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Ricordo di Berto Rossato, pittore-poeta dalla fede semplice e profonda

di Francesco Lamendola - 17/02/2015

Fonte: Arianna editrice


 

 

Negli anni precedenti il “boom economico” italiano - che ha proiettato, sì, il nostro Paese nell’Olimpo delle maggiori potenze industriali, ma che è stato pagato con la distruzione della civiltà contadina e, insieme ad essa, della parte migliore della nostra cultura popolare e della nostra stessa umanità - esistevano ancora, anzi, erano piuttosto diffuse, delle figure che oggi, quando sembrano essersi terribilmente rarefatte, si potrebbero definire “di riferimento”.

Erano uomini e donne, lavoratori e pensionati, laici e sacerdoti, i quali avevano un preciso denominatore comune: facevano bene il loro mestiere, sia quello materiale, sia quello relativo alla loro posizione sociale e morale; erano, cioè, dei buoni lavoratori, nel senso che conoscevano bene il loro mestiere – di contadino, di artigiano, di operaio, di postino, d’insegnante, di medico – e, soprattutto, che lo facevano con passione, con amore e con una notevole dose di creatività; e, nello stesso tempo, erano dei padri o delle madri di sicura autorevolezza, se non vogliamo usare l’abusata espressione di “esemplari” (qualche difetto lo avevano anch’essi, si capisce), delle persone sagge e responsabili, che non giocavano al risparmio quando si trattava di dare una mano al prossimo, di dire una parola buona, di dare un consiglio opportuno, di assumersi delle responsabilità nei momenti difficili.

Soprattutto questo: non esitavano ad assumersi le responsabilità più gravose, più intricate, talvolta perfino ingrate, nel senso che non ne veniva loro alcun “grazie”, semmai il contrario, qualche critica di troppo, qualche pettegolezzo ingeneroso; non importa: il senso del dovere li chiamava, ed essi rispondevano, generosamente, infaticabilmente. Non scappavano davanti alle responsabilità, non tagliavano la corda quando il gioco si faceva duro. Erano mariti e mogli che stringevano i denti quando il matrimonio andava male, quando un figlio si trovava in pericolo, quando il lavoro veniva a mancare: erano piccoli imprenditori che stavano su la notte per studiare come salvare l’azienda e non dover licenziare nessuno; erano medici che andavano a visitare i pazienti casa per casa, a qualunque ora del giorno e della notte, non appena venivano chiamati; erano organisti, pittori, decoratori, che non si tiravano mai indietro quando c’era da lavorare per abbellire la chiesa o l’oratorio del quartiere o del paese, e che si prodigavano con spirito di fede e di abnegazione, umili eroi quotidiani che non sono mai finiti sui libri di storia e che raramente hanno fatto parlare di sé fuori dalla cerchia dei conoscenti e del vicinato.

Eppure hanno tenuto insieme la nostra società in mezzo a mille prove e a mille tribolazioni: la fame, l’emigrazione, la guerra e la sconfitta, la ricostruzione, il terremoto, l’inondazione. Erano gli uomini e le donne di Longarone, del Polesine, della Carnia: gente abituata a partire in cerca di lavoro nei continenti più lontani; a vivere con una fetta di polenta e quattro castagne sul fuoco; a lottare contro le piene del Po, contro la terra che trema, contro le montagne che vengono giù sotto la pioggia; a prendersi cura dei bambini piccoli, degli anziani, senza mai sognarsi di sistemarli in un asilo o in una casa di riposo. Gente seria, senza grilli per la testa, sobria per natura e per necessità, ostinata e coraggiosa, attaccata alla terra, alla famiglia, alle tradizioni; gente con la testa sulle spalle, che parlava poco e non giurava quasi mai, ma che aveva una parola sola, ed era “sì” o “no”, lealmente, tanto che una loro promessa aveva più valore di cento carte bollate. Gente che si accontentava di poco e che si divertiva con poco, perché sapeva godere di tutto; che non si vergognava della propria povertà, dato che si accompagnava alla pulizia e alla dignità; gente fiera di essere così com’era, ma senza ostentazione, senza vanterie, senza alcuna vanagloria. Gente di poche parole, ma di molti fatti: gente affidabile, gente che meritava tanto di cappello.

A questo tipo di umanità apparteneva un ampio numero di artisti di formazione accademica modesta o incompleta, più spesso autodidatti, che mettevano la loro passione e il loro talento al servizio della fede: affrescanti e decoratori di chiese, cappelle, edicole sacre; artisti che, pur non figurando nei manuali e nelle enciclopedie di storia dell’arte, hanno fatto comunque la loro parte in maniera più che dignitosa, conferendo un alone di bellezza e di poesia ai luoghi del culto cattolico. Generazioni di fedeli hanno avuto le loro opere sotto lo sguardo ogni domenica e nel corso delle diverse funzioni, così che quei gesti e quei volti di angeli e santi, quegli esempi di bontà e di altruismo, sono entrati a far parte dell’immaginario di centinaia di persone, silenziosamente, pacatamente, senza strepito e senza enfasi.

