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Nella civiltà moderna vige un’ipocrisia collettiva che defrauda l’Io di se stesso

di Francesco Lamendola - 27/01/2015

Fonte: Arianna editrice


 

 


 

Da Pirandello in poi, è entrata nel bagaglio comune della cultura moderna la nozione di un Io scisso, frantumato, divenuto straniero a se stesso; e si parla sempre più spesso, a proposito e a sproposito, della frammentazione della coscienza, della dissoluzione della persona, della volatilità dell’individuo come essere unico e presente a se stesso.

Tale nozione, poi, si intreccia sovente con quella, in effetti del tutto diversa, dell’inconscio, volgarizzata dalla psicanalisi freudiana, ma già esplorata e descritta da scrittori come Dostoevskij (per non parlare dei tragici greci); sicché, nell’immaginario comune, le due cose hanno finito per sovrapporsi: la disgregazione dell’Io e l’affiorare di istinti misteriosi e insospettati alla vita della coscienza sono divenute due facce di una stessa crisi, di una stessa realtà problematica: la perdita delle certezze sull’uomo, sulla sua identità, sul suo essere autentico.

Ora, se andiamo a cercare il primo accenno di una piena consapevolezza di questo dramma interiore, lo troviamo in Petrarca, precisamente nella lettera a Dionigi da Borgo San Sepolcro, nella quale descrive l’ascensione al Monte Ventoso, in Provenza: «quel doppio uomo che è in me», dice il cantore di Laura, con straordinaria lucidità, parlando di se stesso. Certo, la matrice letteraria di tale espressione si trova nel suo amato Sant’Agostino, protagonista, non a caso, del primo dialogo introspettivo della letteratura moderna: il «Secretum». Non si tratta, però, di semplice imitazione o di pura reminiscenza. Negli scrittori antichi vi è la consapevolezza delle forze interne presenti nell’Io e capaci di erompere all’improvviso, così  come la difficoltà di accordare la volontà con la voce della coscienza: non dice forse, Medea, nelle «Metamorfosi» di Ovidio: «Vedo il bene e lo approvo; e faccio il male»? Però è con l’uomo moderno, e appunto a partire da Petrarca, che emerge la piena consapevolezza di una duplicità originaria dell’Io, di una sua frattura ontologica tra bene e male, tra dovere e piacere, tra un “me” di cui si può andare fieri ed un “lui” abietto e spregevole, che pur tuttavia abita nella sua stessa dimora, come l’inquietante signor Hyde abita nella stessa dimora del rispettabile dottor Jekyll.

Si suole dire, e ripetere, che tale duplicità, tale spaccatura, sono figlie del Medioevo e della cultura cristiana, precisamente del suo dualismo; e si tirano in ballo il Manicheismo e, ancora, Sant’Agostino. Strano, stranissimo: si percorra tutta la letteratura medievale, si scruti a fondo la filosofia medievale, compresa la «Divina Commedia» e la «Somma Teologica», e non si troverà niente del genere. Certo, nella visione dell’uomo medievale vi è la coscienza di un Io peccatore; vi è anche, come dice San Paolo, il rammarico per una incapacità di fare il bene, pur vedendolo, e una misteriosa, drammatica inclinazione al male: «Non faccio il bene che voglio, ma il male che non voglio», scrive l’Apostolo delle genti nel suo capolavoro teologico, la «Lettera ai Romani». Questo, però, è altra cosa dal senso di una intima scissione, di una duplicità irrisolvibile, non solo morale, ma ontologica, così come è presente negli scrittori (e nei pensatori) moderni, da Petrarca a Pirandello, passando per Stevenson e Dostoevskij, per non parlare di Thomas Mann, Kafka, Musil, Proust, Joyce.

L’uomo medievale conserva, nonostante il mistero del male e la vertigine del peccato, il senso della propria unità coscienziale, perché il cristianesimo si fonda sul concetto della libertà morale dell’uomo, dunque sulla certezza che l’Io è indiviso e indivisibile, anche se soggetto a oscuramenti, turbamenti, crisi; tutte cognizioni che entrano in crisi con la modernità, a partire dall’Umanesimo: proprio da quell’Umanesimo che sembra mettere l’Io al centro di tutto.

Questo, infatti, è il paradosso: la modernità, che nasce come rivendicazione dell’autonomia dell’uomo nei confronti del divino, della creatura verso il Creatore, dell’ente verso l’Essere, dà origine, fin dal suo sorgere, a una scissione dell’Io, a una frattura irreparabile, a una immedicabile ferita: e l’uomo, che vorrebbe dominare il mondo e che rivendica orgogliosamente il suo essere misura di tutte le cose, sente sfuggire da se stesso il proprio Io, lo vede allontanarsi e disperdersi sotto i suoi occhi, impotente a trattenerlo, incapace di opporsi a questo tragico distacco, che lo lascia sbigottito e smarrito, come chi si sia smarrito proprio nella casa che credeva di conoscere alla perfezione, e scopra d’improvviso, con raccapriccio, che essa è un vero e proprio labirinto, dal quale non trova più il modo di uscire.

