha maltrattato e che gli altri non hanno saputo apprezzare; mentre la realtà è che la loro solitudine, la loro amarezza, il loro fallimento sono stati il risultato di un carattere opportunista e meschino, di una totale mancanza di apertura e di altruismo, di una attitudine sistematica a calcolare ogni parola e ogni gesto secondo la filosofia del massimo utile con il minor dispendio di energia. Ma è una filosofia che non funziona e che non rende; solo gli stupidi la adottano, perché solo gli stupidi non vedono quel che vedono tutti gli altri: che l’egoismo, l’opportunismo e la meschinità sono difetti evidenti, dei quali è impossibile non accorgersi, e che producono il vuoto, inevitabilmente, intorno a chi ne è afflitto. Il calcolatore si crede furbo perché, al bar, riesce a non pagare mai il conto, lascia che a pagarlo siano sempre gli amici: ma la cosa, in poco tempo, è chiara a tutti, e costui si ritrova solo e disprezzato, separato dagli altri da un muro di ostilità e diffidenza, emarginato da coloro che credeva di poter sfruttare all’infinito.

Ad un siffatto tipo umano appartiene Gisella, la protagonista dell’omonimo romanzo di Carlo Cassola, apparso nel 1974: uno dei personaggi più tragicamente, più tristemente vivi e nitidi creati dallo scrittore toscano; uno dei più commoventi, ma nello stesso tempo dei più repulsivi, nel suo tetro, subdolo opportunismo; nel suo cinismo amorale che non sa riconoscersi come tale, neppure a distanza di tanti anni; nel suo essere murata dentro una invisibile prigione di menzogne, di finzioni e di falsa coscienza.

Così ne ha delineato il ritratto morale il critico Enzo Siciliano, con finissima penetrazione psicologica, peraltro non senza qualche concessione di troppo a una certa scontata retorica del “politicamente corretto” – o quel che era tale quando furono scritti sia il romanzo che il commento - nella «Introduzione» al romanzo stesso (in: Carlo Cassola, «Gisella», Milano, Rizzoli, 1974, 1983, pp. III-V):

 

«Gisella è come Anna di “Un cuore arido”, confinata in una quotidianità e in una meschinità strangolanti, e superba di tanto confino; ma da Anna qualcosa la diversifica, ed è un certo sinistro piacere ad agire, a decidere.

Figlia d’un padre donnaiolo e dissipatore, Gisella è finita orfana nella famiglia di certi lontani parenti: uno zio, una zia, un cugino, la cugina.  Ma come la ragazza cresce e si fa carina, per quelle invidie e gelosie  che le famiglie piccolo borghesi sanno mettere al caldo, è, di fatto, la serva di casa. Basta un piccolo scarto, ed eccola segnata da una forma di taciuto rancore. È il rancore di chi vuole uscir via dall’inferno in cui si trova – e questo, all’inizio, ci fa simpatica la ragazza.

Ma l’inferno è l’inferno, e da esso non ci si può sbagliare. Gisella le sbaglia tutte. Si fidanza con un ragazzo conosciuto al mare, e lo pianta inopinatamente.  Altrettanto inopinatamente si sposa con Antonio, un impiegato di banca fiorentino, un tipo grassoccio di cui ha ribrezzo. E il matrimonio le consente di lasciar sfogare un’inclinazione erotica che lo zio, mediocre “coureur” di provincia,  ha sempre provato per lei. Gisella sogna,- torbidi bovaristici sogni, impiastrati di fisiologia ma di nessuna idealità. Verrà la guerra. Verrà la fine del fascismo, e la donna si fa, dopo l’8 settembre, repubblichina. Esplode così la sua vitalità di quarantenne in declino (fu forse per il piccolo borghese nero la repubblica di Salò una scelta politica?).

A quel punto, è chiaro, il destino di costei è un fangoso destino di morte, - ma dove la morte si realizza passo passo esistendo. Avida, incattivita, sempre più stupida, anelante, i “rossi” la raperanno a zero: il marito avrà seguito i fascisti al nord. Alla liberazione di Firenze si ritrova sola, con un figlio addosso, priva di qualunque prospettiva.  Spera che Antonio sia morto. Si rimette in casa dello zio; amoreggia con un soldato americano: c’è nella sua sensualità qualcosa di ispido e aggressivo, di sempre insaziato, come insaziati sono i suoi discorsi.

Cosa le accadrà? Antonio non è morto: tornerà a casa dopo il disastro della guerra, subirà l’epurazione; infine la banca lo reintegrerà nell’ufficio, non più a Firenze ma a Bologna.

Il figlio di Gisella si sposerà; il marito si spegnerà nella propria idiozia, così come è vissuto; e lei, sempre più stupida, più avida, polverizzata dalla sua stessa inerzia, resterà a vivere di sciocche nostalgie dietro il vetro d’una finestra guardando la fuga dei binari della stazione presso cui abita,., e sui cui i treni scivolano “nella direzione giusta”. Quale ultima ingiuria a quel che ha vissuto, penserà d’essere stata “una buona moglie”.

Nella strana, soffocata e totale bellezza di questo libro non c’è romanticismo, non c’è estetismo: non c’è pietà. C’è soltanto, dolente, acutissima, la religione del nulla, dispiegata, inseguita nelle minime pieghe dell’esistenza.

