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La madre e la lesbica sono parenti strette: parola di Simone de Beauvoir

di Francesco Lamendola - 27/01/2015

Fonte: Arianna editrice


 


 

Lesbismo e senso materno sono due facce di una stessa medaglia o, quanto meno, discendono da una radice comune, il narcisismo femminile?

È la tesi, paradossale e inquietante, sostenuta, senza batter ciglio – e, in verità, senza prendersi la briga di argomentare più di tanto – da una vera e propria icona della cultura femminista, Simone De Beauvoir. Una tesi discutibilissima, se non addirittura campata per aria; ma tant’è: uscita dall’oracolo di una tale autrice, le femministe e gli uomini che ammirano e condividono le loro posizioni l’hanno mandata giù senza batter ciglio, senza dire: “bah”. Nessuno si è preso la briga di dire che era una emerita sciocchezza; nessuno – né allora, né in seguito – l’ha messa seriamente in discussione: come sarebbe stato possibile rifiutare o criticare qualcosa che fosse uscito da quella penna, da quella suprema intelligenza?

Avevamo già avuto occasione di discutere la gratuità e l’assoluta inconsistenza di una tesi non troppo diversa e altrettanto paradossale, sostenuta da un’altra icona del moderno femminismo, appartenente a una generazione a noi più vicina: Germaine Greer (cfr. il nostro articolo «Le donne, per G. Greer, sono portate al lesbismo perché mutevoli nell’orientamento sessuale», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 18/01/20012. La Greer sostiene che la donna, in quanto tale, è naturalmente portata verso il lesbismo, perché la sua identità sessuale è più sfumata, più vasta e . naturalmente - ,più “ricca” di quella dell’uomo; Beauvoir afferma che la lesbica, come la madre, è una donna che si attacca a un altro essere umano, se ne innamora, vi si sprofonda, perché vede in esso il riflesso della propria immagine. Bisogna concludere che la madre e la lesbica sono sorelle gemelle o, addirittura, che in ogni madre è presente, in potenza, una lesbica? Se così fosse, allora si potrebbe concludere che la grande maggioranza delle donne, in quanto sensibili al richiamo della maternità, sono predisposte al lesbismo; e che – esito veramente strano, se si considera che tutto sembra indicare l’opposto – proprio le donne che NON sentono la vocazione materna sarebbero quelle più immuni da tendenze omosessuali.

Ecco in quali termini De Beauvoir espone la sua teoria (da: S. De Beauvoir, «Esiste la donna?»; titolo originale: «Ler duexième sexe», Paris, Gallimard, 1949; traduzione dal francese di R. Cantini e M. Andreose, Milano, Il Saggiatore,  1961, 1976, cap. V):

 

«È molto importante sottolineare questo; non è sempre il rifiuto a farsi oggetto che porta la donna all’omosessualità; la maggior parte delle lesbiche cerca al contrario di impadronirsi dei tesori della femminilità. Acconsentire a questa trasformazione in cosa passiva, non significa rinunciare ad ogni rivendicazione soggettiva:  la dona spera così di cogliersi sotto l’aspetto dell’in-sé; ma allora cerca di riafferrarsi nella sua alterità.  Nella solitudine, non riesce realmente a sdoppiarsi; se carezza il suo seno, non sa come questo si rivelerebbe ad una mano estranea, né come si sentirebbe  vivere sotto la mano estranea; un uomo può scoprire l’esistenza PER SÉ della sua carne, ma non ciò che essa è PER GLI ALTRI. È soltanto quando le sue dita modellano il corpo di una donna le cui dita modellano  il suo che si compie il miracolo dello specchio.  Tra uomo e donna l’amore è un atto; ognuno dei due strappato a sé  diventa altro: ciò che meraviglia l’innamorata è che il languore  passivo della sua carne sia riflesso sotto la forma dell’impeto virile;  ma la narcisista riconosce tropo confusamente i suoi desideri  nel sesso maschile che si erge. Tra le donne l’amore è contemplazione; le carezze sono destinate meno a impadronirsi dell’altra che a ricrearsi lentamente attraverso l’altra; il distacco è abolito, non c’è né lotta, né vittoria, né disfatta; in un’esatta reciprocità ognuno è nello stesso tempo soggetto ed oggetto, padrona e schiava: la dualità è complicità. “La stretta somiglianza” dice Colette “incoraggia anche la voluttà. L’amica si compiace nella certezza di carezzare un corpo di cui conosce i segreti e di cui il proprio corpo le indica le preferenze”. E Renée Vivien:

“Notre coeur est semblable  en nostre sein de femme / très chere! Notre corps est pareillement fait / un même destin lourd a pesé sur nostre âme / je traduis ton sourire et l’ombre sur ta face / ma douceur est égale à ta grande douceur / par fois même il nous semble être de même race / j’aime en toi mon enfant, mon amie et ma soeur.”

