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Europa 2015: Aspettando il ritorno della Storia

di Luigi Tedeschi - 27/01/2015

Fonte: centroitalicum

La presidenza di Napolitano è giunta al termine. Essa porta in dote storicamente: la perdita per l'Italia del 25% della sua produzione industriale, il calo del Pil di 9 punti dal 2008, un debito pubblico che ha raggiunto la soglia di 2.157 miliardi, la disoccupazione al livello record del 13,4% (quella giovanile è al 43,9%), una economia in recessione, con deflazione in aumento. Il bilancio della politica di austerity inaugurata dal governo Monti, sotto gli auspici di Napolitano, ma tuttora in atto, è fallimentare. Il declino dell'Italia si situa in un contesto di decadenza europea, in una Europa che, stretta nella morsa della politica monetaria della BCE, secondo previsioni accreditate, tra un decennio costituirà l'1% del Pil mondiale. E' ormai alla scadenza il semestre italiano di presidenza europea, della cui presenza nessuno si è accorto. Nel prossimo futuro l'Eurozona potrebbe dissolversi.

L'Italia della inflazione negativa e delle riforme suicide

I tassi sui Bot trimestrali italiani sono negativi. Gli effetti della deflazione si stanno rivelando assai  preoccupanti. Il debito pubblico italiano è oggi per il 75% nelle mani dei risparmiatori italiani. La diffusa sfiducia nelle prospettive future del paese induce la popolazione al decremento dei consumi e degli investimenti, riversando la quota risparmio in titoli di stato dai rendimenti negativi, ma che comunque possono rappresentare l'unico impiego che può garantire una qualche sicurezza. I tassi di interesse sul debito pubblico rappresentano una fonte di erogazione di liquidità da parte dello stato, che si traduce in flussi monetari che generano consumi. Ma gli attuali tassi negativi, determinano una riduzione della liquidità che alimenta viceversa ulteriori cali di consumi e incentiva la deflazione latente. Certo è che il calo dei tassi può avere effetti positivi sul debito, sia interno che estero, specie per l'Italia che è gravata da un debito pubblico abnorme e un debito estero aumentato considerevolmente negli ultimi anni. Ma mentre la deflazione deprime sempre più il risparmio, i tassi sul credito bancario rimangono inalterati e pertanto, si verifica la sciagurata situazione in cui, al calo dei consumi dovuto alla deflazione, fa riscontro il decremento degli investimenti, penalizzati da un costo del denaro troppo elevato.

La presente fase di deflazione è certo dovuta in larga parte al calo dei prezzi del petrolio, causato sia dal calo della domanda globale, che dalla politica ribassista dei paesi dell'Opec, penalizzati dalla raggiunta autosufficienza energetica americana dovuta alla estrazione dello  shale gas e dallo sviluppo delle fonti energetiche alternative nei paesi industrializzati. Poiché l'Italia ha una elevata dipendenza energetica dal greggio (circa l'80%), il ribasso della bolletta petrolifera (fino all'1% del Pil), potrebbe favorire la ripresa. Tuttavia la riduzione del costo dell'energia in Italia si presenta assai più contento rispetto agli altri paesi industriali, dati gli elevati oneri di natura fiscale sui consumi energetici e la scarsa incidenza del limitato sviluppo delle energie rinnovabili.

La riforma del lavoro di Renzi, il Job Act, può solo condurre ad un ulteriore deprezzamento dei salari, che si tradurrà necessariamente in nuove accresciute depressioni dei consumi. Il rispetto dei parametri europei legati al rapporto deficit / Pil del 3% e del fiscal compact è decisamente improbabile con un Pil vicino allo zero ed un debito pubblico in costante ascesa. Si renderanno quindi necessarie le nuove manovre correttive imposte dalla BCE: aumento dell'Iva al 25% e rincaro delle accise, misure suicide in una fase recessiva – deflattiva come quella attuale.

Europa: il “bazooka” di Draghi sarà sufficiente?

In un contesto recessivo che coinvolge l'intera Eurozona, si rendono necessarie misure non convenzionali da parte della BCE, quale il Quantitative Easing (QE - politica monetaria non convenzionale, mediante la quale la banca centrale acquista titoli di stato o di altro tipo stampando moneta), denominato “bazooka Draghi”, già annunciato come imminente.