Gisella, e i personaggi che la incrociano, parlano: - è come se qualcuno andasse rimestando dentro un fondaccio di spazzatura alla ricerca non si sa bene di cosa; e non trova niente. Ma in quella rancorosa, insistita ricerca si configura una passione, - la passione di chi si dibatte dentro la gabbia dei propri sordi istinti e non sa come uscirne. E quella prigionia è la vita medesima.»

 

Ecco qui una donna gretta e ferocemente egoista, che in tutta la sua vita non ha pensato mai ad altro che al proprio tornaconto, la quale, dopo ave seppellito il marito mai amato e al quale augurava la morte, giunge a rappresentarsi ai proprio occhi come una buona moglie e una buona madre, come una persona che ha ben vissuto e ben meritato. Qui la menzogna è totale, abbraccia un intero orizzonte esistenziale: dall’infanzia alla vecchiaia.

C’è da chiedersi se questo tipo di persone, dopotutto, vivano bene; se, alla fine dei conti, non è meglio, per esse, indossare gli abiti della menzogna, visto che ciò le preserva dal fare amari conti con se stesse e dal dolore di prendere atto dei propri fallimenti e delle proprie infedeltà alla vita. Ci si potrebbe spingere anche oltre e ipotizzare che questa, dopotutto, è una “saggia” filosofia, perché si prende cura della serenità interiore delle persone molto più di una che sia basata sulla ricerca esigente della verità, sullo scavo interiore che non fa sconti, su tutto ciò che vi è di pesante e di doloroso nel guardarsi dentro con onestà e lealtà.

La risposta a queste domande non può che venire dalla scala di valori che si possiede, dal grado di amore per la verità, dalla coerenza e della saldezza delle proprie convinzioni in fatto di trasparenza morale. Oltre a questa considerazione, comunque, crediamo ci sia anche un’altra ragione per rispondere affermativamente, basata non solo su ragioni di principio (se sono disposto ad ingannare me stesso, come potrei essere leale verso gli altri, compresi coloro che affermo di amare?), ma anche su ragioni, per così dire, di ecologia interiore. Così come esiste una ecologia dell’ambiente esterno, ne esiste anche una del nostro ambiente interno, cioè della nostra anima. E, in questo senso, si comprende facilmente come vivere nella menzogna riguardo a se stessi, sia una abitudine che non fa bene. L’anima si intossica, lentamente ma inesorabilmente: assorbe il veleno della falsità e finisce per trovarlo normale; a quel punto, essa è perduta, perché la sua condizione naturale di esistenza è la verità. L’anima ha bisogno di respirare verità, proprio come l’organismo ha bisogno di respirare ossigeno. L’organismo non potrebbe vivere se dovesse respirare anidride carbonica, che è il prodotto di rifiuto della respirazione; e così l’anima non può vivere respirando la menzogna, che è il prodotto di rifiuto della verità.

Può essere che molte persone non se ne rendano conto e che, sprofondate nella menzogna fino alla cima dei capelli, pensino di vivere bene e in pace con se stesse; ma non è vero. Credono di vivere bene e in pace, come il drogato crede di stare bene assumendo le sostanze stupefacenti, o come l’alcolizzato crede di trovare la pace in fondo alla bottiglia: ma, ovviamente, si tratta di un tragico equivoco. E la cosa più grave è che, mano a mano che l’anima si intossica col veleno della menzogna, la coscienza finisce per ottundersi, per stravolgersi, per divenire completamente cieca: non si accorge più del male in cui l’anima è sprofondata. È come quando il corpo congelato non avverte più la sensibilità degli arti: a quel punto è ormai troppo tardi per reagire, per fare qualcosa. Il pericolo, dunque, è che la coscienza non si renda conto di quel che sta accadendo all’anima e che questa vada in cancrena, irrimediabilmente, senza che sia stato fatto alcunché per salvarla.

Perciò, siano benedetti i sensi di colpa che tormentano la vita dell’anima, perché essi attestano, col solo fatto di farsi sentire, che l‘anima, benché malata, è ancor viva e in grado di salvarsi. Ma non si salverà, se la coscienza non saprà trasformare il senso di colpa - che, di per se stesso, è sterile - in qualcosa di fecondo: il pentimento, il desiderio di rimediare al male fatto, la disponibilità ad espiare. Solo a tali condizioni può verificarsi una ripresa di vitalità dell’anima, solo a questo prezzo essa potrà redimersi: non da sola, però, ma con la grazia che viene dall’alto. Sarà doloroso: ma sarà la salvezza. Chi anestetizza la propria coscienza non soffre, ma non potrà più salvarsi: diverrà un’anima persa. Le anime che non provano rimorso per il male fatto, che non provano pentimento e desiderio di espiazione, sono perse, alla lettera: hanno imboccato una strada dalla quale non si torna più indietro, e in fondo alla quale non esiste redenzione, ma l’inferno del male chiuso in se stesso, che si rigira su se stesso e si morde la coda. Meglio, perciò, molto meglio, guardarsi bene in faccia nello specchio della coscienza, purché esso sia limpido e terso, e vedersi e giudicarsi per quel che si è, e non per quel che si finge di essere.

Come diceva il dottor Manson, nel romanzo «La cittadella» di A. J. Cronin: «A Dio non la si fa».