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Il mestiere del contadino

di Sergio Cabras - 10/02/2015

Fonte: Comune - Info


Quello del contadino è un mestiere decisamente diverso dall’imprenditore agricolo. Il primo in realtà si distingue da molti altri lavori perché può mettere in discussione l’idea tradizionale di lavoro e la tirannia del Pil. Nella sua quotidianità, infatti, il contadino parte da una base di risorse autonoma e limitata e resta dentro i limiti di crescita perché le risorse a sua disposizione sono quelle date (la fertilità del suolo, la salute degli animali, la durata di attrezzi…). Ogni contadino, inoltre, è sempre anche un po’ muratore, falegname, artigiano, boscaiolo, a volte anche piccolo commerciante. Bisogna fare dunque uno sforzo intellettuale e uscire dalla visione delle cose profondamente acquisita per cui lavoro è solo ciò che dà reddito monetario, lavoratore solo colui che è inquadrabile in una univoca categoria professionale e l’agricoltura soltanto quella industriale

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“Non si può sapere qual è il vero lavoro del contadino: se è arare, seminare, falciare, oppure se è nello stesso tempo mangiare e bere alimenti freschi, fare figli e respirare liberamente, poiché tutte queste cose sono intimamente unite, e quando egli fa una cosa completa l’altra. È tutto lavoro e niente è lavoro nel senso sociale del termine. È la sua vita”

È un passaggio che amo molto questo di Jean Giono, scritto nel 1938 in “Lettera ai contadini sulla povertà e la pace”. Ciò che il brano mostra è un’accezione dell’idea di lavoro nettamente diversa da quella che si è ormai affermata in Occidente da un centinaio di anni a questa parte. Oggi noi vediamo il lavoro inscindibilmente come impiego e inevitabilmente come legato al denaro. Il lavoro è il mezzo attraverso il quale otteniamo il denaro e il denaro quello con cui otteniamo qualsiasi altra cosa. In pratica il lavoro è il mezzo attraverso il quale noi convertiamo il nostro tempo, la nostra energia e le nostre capacità, in una parola, la nostra vita in denaro. Non a caso è anche ciò che ci dà una collocazione sociale, che ci definisce sulla scala gerarchica del prestigio, dello status e del potere: siamo – ci consideriamo e veniamo considerati – a partire dalla professione o dal mestiere che svolgiamo, il denaro che a questo corrisponde ne misura il valore, la posizione. E quindi, potremmo dire parafrasando il linguaggio della finanza, il nostro rating e il nostro spread rispetto agli altri.

Oggi la maggioranza delle persone – soprattutto i giovani credo, a parte alcuni più fortunati - hanno un rapporto di odio-amore con il loro lavoro (quando ce l’hanno): si sogna di poterne fare del tutto a meno, di liberarsene e dedicarsi solo a ciò che piace, ma anche si ha il terrore di perderlo. Però non è sempre stato così: fino a che la vita delle persone non è stata egemonizzata dal sistema industriale, il tempo non era diviso in lavoro e tempo libero. Se non esiste il “tempo libero” così neppure esiste il “lavoro”, ovvero lavorare è parte integrante della vita, non ha orario e non ha uno scopo separato e unico come quello di guadagnare denaro, passaggio obbligato per arrivare a tutto il resto.

Oggi siamo di fronte ad una situazione di crisi di sistema, per cui il lavoro scarseggia, in entrambe le forme in cui si dà oggi. Sì, perché nel sistema attuale noi ci siamo ormai abituati a concepire il lavoro solo in due modalità opposte e complementari: quella dell’imprenditore/datore di lavoro e quella del lavoratore dipendente (operaio o impiegato). Sembra non possa più darsi, questa fondamentale dimensione umana del lavoro, al di fuori di questa dicotomia.

