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La doppia morale democratica

di Adriano Segatori - 27/01/2015

Fonte: centroitalicum

 

Esiste una contraddizione di fondo della democrazia: quella di essere una forma di governo come tutte le altre, ma di considerarsi in assoluto la migliore, per una assodata modalità autoreferenziale.

Essa viene propinata come una gestione aperta e tollerante della cosa pubblica, in mano ad un gruppo politico rappresentativo della maggioranza dei cittadini, mentre nella realtà dei fatti risulta dimostrarsi una oligarchia asservita a poteri transnazionali per il potere esterno, ed in quello interno soggiogata e ricattata da minoranze attive e particolarmente agguerrite.

È proprio in quello interno che la doppia morale si manifesta in maniera più diretta e facilmente visibile.

Prendiamo l’esempio del caso Cucchi. Il 15 ottobre 2009 i carabinieri lo fermano per aver ceduto delle bustine sospette in cambio di denaro. Alla perquisizione risulta detenere 12 confezioni di hashish per un totale di ventuno grammi, tre confezioni di cocaina pronte allo smercio. Al Giudice per le Indagini Preliminari dichiara: “Ho altri precedenti penali, però non per droga. Per prima cosa voglio dire che sono tossicodipendente. Compro il metadone, ma non vado al Sert perché ho avuto discussioni con alcune persone e nun ce posso andà”. Due annotazioni essenziali: è un pregiudicato per altri reati e si procura il metadone attraverso il canale illegale dello spaccio. Ora, a prescindere da tutta una serie di argomentazioni tecniche di carattere internistico e medico-legale inerenti la sua morte e la ragionevole sentenza, è ammissibile che i familiari siano accolti dal presidente della Camera? Che dei giudici quasi si scusino per il verdetto assolutorio dei presunti colpevoli (medici, infermieri, poliziotti e carabinieri)? Che gli venga dedicato un documentario sponsorizzato da Amnesty International, così come un Memorial di Boxe e brani musicali?

Ma chi era Stefano Cucchi: un dissidente politico? Un cittadino indifeso? Un povero padre di famiglia? O un deviante pregiudicato capace di intendere e di volere che spacciando procurava del male al suo prossimo?

Altro esempio. Zakir Hossain, un lavapiatti bengalese viene ucciso con un pugno da un tunisino. Si legge sul telegiornale che sarà concesso un assegno mensile dalla sede pisana dell'Inail, nel corso del consiglio comunale aperto in occasione della Festa della Toscana, dedicata dalla città proprio a Hossain. L'assegno, che verrà recapitato direttamente alla famiglia in Bangladesh, avrà validità retroattiva e avrà effetto fin dalla data della morte del lavapiatti bengalese. Il 50% dell'importo spetterà alla moglie in modo permanente finché resterà in vita, mentre la parte restante è per i tre figli, che ne potranno beneficiare fino al compimento della maggiore età o, se proseguiranno gli studi, finché non saranno in grado di mantenersi autonomamente. Oltre alla concessione del vitalizio, la città scoprirà una targa nel luogo dell'aggressione, e sarà anche rilanciata la raccolta fondi a favore della famiglia del bengalese.

Ora: quante famiglie italiane dovrebbe usufruire di un assegno Inail avendo un membro ucciso in un atto di violenza, sia esso un incidente stradale provocato da un criminale alla guida, un ubriaco o un tossico o un rapinatore? E le famiglie delle persone assassinate a picconate da Kabobo?

Ancora un esempio. C’è in Italia una legge liberticida che porta il nome di Mancino, con la quale si persegue e si condanna tutti coloro che mettono in discussione a parole e con scritti delle presunzioni di verità storica. Ma quale storia? Non certo quella resistenziale, secondo cui l’attuale repubblica sarebbe nata dalla sollevazione di un popolo contro l’oppressore. Non certo quella delle fobie, nelle cui cavità sarebbe stati gettati pochi criminali fascisti, un misto di delatori e di torturatori. Non certo quella legata al primo patto Stato-mafia, attraverso il quale antifascisti mafiosi e mafiosi antifascisti – l’aggettivazione non cambia il senso della definizione – hanno collaborato in immonda complicità con massoni e Savoia al tradimento e alla svendita dell’Italia al nemico. No! La storia da revisionare – o più giustamente da riscrivere e da stravolgere – è quella legata al fascismo, dalle sue origini alla sua sconfitta militare.

Insomma, mentre da un lato una parte faziosa e manipolatrice continua ad incensare il sistema democratico illuminandolo di una luce di onestà, di purezza e di apertura mentale e culturale, dall’altro – la realtà dei fatti – lo denuncia come iniquo, settario e prevaricatore.

Si pensi al comportamento ricattatorio di minoranze eversive che condizionano la stessa libertà di parola. Come ha giustamente postato su Facebook un amico, attualmente chi uccide un omosessuale incorre nell’aggravante dell’omofobia, chi uccide una donna in quella del femminicidio, mentre contemporaneamente uccidere un fascista non è culturalmente e politicamente un reato, ma esprimerebbe soltanto una azione libera e antagonista.

Dire che gli antifascisti erano mandati in villeggiatura a Ventotene, a Lipari o nelle Tremiti, tanto che supportati da una congrua diaria e dal dolce far niente avevano potuto tranquillamente tramare e stilare il famoso Manifesto attualmente simbolo italico in Europa; oppure decantare le 147 città di fondazione, l’Accademia Italiana, il Codice Rocco e la riforma Gentile, la bonifica pontina sono affermazioni di una più o meno palese apologia di fascismo. Affermare invece che le foibe sono una invenzione della reazione, che gli assassini del IX Corpus di Tito sono stati i liberatori di Trieste, che il comunismo è stata ed è la più alta espressione di libertà, che i gulag sono un’esagerazione della paranoia occidentale, tutto questo non è delirante negazione della realtà o, in subordine, un’aberrazione storica e antropologica, ma un giusto riconoscimento a coloro che si sono battuti e si battono per la democrazia e la pace tra i popoli.

Ad un certo punto, se si analizzano scritti e parole che vengono profusi dalla propaganda attuale del sistema, non si capisce più se siamo nella cattiveria orwelliana della neolingua e della reiscrizione della storia o abbiamo già sconfinato nella patologia mentale e nel delirio collettivo.

Siamo al punto che il bene e il male, la verità e la menzogna, il lecito e il disonesto, il bello e il brutto, il normale e il patologico, il naturale e il degenerato non sono più categorie definite da un dispositivo di armonia e di ordine, ma sono variabili legate alla parte ideologica e alla lobby minoritaria e agguerrita che le esprime.

Come, da tempo, non c’è più la certezza della pena, così si è arrivati all’incertezza della responsabilità, del pensiero e della stessa parola. Siamo all’interno di una melassa di princìpi e di valori dove la morale democratica sguazza, dando patenti di credibilità e di ammissibilità solo a coloro dalla quale è ricattata o dalla quale presuppone di avere benefici di maggioritaria forza, in nome e per conto di quella opinione pubblica che, a ragione, uno dei più grandi avvocati dell’altro secolo, Vincent Moro-Giafferi, ha chiamato <<quella puttana che tira il giudice per la giacca>>.