Per la ripresa dell'economia europea sono state peraltro annunciate anche altre misure, quali il “piano Junker”. Tuttavia si rileva la scarsa credibilità di detta manovra, che consiste in un piano di investimenti strutturali europei ipotizzato per 300 miliardi. Tale somma verrebbe reperita in misura minima (poco più di 20 miliardi) attraverso lo storno da altri fondi europei già stanziati, e per il resto da investimenti privati il cui reperimento appare assai improbabile, dato che sembra piuttosto inverosimile l'impegno massiccio degli investitori in progetti come la riqualificazione di aree europee depresse.

Il QE, che ha determinato la ripresa dell'economia americana, incontra la netta opposizione tedesca. Le obiezioni della Germania possono essere così riassunte.

-        La Germania sostiene che l'acquisto diretto da parte della BCE sarebbe vietato dal trattato di Maastricht, perché si tradurrebbe in un trasferimento agli stati da parte della banca centrale. Si può tuttavia obiettare che la Germania con la crisi del 2008 ha erogato a sostegno del proprio sistema bancario 247 miliardi: aiuti di stato a tutti gli effetti, che però non sono stati consentiti agli altri paesi.

-        Si annunciano ricorsi alla corte costituzionale tedesca, in quanto l'erogazione di liquidità della BCE comporterebbe l'acquisto di titoli di stato di debiti sovrani di paesi in crisi e quindi la condivisione da parte dei cittadini tedeschi dei rischi sul debito di tali paesi.

-        La Germania sostiene inoltre che il sostegno ai paesi in crisi, costituirebbe un "azzardo morale", poiché determinerebbe un allentamento del rigore finanziario imposto dall'Europa e li indurrebbe a ritardare o a vanificare il processo di riforme strutturali.

-        I tedeschi inoltre agitano lo spettro dell'inflazione: infatti, poiché la massima parte degli investimenti tedeschi è concentrata in prodotti finanziari, l'elevarsi del tasso di inflazione (che consentirebbe la ripresa della produzione e dei consumi – necessario almeno per il 2%), costituirebbe un danno per i profitti finanziari tedeschi, che anzi vengono rivalutati dalla deflazione. E' evidente che la crisi devastante subita dall'Europa è una crisi indotta dalla politica finanziaria tedesca e dalla BCE: l'economia europea è stata sacrificata ai rendimenti finanziari tedeschi.

 Si nutrono da più parti seri dubbi circa l'efficacia del QE di Draghi. Le aste di rifinanziamento delle banche europee (misura denominata Tltro), da parte della BCE hanno avuto esiti deludenti. Si ritiene che verrà acquisito dalle banche solo il 50% della liquidità offerta. Le banche incontrano difficoltà nella erogazione del credito ad imprese e privati. Ciò avviene non solo a causa della sfiducia degli imprenditori, ma anche e soprattutto per i vincoli imposti alle banche dalla unificazione bancaria europea. Infatti, a fronte degli impieghi di liquidità, le regole europee impongono loro corrispondenti aumenti di capitale. Con gli stress – test, che consistono nella simulazione di scenari di crisi attuate per vagliare la tenuta delle banche in situazioni di crisi, si sono imposte alle banche italiane forzate ricapitalizzazioni. In osservanza dei parametri  stabiliti  dagli organi di vigilanza bancaria europei, sono state sottratte alla economia ingenti risorse per gli investimenti, che sono diminuiti del 25/30 per cento.

Si avverte il fondato timore che il QE potrebbe subire rilevanti condizionamenti da parte tedesca e quindi essere vanificato nei suoi effetti. Infatti la Germania potrebbe imporre vincoli penalizzanti alla erogazione di liquidità. Potrebbe imporre ai paesi in crisi (vedi l'Italia), come condizione la realizzazione di riforme strutturali dagli effetti devastanti riguardo lo stato sociale e quindi causare un inasprimento della austerity che condurrebbe al default le economie europee già falcidiate dalla crisi. In effetti la immissione di liquidità del QE si rivela incompatibile con la sussistenza di politiche di rigore finanziario imposte alle economie in crisi, la cui ripresa è possibile solo se si consentisse una ampia flessibilità delle regole di austerity sui conti pubblici.

