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Idee e prospettive del post - euro

di Giorgio Vitangeli - 27/01/2015

Fonte: centroitalicum

 


 

L’euro così  com’è  non può reggere a lungo. Turbolenze greche a parte, o sarà l’Italia a dover uscire, perché nelle condizioni attuali, malgrado politiche di “lacrime e sangue”, il debito pubblico continua a crescere e diventa insostenibile, o sarà la Francia con la vittoria elettorale di Marine Le Pen, a rovesciare il tavolo, o infine sarà la stessa Germania, seguita magari da Olanda e Finlandia, a rompere l’Unione Monetaria, arroccandosi in una più stabile “area del marco”.

Intanto le previsioni su una non lontana uscita dell’Italia dall’eurozona si vanno moltiplicando. Se non cambia la politica tedesca (e la Merkel non pare abbia alcuna intenzione di cambiarla…)  l’Italia sarà costretta ad uscire dall’euro già la prossima estate, avrebbero confidato alcuni economisti, consiglieri del premier Renzi, ad un loro collega francese, Jacques Sapir, il quale ha reso pubblica la confidenza ricevuta.

Circa un anno fa l’analista tedesco George Dorgan sosteneva che entro due, al massimo tre anni, l’Italia sarebbe stata costretta a gettare la spugna e ad uscire dall’euro. Un anno è già passato, quindi il “crack” potrebbe arrivare già entro il 2015.

Secondo il quotidiano inglese “The Guardian” l’Italia uscirà dall’euro entro due anni. Il “tuttologo” americano Edward Lutwak è sicuro a sua volta che l’Italia uscirà dall’euro, anche se sul quando non si sbilancia. Secondo il New York Times diverse grandi banche si stanno preparando al crack dell’eurozona.

 C’è anche chi ipotizza che l’euro possa scindersi in due monete: l’euro1 a guida tedesca, ed un euro “mediterraneo” più debole, che non sfianchi i Paesi aderenti col peso di una moneta forte su economie strutturalmente deboli , o indebolite da anni di “austerità”. Ad uscire dall’eurozona, secondo questa ipotesi, non sarebbero i Paesi deboli, come l’Italia, ma i pochi Paesi forti, legati alla Germania, incrollabilmente decisa a non accettare politiche monetarie espansive della BCE.

Rotto il vincolo monetario con gli altri Paesi dell’eurozona, appare però alquanto improbabile che i Paesi mediterranei, invece di riprendersi, almeno formalmente, la propria sovranità monetaria, accettino di privarsene di nuovo, trasferendola non si sa bene a chi. Perché i casi sono due, o dovrebbero trasferirla ad un organismo tecnico simile alla BCE, confidando che la maggiore omogeneità delle rispettive economie eviti gli squilibri dell’eurozona, o dovrebbero trasferirla ad un governo comune, realizzando cioè non solo una unione monetaria, ma una vera e propria unione politica.

Non sembra quest’ultima un’ipotesi realistica. L’esperienza disastrosa dell’unione monetaria infatti ha creato una vera e propria insofferenza per gli organismi sovranazionali. Perché mai gli Stati mediterranei dell’Unione Europea dovrebbero rinunciare a tornar padroni del proprio destino, cioè ad essere in condizioni di scegliere, grazie alla ritrovata sovranità monetaria, la politica economica ritenuta più vantaggiosa?

Per la verità qualche ragione ci sarebbe. Il ritorno alla sovranità monetaria di un singolo Paese di piccole o medie dimensioni come Grecia, Portogallo, Spagna, Italia e Francia, rischia d’essere doppiamente illusorio. Dalla padella dell’euro ricadremmo nella brace del dollaro.  Gli Stati Uniti infatti in virtù del ruolo di moneta internazionale  del  dollaro, potranno continuare a trasferire a piacimento inflazione sul resto del mondo, stampando cartamoneta a volontà, e potranno - manovrando i tassi d’interesse - costringerci ad adeguarci ed a sottostare alle loro scelte di politica monetaria, come è già accaduto più volte in passato.

Il secondo ostacolo alla piena sovranità monetaria è la massa enorme di capitali speculativi in giro per il mondo, a caccia costante di preda. E qui i casi sono due: o si pongono vincoli e limiti ai movimenti di capitali, quantomeno dei capitali a breve, e si rischia di scivolare  verso un sistema chiuso e tendenzialmente autarchico, o si hanno dimensioni tali e un potere politico capace di vincere e scoraggiare le scorribande speculative sulla moneta.

Nel suo  studio “Un saggio di verità”, che su basi rigorosamente giuridiche contesta la legittimità dell’euro, surrettiziamente stravolto rispetto ai trattati, Giuseppe Guarino mette in guardia appunto sui rischi  di condizionamenti esterni e di spoliazioni speculative cui andrebbe incontro un Paese minore, come l’Italia, che volesse  recuperare da solo la sovranità monetaria  trasferita alla BCE. Sono esperienze, d’altronde, che l’Italia ha già vissuto. Basti pensare alla decisione americana di alzare fuori misura i tassi d’interesse nell’ottobre 1979, trascinando al rialzo i tassi di tutti gli altri Paesi, ed appesantendo così in misura prima impensabile l’onere per il debito pubblico italiano, o alla scorribanda speculativa guidata da Soros, nel 1992, che costrinse l’Italia a svalutare la lira, dopo aver bruciato nella sua difesa tutte le riserve valutarie.