Il sogno della potenza, del dominio sulle cose, della piena padronanza di se stesso, si è così trasformato in un incubo: le vie note sono diventate minacciosamente ignote, il mondo disincantato si rivela un luogo freddo e inospitale, non vi è più un posto sicuro ove porre il piede, sul quale fare forza per trovare una soluzione, o almeno per cercare un orientamento. L’Io si scopre posticcio, falso, contraffatto, inattendibile, persino beffardo: e sotto di esso, chissà, forse c’è il nulla, il vortice della pazzia, lo scacco totale e irreparabile. Anche i filosofi della tarda modernità se ne sono accorti, e hanno parlato, come Heidegger, di una vita inautentica, basata su vuote chiacchiere e su menzogne, senza più una sola parola di verità, chiusa come in una grotta e senza alcuna speranza di «uscire a riveder le stelle», anzi, dominata dal disgusto e dalla nausea esistenziale. La caverna platonica pare essere diventata un carcere perenne, dal quale non si può sortire, e da cui non si riesce nemmeno a scorgere quel filo di luce, quell’indizio di verità che renderebbero almeno un poco più sopportabile la vita dei prigionieri, la nostra vita di ex signori e padroni del mondo, ridotti all’impotenza e alla disperazione da un eccesso di spirito faustiano e prometeico, dal fallito tentativo di stringere un soddisfacente patto col Diavolo, di rubare il fuoco agli dei in nome del progresso e della felicità.

Ma ancor più tremenda di questo fallimento, di questa sconfitta, di questa prigionia, è la grande, imperante, universale ipocrisia: la finzione che non sia successo niente, che ciascuno sia ancora se stesso, che l’Io continui a regnare indisturbato e potente sul suo trono; che legiferi ancora sul mondo, che la sua Torre di Babele non sia stata nemmeno sfiorata dalla forza dei venti e dalle crepe nei muri; che nessuna maschera, nessuna finzione, nessuna bugia intacchi la vita dell’anima, e che la coscienza possieda ancora la piena padronanza di se stessa, sia ancora pienamente capace di dirigere la volontà dove vuole, quando vuole e come vuole.

Ed è una ipocrisia penetrata così a fondo, da esser diventata nell’uomo moderno come una doppia natura: tutti sanno, in fondo, che si tratta di una indegna commedia, eppure tutti seguitano a recitarla, ostinati e imperterriti; tutti avvertono il disagio della finzione, tutti si sentono dei cattivi attori che stanno recitando fuori parte, eppure nessuno ha il coraggio di gettare la maschera, di riconoscersi nudo, di chiedere perdono a se stesso, se non altro, per questa inconcepibile infedeltà nei propri confronti, per questo tradimento del proprio Io autentico.

Logico, del resto, anche se molto triste: perché, per trovare un simile coraggio, ci vuole la fierezza, per avere la fierezza, ci vuole la rettitudine; e per possedere la rettitudine, sono necessarie una coscienza integra, una visione limpida di sé, una volontà intatta rispetto a compromessi, finzioni, mezze verità ed ambizioni sbagliate.

Ha osservato acutamente, a questo proposito, il teologo Pietro Parente nel suo libro «Dio e l’uomo» (Torino, Marietti, 1949, pp. 7-10):

 

«Accade spesso di leggere e di sentir dire che l’età moderna, inaugurata con l’umanesimo, si distingue per una vigorosa affermazione della personalità umana. È una delle tante frasi fatte che formano il bagaglio della cultura comune, travasata spesso senza controllo da un cervello all’altro. la realtà storica è diversa. Perché non è vero che il medioevo cristiano sia meno individualista dell’età moderna: basta ricordare la cavalleria e la forte reazione democratica dei Comuni contro le strutture feudali e il regime imperiale, per tacere della congenita tendenza del Cristianesimo a difendere e valorizzare in ogni situazione la persona del singolo nella luce della Incarnazione e della redenzione, della creazione e del fine supremo dell’uomo fatto responsabile della sua vita di fronte a Dio. La Chiesa, espressione di una socialità soprannaturale, ancora oggi è l’unica vera paladina della dignità della persona umana. Bisogna riconoscere col Manzoni che il Cristianesimo, in contrasto col paganesimo, ha rivelato l’uomo a se stesso.

Il pensiero e la civiltà moderna, invece, nella misura del loro emanciparsi dal benefico influsso della religione di Cristo, hanno causato il naufragio del’Io, pur ostentando una tendenza individualista alimentata dal predominio del soggettivismo. Sta di fatto che lì’epilogo d tale civiltà segna l’assorbimento della persona umana in un Io trascendentale, anonimo, sulla linea filosofica, e il sacrificio del singolo alle esigenze della statolatria o del partito di massa, sulla linea politico-sociale.