La Germania potrebbe inoltre imporre di non acquistare titoli di paesi in crisi,  misura che  esporrebbe i debiti sovrani, con il rialzo dei tassi di interesse, ai venti delle manovre speculative, con nuove crisi del debito simili a quelle del 2011. In tal caso l'implosione dell'euro sarebbe assai probabile.

Il QE resta comunque una misura di carattere finanziario necessaria, ma non sufficiente a determinare la ripresa economica europea. La liquidità della BCE per trasmettersi alla economia dovrà necessariamente essere erogata da un sistema bancario che, oltre a subire i condizionamenti della vigilanza europea, rivela una sua intrinseca debolezza, dovuta alla crisi del 2008 che ancora riverbera i suoi effetti nei bilanci bancari, afflitti da notevoli quantità di crediti in sofferenza e/o inesigibili. Occorrerebbe procedere a ristrutturazioni profonde che consentano il risanamento del sistema bancario, con l'estromissione dalle sue attività degli investimenti speculativi e con l'assoggettamento delle banche stesse al controllo statale. Ma tali riforme in una Europa governata da un ente finanziario privato quale è la BCE, sono impossibili, anche a prezzo del suicidio dell'Europa stessa.

La crisi greca aprirà una nuova era?

Un fantasma si aggira per l'Europa: la Grexit, cioè l'uscita della Grecia dall'euro, in caso di vittoria di Tsipras alle imminenti elezioni politiche. Questo fantasma ha connotati assai concreti. Alla Grecia, un paese in cui larga parte della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà, in cui gli stipendi degli statali sono stati ridotti del 40%, negli ospedali mancano medicinali, è stata richiesta dalla Troika una nuova manovra correttiva sui conti pubblici. Il debito pubblico greco è pari al 175% del Pil e la politica fiscale imposta dalla Troika (UE, BCE, FMI), è ormai insostenibile. Occorre comunque rilevare che i prestiti concessi dalla Troika nel 2011 a fronte della crisi del debito, sono stati impiegati per il 50% per il pagamento degli interessi sul debito, a prezzo di vorticosi aumenti della pressione fiscale e di riforme strutturali che hanno devastato il paese. I prestiti internazionali quindi sono stati erogati allo scopo di garantire i creditori finanziari, non certo per il risanamento della Grecia. Un paese, le cui risorse sono devolute per il servizio del debito in massima parte, non potrà mai far crescere la propria economia. Tsipras, in caso di vittoria, pretenderà la ristrutturazione del debito e la fine del commissariamento da parte della Troika.

La ristrutturazione del debito greco è avversata dalla Germania e dalla BCE. A fronte delle crisi del debito sovrano dei membri dell'Eurozona, l'Europa dispone di strumenti quali il Fondo salva Stati e l'acquisto illimitato dei titoli di stato da parte della BCE. Entrambe le misure non sono più praticabili. Il Fondo salva Stati non dispone di risorse adeguate. Inoltre, poiché il debito greco è detenuto per l'80% da altri paesi europei, dal Fondo salva Stati e dal FMI, un eventuale taglio del debito a seguito di un programma di ristrutturazione, si tradurrebbe in un trasferimento a favore della Grecia, a carico dei contribuenti degli altri paesi europei. La contrarietà della Germania è nota, essa si appella al trattato di Maastricht che vieta trasferimenti agli stati. L'unica via percorribile sarebbe allora quella dell'uscita della Grecia dall'euro, che comporterebbe la probabile implosione dell'euro stesso. Da fonti autorevoli si apprende che l'uscita dall'euro della Grecia, comporterebbe una perdita per la Germania di 77 miliardi. Inoltre la Germania ha ribadito che non verranno erogati alla Grecia le ulteriori tranches dei prestiti già previste, qualora non vengano rispettati i programmi di austerity imposti dalla Troika. Tale situazione insanabile per la sussistenza della stessa Eurozona, potrebbe pregiudicare anche il QE di Draghi, poiché rafforzerebbe in sede UE le argomentazioni tedesche, circa l'erogazione senza condizioni di liquidità ai paesi a rischio di insolvibilità. Secondo la Germania tale rischio dovrebbe essere sopportato non dalla BCE, ma dalle banche nazionali dei paesi membri. La crisi europea coinvolge la stessa Germania, che registra una crescita minima nel 2014 ed un decremento degli investimenti e dei consumi, ma essa non avverte i rischi del processo deflattivo in atto, che anzi considera come un fenomeno che influisce positivamente sulla stabilità dei prezzi. In realtà la deflazione contribuisce all'incremento dei profitti finanziari a danno dell'economia europea in recessione. E' evidente che il primato tedesco ha potuto realizzarsi in virtù del collasso degli altri paesi europei.