Questo sdoppiamento può prendre aspetto materno; la madre che si riconosce e si aliena nella figlia ha spesso per lei un attaccamento sessuale; ha in comune con la lesbica il gusdto0 di proteggere e di cullare tra e sue braccia un tenero oggetto di carne. Colette sottolinea questa analogia scrivendo nelle “Vrilles de la vigne”: “Tu mi darai la voluttà, china su di me,, gli occhi pieni di ansietà materna, tu che cerchi nella tua amica appassionata la figlia che non hai avuta”.

E Renée Vivien esprime lo stesso sentimento:

“Viens, je t’emporterai comme une enfant malade / Comme une enfant plaintive et craintive et malade / entre mes bras nerveux, j’étreins ton corps léger / tu verras que je sais guérir et protéger / et que mes bras sont faits pour mieux te protéger.” E ancora:

“Je t’aime d’être faible et calme entre mes bras / ainsi qu’un berceau tiéde où tu reposeras.”

In ogni amore – amore sessuale o materno – c’è nello stesso tempo avarizia e generosità, desiderio di possedere l’altro e di dargli tutto; ma la madre e la lesbica concordano particolarmente nella misura con cui tutte e due sono narcisiste, carezzando nella figlia, nell’amante il loro prolungamento o il loro riflesso.

Tuttavia il narcisismo non porta sempre all’omosessualità: l’esempio di Maria Bashkirtseff lo prova; nei suoi scritti non si trova la minima traccia di un sentimento affettuoso per una donna; cerebrale più che sensuale, estremamente vanitosa, sogna fin dall’infanzia di essere valorizzata dall’uomo: niente le interessa oltre ciò che può contribuire alla sua gloria. La donna che si idolatra esclusivamente e che mira ad un successo astratto è incapace di complicità nei confronti di altre donne; vede in esse solo delle rivali e delle nemiche…»

 

De Beauvoir, come si vede, prende a prestito i concetti dell’”in sé” e del “per Sé”, di peso, dalla concezione filosofica del suo celebre compagno, Jean-Paul Sartre: ma ci vorrebbe ben altro che non questa posticcia vernice filosofica per dare una dignità speculativa alle sue elucubrazioni, nelle quali, semmai, si sente la volontà di giustificare “a posteriori”, e di nobilitare il più possibile, una tendenza omosessuale che, a suo credere, e al credere  di molte femministe, sarebbe congenita alla natura della donna, proprio come sostiene anche Germaine Greer.

Quanto al fatto che una poetessa lesbica, che ha scritto esclusivamente versi lesbici, chiami la donna da lei amata con i nomi di bambina, amica e sorella, e affermi che in lei ella ama se stessa, è un po’ poco per sostenere una teoria generalizzata dell’omosessualità femminile: ci porterebbe molto più vicino al vero, secondo noi, scomporre questa categoria, così ampia e variegata, in una molteplicità di fattori e di cause fra loro distinti, talora intrecciati, mai univoci. Una cosa è l’omosessualità congenita, altra quella acquista; una cosa è quella che nasce da profondi conflitti psicologici, altra quella che sorge da una pura e semplice attrazione sensuale; una cosa è il lesbismo come ricerca nevrotica di un surrogato della figura materna, altra cosa è quello che trae origine da una forma esasperata di narcisismo. In ogni caso, ricondurre ogni forma di omosessualità sotto quest’ultima categoria, ci sembra una forzatura, oltretutto parecchio semplicistica: come appare nel pessimo film di Franco Brusati «Dimenticare Venezia» (1979), ove tutto ruota intorno a quest’unica idea, non solo stiracchiata, ma palesemente insufficiente: che l’omosessualità, sia maschile che femminile, sia nient’altro che una sorta di blocco nel processo di maturazione psicologica e una cristallizzazione della personalità al livello del narcisismo infantile.

Bisogna riconoscere a Simone De Beauvoir di aver ammesso che non sempre il narcisismo della donna la porta “naturalmente” verso il lesbismo, ma solo quando esso non nasce da una fredda e imperiosa volontà di autoaffermazione, di gloria, di celebrazione del proprio io (molto pertinenti sono le sue osservazioni a proposito della pittrice russa Maria Baškirceva). Ma non è come riconoscere che la propria teoria fa acqua da tutte le parti? Prima teorizza che il lesbismo altro non sia che una forma di narcisismo, simile a quello della madre (e anche qui vi sarebbe molto da dire: è proprio vero che tutte le madri vivono la loro condizione in maniera assolutamente narcisista?); poi deve ammettere che vi sono donne, sommamente narcisiste, che non propendono affatto verso di esso, proprio perché troppo prese e assorbite dal loro stesso io. Ma non è come incrinare la propria spiegazione del fenomeno della omosessualità femminile?