Quel San Martino che taglia il mantello con la spada per dividerlo con il mendicante; quell’Angelo che scende nell’orto degli ulivi per confortare Gesù nella notte in cui fu tradito;  quel San Francesco che predica agli uccelli e ammansisce il lupo feroce; quella Madonna che sorride, abbassando lo sguardo, all’Arcangelo Gabriele e che mormora: «Sia fatto di me secondo la volontà del Signore»: tutte queste immagini, queste pitture, queste sculture, questi mosaici, queste vetrate, si sono depositati nella coscienza di tanti fedeli e vi hanno lasciato cadere i loro semi di fede, di speranza e di carità, contribuendo a illuminare la loro vita nei passi più scabrosi.

A questa schiera di artisti locali, umili ma grandi a loro modo, apparteneva, fra i tanti, Berto Rossato, il cui vero none era Umberto Severin, nato nel 1914 a Paese, a pochi chilometri da Treviso, in una numerosa famiglia contadina, e morto nel 1978, dopo una vita operosa che lo vide impegnato soprattutto nell’ambito dell’arte sacra, come pittore di chiese, oratori, capitelli, sia in Italia che all’estero, fino in Giappone e in Africa (Uganda), ma specialmente in un ampio ciclo pittorico dedicato a San Martino, nella chiesa parrocchiale del suo paese natale, e in alcune chiese dei dintorni: a Pezzan di Carbonera, a Covolo di Pederobba, a Cavrié di San Biagio di Callalta e nella chiesa dei Carmelitani Scalzi di Treviso.

Così lo ricorda l’allora parroco di Paese, mons. Giovanni Brotto, nel libro «Dall’alto» (Dosson, Zoppelli Editore, 1998, pp. 104-5):

 

«Lo incontrai la prima volta nel 1944 a Paese, in canonica, dove mi trovavo sfollato dal seminario a motivo dei bombardamenti alleati. Era un giovane semplice, amabile. Frequentava, come uditore, l’Accademia a Venezia. Era già noto come giovane di talento e di belle promesse nel campo della pittura a mano libera. Amava la sua terra, la gente, le feste, il bel canto, fiori, frutti, colori. Sotto la sua matita tutto prendeva forma, espressione, immagine. Anima francescana, fune osservatore di uomini e di cose. Fissava orizzonti più ampi. In ogni cosa sapeva cogliere una nota del cantico delle creature. Traduceva tutto in schizzi, bozzetti, immagini dolci e luminose. La sua ispirazione non era solo estetica ma anche teologica.

Dell’umanità veneta aveva il corredo genuino: semplicità, garbo, arguzia sorridente, brio, un gergo popolare, ricco di immagini e parabole, reso più fluido ed espressivo da una fantasiosa gestualità.

Berto era un talento spontaneo, un osservatore acuto, un teatrante esplosivo, un cuore nobile e sensibile, un pittore descrittivo. La sua pittura è un modo di raccontare. Integrità morale, afflato religioso, contemplazione estetica, fusione di colori sono un tutt’uno con la sua temperie limpida.

A Lourdes, alle quattro del mattino, tutto solo, egli era davanti alla grotta di Massabielle, inginocchiato sulla gelida pietra, assorto, carezzato dalla brezza e dalle acque irruenti del fiume Gave, al chiaro di luna, a braccia aperte, orante. Gli chiesi: “Berto che vedi?” Rispose: “Ho visto il Paradiso”. Di ritorno, dentro il castello di Carcassonne, davanti al museo delle armi, cominciò a raccontare, mimando, scene buffe di vita casalinga. Il tempo volò via.

Dimenticammo di fare visita al museo.

Qualche mese prima del suo congedo, si presentò in canonica, una sera. Rientrava dal lavoro con una tuta spruzzata di colori. Teneva sottobraccio un grosso involto coperto da giornali. Mi disse, fissandomi: “Venga qua. Lei sa ciò che io ho. Tra un mese forse non ci sarò più. Questo è l’ultimo mio dono”. Stracciò io giornali. Comparvero due quadri: uno avente come soggetto un mio ritratto a mezzo busto, l’altro una mia foto con sullo sfondo un laghetto alpino e le Dolomiti.

Due quadri tratti da una foto e tuttavia bene riusciti denotano abilità, fantasia, ispirazione.