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Eppure la vita del contadino rappresenta una modalità diversa, che ha sempre accompagnato – come possibilità oggi, come realtà maggioritaria ieri o tuttora altrove – la condizione umana. Il contadino parte da una base di risorse autonoma e limitata e, pur coltivandola costantemente, rimane dentro i limiti di crescita già intrinsecamente contenuti in tale base. Perché le risorse a sua disposizione sono quelle date. È decisivo, inoltre, che il valore di questa base di risorse, come la fertilità del suolo, la salute degli animali, la durata di attrezzi, macchine e strutture, sia mantenuta ed a questo fine è necessario trovare soluzioni e adattamenti ambientali anche ingegnosi che tengano conto degli effetti a lungo termine. Ciò è molto diverso da un sistema in cui l’elemento del capitale finanziario disponibile (e, in linea di principio, indipendente da tutto il resto e sempre incrementabile) è l’unico dal quale dipende tutto il resto e che può essere trasformato indifferentemente in qualsiasi altra cosa (comprandola).

Perciò vediamo come, a differenza sia dell’imprenditore che dell’operaio/impiegato, il contadino non ha l’orizzonte della crescita e del profitto del capitale investito né vi é legato: si muove bensì in una forma di economia circolare che si limita a riprodurre il proprio sostentamento e le basi che lo permettono, dando luogo così a una forma di sussistenza sostenibile sia economicamente che ecologicamente. Si tratta in effetti di un modello di economia che funziona secondo principi estranei al sistema consumistico-capitalistico, pur vivendo nello stesso territorio che da esso è dominato e regolato.

È chiaro che qui si sta parlando del contadino, intendendo con ciò una figura ben distinta dall’imprenditore agricolo che gestisce, direttamente o indirettamente, un’azienda agricola secondo un modello industriale o tendente ad esso. L’elemento della componente di autoproduzione ed autoconsumo come distintiva del modello contadino è centrale per un discorso di risposta efficace alla situazione di crisi del sistema spostando la prospettiva verso una economia di sostentamento.

Bisogna fare uno sforzo intellettuale e uscire dalla visione delle cose profondamente acquisita per cui lavoro è solo ciò che dà reddito monetario e lavoratore solo colui che è inquadrabile in una univoca categoria professionale. Il contadino non era una persona che “faceva” il contadino con un determinato orario di lavoro e come una definizione professionale. Nè era qualcuno che faceva esclusivamente quel mestiere e non sapeva fare altro: per necessità o per inclinazione i contadini erano sempre anche un po’ muratori, carpentieri, falegnami, artigiani, maniscalchi, boscaioli, meccanici, piccolissimi commercianti, intagliatori e talvolta pure cantastorie o musicisti. Integrare il lavoro agricolo, dedicato all’autoproduzione del cibo (ma anche di altri prodotti di base) e alla produzione della parte che ne veniva venduta o scambiata, con occupazioni diverse che davano quella parte di denaro liquido necessaria a quanto non si poteva produrre da sé, ha sempre fatto parte della realtà contadina.

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Oggi ci sentiamo dire da più parti che è ora di dimenticarci l’idea del posto fisso e sicuro. Ciò significa – per la gente comune – il dover costantemente rincorrere corsi di formazione professionale (che spesso servono più a far lavorare chi li organizza che chi li frequenta) ed impieghi precari e a termine. È una tendenza di lungo periodo che non accenna a diminuire, nè è realisticamente probabile che lo faccia, dal momento che la concorrenza commerciale dei Paesi emergenti è forte e la crisi della domanda da noi è strutturale, anche perché – per quanto la pubblicità faccia del suo meglio per spingerci a comprare facendoci sentire costantemente inadeguati e insoddisfatti con quel che abbiamo – è ben difficile riprodurre di nuovo qui le condizioni che ci sono ora in Paesi in cui ancora la maggioranza delle famiglie sta appena iniziando ad accedere a tutti i prodotti tecnologici e del consumismo di massa.