Guarino, che vagheggia un embrione di Europa politicamente unita, a guida francese, formata inizialmente dagli Stati Mediterranei, si è esercitato in alcuni calcoli. L’Italia, unita a tre economie dell’area dell’euro, nella graduatoria mondiale sarebbe al decimo posto per popolazione ed intorno al quarto per prodotto interno lordo. Aggiungendo anche la Francia, una tale Unione sarebbe tra il quinto ed il sesto posto per popolazione, e addirittura al secondo per prodotto interno lordo, superata solo dagli Stati Uniti.

Guarino non nomina i Paesi, e non è chiaro quindi se computa nel gruppo anche l’Inghilterra. Se così fosse effettivamente per “pil” una simile Unione sarebbe al secondo posto nel mondo. Ma anche senza l’Inghilterra, che non rinuncerà mai alla sua sovranità monetaria e tantomeno a quella politica, sarebbe al terzo posto, superata oltreché dagli Stati Uniti dalla Cina. In ogni caso una dimensione di tutto rispetto, che sarebbe resa inattaccabile da un comune governo politico, con una Banca Centrale pubblica, prestatrice di ultima istanza.

Ma, al momento, tutto ciò appare poco più che un sogno. La realtà è piuttosto quella di un progressivo deterioramento e di un improvviso collasso dell’eurozona, dopodiché nessuno è in grado di prevedere  quel che accadrà. Il rischio incombente è che in Italia si replichi, sul piano monetario, una sorta di nuovo otto settembre. Cioè una resa improvvisa, senza un piano strategico, senza direttive ed ordini, all’insegna del “si salvi chi può”.

La verità è che l’Italia sta affondando in seno all’eurozona, e – secondo alcuni - affonderebbe se ne esce.

Nei 40 anni che vanno dal 1950 al 1991 la crescita media del nostro “pil” – ricorda Guarino - è stata del 4,36%., superiore cioè a quella degli altri maggiori Paesi europei (Germania e Francia), ed anche degli Stati Uniti e dell’Inghilterra. Nei sei anni antecedenti al Trattato di Maastricht, a seguito delle restrizioni per superare l’esame dell’ingresso nell’euro, la crescita media italiana del “pil” si era ridotta al 2,68%. Si dimezzò all’1,34% nella fase transitoria  di omogeneizzazione delle economie dei Paesi che sarebbero entrati nell’eurozona. La crescita media del “pil” italiano nei quindici anni seguenti all’introduzione dell’euro è crollata allo 0,38%. Parallelamente è crollata, anche se, in misura minore, la crescita degli altri maggiori Paesi europei. Nella graduatoria degli Stati con minor sviluppo al mondo nel decennio 2000-2010 troviamo al terzo posto l’Italia, al decimo la Germania, al quattordicesimo la Francia. Fra i 35 peggiori Stati, cioè con la crescita più bassa, dodici sono dell’Unione Europea. Nel decennio precedente non ce n’era neppure uno. Nel resto del mondo nel ventennio 1975-’95 la crescita media del pil era stata  del 2,8%; era aumentata al 4% circa nel decennio 2004-2013, superando il 5%  nel quinquennio dal 2006 al 2010. E’ evidente, secondo Guarino, che questo andamento divergente ha la sua origine temporale e la sua causa nell’introduzione dell’euro e  nei vincoli di bilancio e nelle politiche di austerità arbitrariamente imposte. Nonché, aggiungiamo noi, in quel “liberalismo male inteso” che – come scriveva già  20 anni or sono il Nobel dell’economia  Maurice Allais, ”ha aperto la Comunità Europea a tutti i venti  di un’economia mondialista, lasciandola disarmata, senza alcuna ragionevole protezione”.

Ai dati di Guarino, già di per sé eloquenti, ne ha aggiunti altri l’ex governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio, rilevando che  dal 2005 al 2013 il pil italiano è arretrato complessivamente del 5,1%, mentre quello dell’area euro, Italia esclusa, è cresciuto dal 6,4%. Nello stesso periodo gli investimenti in Italia si sono contratti  del 3% all’anno; nel resto d’Europa sono cresciuti annualmente dello 0,7%. Le esportazioni italiane  sono cresciute complessivamente  dell’11,7%; quelle del resto d’Europa del 30%. In  altre parole, l’Italia nell’euro è vittima di una sorta di “bradisismo economico-finanziario”. Cioè  affonda. E non solo l’Italia. In pratica il grande beneficiario dell’euro è la Germania. Senza l’euro , afferma il prof. Giuseppe di Taranto, autore del saggio “L’Europa tradita”, il marco avrebbe dovuto rivalutarsi del 40%. Evitando tale rivalutazione, la Germania ha avuto un “regalo” stimato in 1.250 miliardi di euro. A spese degli altri Paesi dell’eurozona, e di quelli mediterranei in particolare.