Aspettando il ritorno della storia

L'Europa è dunque alle soglie di nuove crisi del debito e l'area euro potrebbe deflagrare. In realtà in Italia, come in larga parte degli stati membri della UE, il debito è insanabile e le crisi inevitabili. L'avanzo primario italiano, realizzato a prezzo di costi sociali alla lunga insostenibili, si rivela un esercizio di virtuosità finanziaria inutile e  dannoso, dal momento che le risorse del paese sono destinate in massima parte al servizio del debito e al rispetto dei parametri europei, a discapito degli investimenti.

Potremmo dunque assistere nel 2015 alla fine dell'euro. Al di là dei foschi orizzonti paventati dalle fonti mediatiche ufficiali, questa crisi potrebbe rappresentare una svolta storica. La crisi greca potrebbe segnare l'inizio di profondi mutamenti nella struttura di una UE rivelatasi fallimentare, proprio perché fondata sulla rapacità finanziaria di alcuni paesi a danno degli altri. Siamo dinanzi alla crisi di un modello di società destinato alla lunga ad implodere, con l'insostenibilità del debito, perché sul debito è stato fondato.

Ma questa crisi pone interrogativi non solo di natura economica, ma di più ampia rilevanza. Anche se in Europa tutto andasse per il meglio, i parametri del debito/Pil venissero rispettati, i bilanci degli stati non fossero in deficit, vi fosse crescita economica, in quale società saremmo comunque condannati a vivere? In una società retta da parametri finanziari, in cui tutte le risorse materiali ed umane sarebbero impiegate per garantire equilibri finanziari, in cui regnerebbe comunque precarietà e flessibilità: asservimento del lavoro al capitale in cambio di sopravvivenza. In una tale società le istituzioni democratiche sarebbero condannate ad estinguersi, le diseguaglianze sociali sarebbero massimizzate, il potere politico sarebbe appannaggio di una ristretta classe oligarchica dominante. Tutte le risorse dell'Europa sono state sacrificate negli ultimi 20 anni alla costruzione di un tale modello sovranazionale.

Nel prossimo futuro sono improbabili le rivoluzioni, tuttavia occorre constatare che il novecento che si credeva morto sta tornando alla ribalta della storia, con le rivendicazioni delle sovranità nazionali perdute assai diffuse nei partiti euroscettici europei. La stessa crisi ucraina e il ripresentarsi di scenari di guerra fredda, con il risorgente nazionalismo russo contrapposto all'occidente americano, rimettono in discussione gli equilibri geopolitici sorti con la globalizzazione capitalista imposta dal primato mondiale americano. Gli stessi paesi emergenti del Bric  reclamano un ruolo nel contesto geopolitico mondiale.

Il modello capitalista globale, così come quello della UE, è stato imposto ai popoli come immutabile, irreversibile, incondizionato nel suo dominio assoluto. Ma la storia, già consegnata frettolosamente agli archivi, vuole riprendere il suo corso. La storia impone esigenze di trasformazione morali, politiche, sociali e, così come la natura, dopo essere stata troppo a lungo violentata (perché cancellata dalle speranze e dagli ideali dei popoli), può vendicarsi dimostrando la fallacità e l'infondatezza delle ideologie della post modernità. La storia ha per protagonisti gli uomini, i popoli, le civiltà, le guerre e le religioni. Con l'avvento del capitalismo assoluto si sono volute sopprimere, se non criminalizzare, le identità comunitarie dei popoli. Ma esse sono inestinguibili perché sono parte integrante della natura umana. Le crisi sistemiche sono da sempre il sintomo evidente di mutamenti di portata storica che potrebbero essere imminenti. Il futuro è gravido di storia: dovremo confrontarci con essa.