Allora, un recupero della dimensione contadina dell’economia domestica, in cui diventano la regola sia la molteplicità delle attività che una parte di autoproduzione, che fa da base a tutto il resto, può diventare una possibilità non a cui “tornare”, ma con cui “reinventarsi” un’idea di lavoro. Oggi, che si può essere contadini per scelta, all’attività agricola, è possibile accompagnare ogni sorta di lavoro, da quelli di livello più basso – come era anche una volta – a professioni di alto livello, passando, secondo i casi, per impieghi negli enti pubblici, attività artistiche, mansioni tecniche specializzate, da programmatori informatici e quant’altro. La base di autoproduzione e piccola vendita permetterebbe inoltre di estendere molto più di oggi l’impiego part-time ovvero di ridurre il tempo medio di lavoro retribuito per lavoratore, il che equivale a poter aumentare notevolmente (sebbene con questi limiti) i posti di lavoro.

C’e’ dunque un grande potenziale nell’agricoltura contadina di poter assorbire disoccupazione, ma non nel modo classico (ed oggi molto problematico) di creare “posti di lavoro”, bensì nel sostituire in misura rilevante questa fonte di sussistenza alla condizione di precarietà di molte persone che, a monte dell’assenza di posti di lavoro, è dovuta alla loro totale dipendenza dal trovarne per poter sopravvivere. Occorre però mettere da parte il punto di vista dell’attuale sistema economico orientato alla crescita del Pil, che è il punto di vista delle aziende e del capitale investito, e adottare quello delle persone comuni – ovvero quello che si potrebbe scoprire essere il proprio, nella maggioranza dei casi – che semplicemente devono vivere e che possono anche scegliere di collaborare reciprocamente in forme solidaristiche anziché sentirsi in competizione perpetua, per giunta illudendosi che questa porterà alla fine (?) vantaggi per tutti (secondo la “religione” dell’homo oeconomicus).

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Qui mi riferisco soprattutto a una agricoltura contadina come forma odierna di agricoltura di sussistenza in un paese “sviluppato”. Un’agricoltura che si integra con altre fonti di reddito (in un’economia composita) che riesce a ridurre in modo significativo la dipendenza dalla sua componente monetaria e nella quale il contadino non vede sé stesso come figura professionale definita, bensì come essere umano.

Ma non è certo solo questa l’agricoltura contadina possibile oggi in Italia: ci sono molte aziende agricole che, pur avendo anch’esse le caratteristiche distintive elencate in precedenza, non hanno bisogno di altre fonti di reddito per sostentarsi. Un’agricoltura, pur sempre contadina e perciò su scala ridotta, che però non è solo di sussistenza, ma professionale, e che sarebbe in grado di sfamare la popolazione nazionale, sebbene non in un sistema dominato dalla Grande Distribuzione Organizzata com’è quello attuale: si tratterebbe di creare circuiti appositi di filiera adeguati alle produzioni contadine.

Ma ci vorrebbero leggi e politiche che riconoscessero, in primo luogo l’esistenza, della specificità dei modelli contadini di agricoltura e che altrettanto ne riconoscessero le molteplici ricadute positive a largo spettro, vantaggiose per tutti, sulla qualità del cibo, sugli ecosistemi, sui territori, sul paesaggio, sugli equilibri idrogeologici, sulla biodiversità, sull’occupazione… Purtroppo, però, la situazione cui ci troviamo davanti è una in cui le politiche e le leggi attualmente vigenti sono concepite unilateralmente a misura del modello agricolo unico industriale e pongono pertanto enormi ostacoli a chi vuole vivere secondo queste forme altre di economia.

Ci si trova di conseguenza confinati nell’ambito del “sommerso”, della cosiddetta “economia informale”. Ma se per quella “formale” dobbiamo intendere l’economia del modello unico, dominata dagli interessi delle grandi aziende e del capitale finanziario, quella “informale” potrebbe essere meglio definita come un’economia autoprodotta, autogestita ed autocontrollata a misura delle necessità di base e autentiche delle persone e delle comunità.