Gratuita ci sembra anche l’affermazione che, nell’amore lesbico, non vi sarebbero né lotta, né vittoria, né disfatta; è noto, al contrario, che le relazioni saffiche, in confronto alla maggior parte di quelle eterosessuali, si caratterizzano per un di più di aggressività e di volontà di dominio dell’una sull’altra, che le rendono instabili proprio per un eccesso di tensione competitiva e per l’atmosfera di morbosa, allucinante segregazione in cui la partner dominante vorrebbe rinchiudere la propria compagna.

Difficile dire, come afferma con tanta sicurezza la Beauvoir, che l’amore tra donne sia innanzitutto contemplazione: non è questa l’impressione che si ricava dalle confessioni intime delle lesbiche, come quelle contenute nel  Secondo Rapporto Kinsey o nei libri di Nancy Friday, oppure dalle opere di scrittrici lesbiche che hanno descritto con abbondanza di particolari la dimensione fisica dei loro rapporti sessuali, come Rita Mae Brown. Ci sembra che Beauvoir si sia lasciata trasportare da un desiderio, conscio o inconscio, di idealizzare l’amore omosessuale femminile, in nome del suo assunto psicologico di una naturale propensione femminile verso il lesbismo, e del suo credo ideologico femminista circa un profondo bisogno di “liberazione” della donna dopo secoli di catene, di repressione e di colpevolizzazione dei suoi naturali istinti. Ella cita Renée Vivien, cita Colette, due scrittrici che rappresentano il polo “femminile”, dolce, malinconico di questo particolare Eros letterario; ma esiste anche l’altro polo, aggressivamente dominatore, in cui ci sono, sì, la lotta, la vittoria e la disfatta, come cantato anche da Baudelaire, che era un maschio, ma di sentimenti qualcosa capiva (cfr. i nostri precedenti articoli: «Cenere e polvere negli amori impossibili di Renée Vivien», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 27/12/07; e «Ci sarà mai redenzione per le “donne dannate” di Baudelaire, divise fra desiderio e rimorso?», pubblicato il 2/11/2011):

«Al fioco lume di lucerne languide, / sopra cuscini profondi impregnati / d’odori, Ippolita fantasticava / delle potenti carezze che il velo / toglievano al suo giovane candore. / Ella cercava con l’occhio turbato / dalla bufera, il cielo già lontano / della sua ingenuità; come il viandante / che volga il capo agli azzurri orizzonti / superati al mattino. Le accidiose / lagrime dei suoi occhi spenti, l’aria / affranta, la meraviglia, la cupa / voluttà, le sue braccia vinte, sparse / come armi inutili, tutto serviva, / tutto ornava la sua bellezza fragile. / Stesa ai suoi piedi, tranquilla e ricolma / di esultanza, Delfina la covava / con occhi ardenti, simile ad un forte / animale che sorvegli la preda / dopo averla marchiata con i denti. / Forte bellezza inginocchiata innanzi alla bellezza fragile, superba / con voluttà il vino del suo trionfo / fiutava, e a lei si protendeva, come / per coglierne un ringraziamento dolce. / Nell’occhio della sua pallida vittima /  cercava il muto inno del piacere, / l’infinita e sublime gratitudine / che come un lungo sospiro esala /  dalle palpebre…».

Il punto non è che, negli amori lesbici, non vi siano un vinto e un vincitore: perché il vinto e il vincitore vi sono in tutti gli amori, siano essi omosessuali o eterosessuali, nei quali non si realizza un vero incontro d’anime, un dono reciproco e disinteressato di bene e, dunque, anche di piacere, ma che si riducono a un campo di battaglia ove sfogare antiche rivalse, frustrazioni immedicabili, amarezze e sconfitte mai elaborate, né superate. Alla retorica femminista piace dipingere così l’amore lesbico: come un felice incontro di anime belle, paritario e quindi anche pacifico, contemplativo, non competitivo: quasi un ritorno alla dolcezza e alla purezza originarie dell’Eden. Ma è solo una falsificazione ideologica: la verità è che la differenza fra l’amore in cui si ricerca la sopraffazione dell’altro, e quello in cui si realizza una serena fusione affettiva e psicologica, oltre che fisica, non passa per la differenza di genere, bensì per il diverso livello di consapevolezza e di maturità cui le persone sono giunte nel corso della loro vita: che si tratti di donne, oppure  d’uomini.