Solo sul terreno religioso la vicenda dell’Io ha una parvenza di trionfo con la Riforma luterana; ma qui la presta individualistica, spinta fino al parossismo, si risolve in uno smarrimento dell’Io di fronte all’oscuro problema del soprannaturale, che in balia dell’arbitrio pere ogni risorsa costruttiva e orientatrice.

Ma lo scacco più grave è quello che l’Io subisce nel febbrile dinamismo e nel complicato ingranaggio della vita pratica odierna. Il meccanismo, la tecnica, la burocrazia, il formalismo cerimoniale, la diplomazia ufficiale e ufficiosa, la stampa forgiatrice dell’opinione pubblica, la politica proteiforme, la demagogia faziosa d’ogni colore, gli spettacoli maliosi e la letteratura galeotta, sono altrettanti strumenti di soffocazione della personalità umana costretta AD AMIENTARSI, AD AGGIORNARSI, A SINTONIZZARSI, perdendo così la propria iniziativa e la propria fisionomia. Bisogna fare come fanno gli altri, bisogna seguire lo stile, la moda. Il mimetismo, il rispetto umano, la convenienza sociale riducono la vita ad un artificio, in cui lo spirito umano si muove a disagio, come Davide nell’armatura di Golia, e la persona resta deformata, come la donna schiava del trucco.

Domina nella civiltà moderna un’ipocrisia collettiva che spersonalizza l’uomo, livellandolo nella morta gora dell’anonimo. C’è dispersione centrifuga, che toglie il controllo e il dominio di sé, c’è una corrente che travolge prepotentemente pensiero, libertà e sentimento, che sono la rama della personalità vissuta. Nel frastuono della vita quotidiana associata l’uomo non avverte l’umiliazione di questo travolgimento. Tuttavia qualche barlume si fa nel silenzio e nella solitudine.

Quando a sera rientro nella mia casa, nella mia camera sola, depongo la maschera e smetto la divisa della vita d’ogni giorno, con tutto il fardello delle sue esigenze e delle sue preoccupazioni, e mi penso, mi sento, mi scruto, quasi sdoppiando la mia personalità, soggetto e oggetto. Allora vedo in me un Io diverso da quello superficiale della giornata, un Io che rinnega molte parole dette, che respinge sdegnoso l’attribuzione di cose da me pensate e fatte. Allora m’accorgo di non essere me stesso! La coscienza è il diaframma tra questi due Io, diaframma rivelatore come un microscopio a cui l’uomo generalmente teme di accostare l’occhio, preferendo di vivere incosciente nella sfera abbacinante dell’Io superficiale fatto d’illusione e di menzogna. Egli deve ingannarsi e farsi violenza per dire a se stesso: io sono così; deve spesso mentire per ripeterlo agli altri. E se qualcuno con occhio più penetrante e sincero del suo, riuscisse a cogliere qualche linea del suo Io autentico, egli si offenderebbe protestando in nome della propria coscienza, che a sua volta protesta contro di lui. L’ipocrisia verso gli altri scaturisce dall’ipocrisia verso se stessi.

La salvezza sta nel liberarsi da questa doppia ipocrisia. Bisogna avere il coraggio e la forza di smascherarsi quando si è soli per conoscersi come realmente si è di fronte alla propria coscienza. Dalla mobile e iridescente superficie dell’Io usuale, sperduto nella vita collettiva d’ogni giorno, bisogna discendere nelle profondità dell’abisso psicologico. Straniarsi dal mondo esterno, evadere dal suo meccanismo asfissiante, infrangere lo specchio magico del falso Io, penetrarsi con l‘acume della riflessione e con la forza d’una decisa volontà fino al midollo dello spirito, fino alla radice della propria personalità, ecco l’itinerario della più grande scoperta: la scoperta dell’Io vero, autentico, nel suo volto senza maschere e senza veli.»

 

La conclusione che possiamo ricavare da tali riflessioni è che l’Umanesimo (con la iniziale maiuscola) è un falso umanesimo, perché tradisce l’intima essenza dell’uomo: che consiste nella sua condizione creaturale, nel suo essere ente che anela a ritornare verso l’Essere. Dall’autonomia dell’Io si è passati alla pretesa della sua radicale indipendenza, il che equivale a rescindere il legame originario con l’Essere: ma ciò è impossibile per la creatura, poiché equivale al suo suicidio, alla negazione di se stesso. L’uomo è veramente uomo solo a condizione di riconoscersi per quello che è: fragile e inquieto, assetato di Assoluto, ma incapace di realizzarlo da sé solo.

Fino a quando continuerà questa negazione, continuerà anche questa miseria; e fino a quando continuerà questa miseria, seguiterà questa ipocrisia, nella quale siamo immersi: continueremo a vivere nella menzogna, senza il coraggio di guardarci allo specchio della coscienza e di vederci per quello che realmente siamo. Esito solo in apparenza paradossale della nostra “hybris” faustiana e prometeica: chiedendo sempre più Io, abbiamo finito per smarrirlo; pretendendo sempre più libertà, abbiamo finito per ridurci all’impotenza.

E adesso, è ormai solo una questione di coraggio - e, soprattutto, di umiltà.