Ma cosa accadrà se l’Italia infine sarà costretta ad uscire dall’eurozona? Alcuni economisti ed alcuni giornali, portavoce del “politicamente corretto”, dipingono uno scenario catastrofista e terroristico.  Avremmo una svalutazione della “nuova lira” forse addirittura superiore al 50%, con un taglio drastico ai patrimoni ed ai redditi reali; una inflazione a due cifre; triplicherebbero i tassi , si appesantirebbe il peso dei vecchi mutui per la casa e crollerebbe l’erogazione di nuovi mutui, aggravando la crisi edilizia;  i tassi dei Buoni del Tesoro tornerebbero a due cifre; avremmo più fallimenti, maggiore disoccupazione, crescerebbe il costo dei servizi; in pratica il 50% degli stipendi andrebbe in fumo, il default sarebbe assicurato. Le banche dovrebbero essere presidiate dall’esercito, con la gente in fila per ritirare i risparmi in euro. Un team di analisti dell’Unione Banche Svizzere non esclude disordini sociali e una guerra civile.

Ma altri economisti  sono assai meno catastrofisti. Secondo uno studio della banca olandese Igt, ad esempio, la dissoluzione dell’euro farebbe arretrare il pil italiano del 10%; la lira si svaluterebbe non più del 25% rispetto al marco, ma la crisi sarebbe comunque ancor più grave di quella del 2008.

A chi ipotizza che lo “spread” voli e il Tesoro italiano sia costretto a pagare sui suoi Buoni interessi a due cifre l’economista Giulio Casucci fa notare  che il “rating” dell’Italia (BBB-) è uguale a quello della Turchia o delle Filippine, che attualmente pagano  due o tre punti in più rispetto ai nostri Btp. Quindi, anche se inizialmente, dopo l’uscita dall’euro, i nostri tassi schizzerebbero in alto, è logico pensare che poi si allineerebbero a quelli dei Paesi con analogo “rating”.

Ma l’analisi più seria e documentata è forse quella fatta, già un anno fa, dall’analista tedesco George Dorgan, il quale sosteneva che entro due o tre anni l’Italia probabilmente sarebbe uscita dall’eurozona, e che sarebbe sopravvissuta senza problemi drammatici.

A sostegno di questa sua convinzione Dorgan  portava una serie di motivazioni e di considerazioni. L’Italia attualmente spende circa il 5,5% del suo pil in interessi sul debito, cioè più del doppio rispetto al resto d’Europa. Negli ultimi 15 anni ha realizzato il migliore avanzo primario (al netto cioè degli interessi) tra i Paesi europei. Eppure, malgrado le politiche di austerità, l’ammontare del debito continua a crescere. C’è un solo modo per ridurlo: con l’inflazione, come  accade in tutti i Paesi dopo un conflitto, per il quale si sono indebitati oltre misura. Ma la Banca d’Italia, osserva Dorgan, è in grado di scongiurare una iperinflazione, grazie alle sue ingenti riserve auree: 2.452 tonnellate, che la collocano al terzo posto nel mondo, dopo Stati Uniti e Germania.

L’Italia inoltre, egli fa notare, ha una posizione patrimoniale sull’estero (attività e passività finanziarie nei confronti di non residenti)  solo lievemente negativa.

Sommando debito pubblico e debito privato, il totale è pari al 260% del nostro pil: un rapporto uguale a quello della Germania e molto inferiore, cioè migliore,rispetto a Inghilterra, Francia e Spagna.

La ricchezza privata italiana è pari a 8,6 trilioni di dollari, Gli italiani cioè sono più ricchi, pro capite, dei tedeschi. La Banca d’Italia qualche settimana fa ha aggiornato questi ultimi dati: la ricchezza delle famiglie italiane è pari a 8.728 miliardi di euro, e per oltre la metà (4.900 miliardi) è costituita dal valore delle abitazioni.  Ne consegue che la ricchezza delle famiglie è pari a quattro volte il nostro debito pubblico.

Per contro i debiti delle famiglie ammontano a meno di 900 miliardi: poco più del 9% delle attività totali.

Se si somma poi il debito pubblico esplicito con quello implicito (pensioni maturande da pagare, ecc.) l’Italia, nell’indicatore di sostenibilità a lungo termine del debito, redatto dal Fondo Monetario  Internazionale, è al primo posto, cioè ha la posizione  più sostenibile.

Quali conclusioni dovremmo trarre da tutto ciò? Si direbbe che  l’Italia sia ancora  più forte di quanto alcuni, specie oltrefrontiera, vogliono far credere. Abbiamo, è vero, problemi enormi da risolvere, primi tra tutti quello di una classe politica in larga parte inadeguata e corrotta, di relazioni sociali scarsamente cooperative di un assetto istituzionale che non consente una stabile governabilità. Ma per quanto riguarda l’economia,  liberati dalla palla al piede dell’euro, abbiamo ancora forti possibilità di riprendere, pur faticosamente, la via dello sviluppo e di tornare ad essere la seconda economia europea, al pari della Francia, e la sesta o settima economia del mondo.