Lo ricordo durante l’ultimo ritocco di tutta la chiesa e il lavaggio dei suoi affreschi: i medaglioni degli apostoli, la gloria di San Martino, l’Annunciazione, San Giovanni Battista, Gesù buon Pastore, San Giuliano Eymard e i simboli dell’Eucarestia affrescati nella calotta del coro in occasione del mio 25° di sacerdozio. Aveva fretta. Voleva finire presto. Presentiva qualcosa?

Avvicinandosi il grande passo, mi confidò: “Voglio essere sepolto sotterra. Nel giorno della risurrezione finale voglio sentire il fremito della terra al comando di Dio: ‘ossa aride, risvegliatevi dal sonno. O morti, sorgete da tutta la terra’. Voglio provare e gustare la gioia di quel grande momento”. Una lacrima spuntò dai suoi occhi e si sposò ad un sorriso pieno di luce. Queste erano la fede e la speranza testimoniate, in vita e in morte, da un poeta della semplicità, da un artista, da un uomo che guardava alla luce di Dio per continuare a sperare anche tra le tempeste degli uomini.»

 

Un uomo semplice, dunque, ma dalla fede profonda; un artista che viveva la propria arte come un tutt’uno con la vita, con l’impegno quotidiano, con la dimensione della speranza cristiana; un credente che “vedeva” l’invisibile e che lo raffigurava nei suoi dipinti, trasfondendovi tutta la sua anima, tutto il suo ardore di carità. Sembrerebbe quasi il ritratto di un santo laico: come altro definire un uomo che, immerso in preghiera davanti alla grotta di Lourdes, si lascia sfuggire, estatico, una espressione come questa: «Ho visto il Paradiso»? Certo: l’artista, come il poeta, è colui che sa vedere oltre le apparenze, oltre le disarmonie della materia; ma qui c’è qualcosa di diverso e di più completo: qui c’è lo sguardo di un’anima che giunge dritta all’essenza delle cose, in virtù del proprio abbandono a Dio.

Ebbene: di uomini e donne così, quando la società era certo meno ricca e meno tecnologica di oggi, ma più sana e più nutrita di buoni esempi e di valori morali, ce n’erano parecchi; oseremmo dire che c’erano quasi in ogni famiglia (le famiglie numerose di allora, formate da più gradi di parentela), certamente in ogni quartiere cittadino, in ogni paese, in ogni borgo, in ogni parrocchia; e anche in parecchie botteghe, in parecchie fabbriche, in molte associazioni di tipo sociale e culturale, in moltissimi gruppi di volontariato. Era gente che prendeva la vita sul serio, che la riteneva un bene prezioso e non pensava che essa ci venga data per fare una scampagnata a caccia di divertimenti; gente che sapeva ridere e scherzare, ma senza mai passare la misura, senza mai volgarità, né incoscienza. Specialmente, era gente che sapeva perdonare.

Se si trattava di artisti, come Berto Rossato, avevano il dono d’infondere nella loro arte quel tocco gentile di serena contemplazione, di afflato spirituale che trasfigura la vita e fa irrompere in essa un raggio di luce, anche nei momenti più bui, quando si avrebbe voglia di dubitare di tutto. Erano persone eccezionali che si sentivano normali e che si comportavano con assoluta naturalezza; generalmente schive e modeste, aliene da ogni posa, severe nel giudicare se stesse, più pronte a scorgere i propri difetti e a rimproverarseli, che a inorgoglirsi per i meriti.

Avremmo bisogno che simili persone tornassero a diventare numerose, che facessero lievitare nuovamente la società intorno a loro, a cominciare dalle famiglie, oggi così disorientate e confuse, così attraversate e spazzate dai mille venti della superficialità e dell’egoismo; che tornassero a diffondere serenità e buon volere nei luoghi di lavoro, nei luoghi di svago, nei luoghi di cultura., troppo spesso dominati da mediocri mestieranti che non sanno né parlare, né tacere e che amano fare la ruota come tanti pavoni non appena ricevono un complimento o non appena credono di aver meritato lodi e riconoscimenti.

Quanto siano preziose simili persone, lo si nota quando vengono a mancare: il vuoto che lasciano è penoso e ci rivela, di colpo, quanto noi eravamo abituati a fare affidamento su di esse, ahimè sovente senza rendercene conto e, pertanto, senza apprezzarle nel loro giusto valore, meno ancora sforzandoci di essere degne della fortuna di averle accanto. Perché di una fortuna si tratta; o, per parlare più propriamente, di una grazia. E chi prende sempre come cosa dovuta ciò che, invece, è dono, ciò che è grazia, senza restituire mai, altro non è che un ladro e un profittatore: questo è certo.