Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Abbiamo smarrito il senso del mondo perché ci siamo fermati alla lettera

Abbiamo smarrito il senso del mondo perché ci siamo fermati alla lettera

di Francesco Lamendola - 17/02/2015

Fonte: Arianna editrice


 

 


 

Noi crediamo di sapere, più o meno, che cos’è la realtà: crediamo che essa consista in una serie di oggetti e di eventi, legati fra loro da rapporti di causa ed effetto; un qualche cosa di oggettivo, che esiste fuori di noi, e che noi, a determinate condizioni, siamo certamente in grado di conoscere, almeno in una certa misura.

Tuttavia, secondo Friedrich von Hardenberg, meglio conosciuto come Novalis (1772-1801), ci sfugge la cosa essenziale: che tutto il nostro conoscere è comunicazione, e più precisamente rivelazione dello spirito; un linguaggio in cui Dio si rivela a noi uomini e nel quale noi possiamo leggere, per così dire, le sue parole. Ora, però, questa comunicazione si è interrotta: abbiamo smarrito l’alfabeto di quel linguaggio e, di conseguenza, abbiamo perduto il senso del mondo. La lingua divina è divenuta muta per noi, non riusciamo più a decifrarla, essa non è ormai che un geroglifico morto.

Novalis, pensando soprattutto al Medioevo, ricorda che la nostra civiltà si è retta, per secoli, sulla ferma credenza nell’invisibile: il mondo intero era popolato di spiriti, buoni e cattivi; ed essi ci parlavano la lingua di Dio, ci rivelavano l’essenza del mondo. Poi la ragione è salita in cattedra e ha relegato tali certezze nella soffitta degli oggetti vecchi ed inutili, ha proclamato che essa soltanto è capace di leggere i segni del mondo, d’interpretare la realtà: e, da allora, siamo rimasti come ciechi e muti. Le cose non ci parlano più, il mondo ha perduto ogni significato ai nostri occhi, e la nostra vita con esso.

Ma che cos’è il reale, per Novalis? Il reale è poesia; e il poeta, come il sacerdote – non esiste una vera differenza tra le due figure – è colui che sa leggere i segni della presenza divina, che sa decifrare il grande geroglifico: egli vede là dove gli altri non vedono, ode quello che gli altri non odono; è, letteralmente, un messaggero dell’Assoluto.

La distinzione fra soggetto e oggetto, croce e delizia di ogni filosofia, cade davanti ai suoi sensi, perché a lui si rivela l’essenza della Realtà, nella quale non ci sono un questo e un quello, un prima e un dopo, una causa e un effetto, ma tutto è Uno, tutto è splendore e luce e meraviglia dell’Essere assoluto, incondizionato, eterno.

Certo, è una concezione tipicamente romantica: non sosterrà forse, Victor Hugo, che il profeta Isaia è stato uno dei più grandi poeti dell’umanità? E, dunque, che i profeti sono anche poeti, e i poeti, profeti, visto che sono entrambi sacerdoti dell’Assoluto? E qualcosa del genere non diranno anche i simbolisti e i decadentisti? Peraltro, è un’idea notevole, un’idea forte, che farà molta presa sulle generazioni successive: basti dire lo spazio che essa occuperà nella riflessione filosofica di Martin Heidegger, specialmente con riferimento alla poesia di Hölderlin.

È difficile sottrarsi all’impressione che questa idea contenga un nocciolo di verità profonda: una verità che, per i nostri antenati di qualche generazione fa, era così piana ed evidente, da essere tranquillamente accettata come fondamento stesso della vita; mentre oggi, con tutto l’imponente dispiegamento del Logos calcolante e strumentale che caratterizza la nostra società e la nostra cultura, essa si è dileguata, lasciandoci orfani di qualcosa di essenziale.

I mistici e i santi, del resto, non hanno mai dubitato che Dio parli all’uomo per mezzo di una lingua interiore, che non ha bisogno di parole, né di ragionamenti; né hanno mai pensato di prendere come semplici allegorie  le storie sugli angeli e i diavoli, per il semplice fatto che essi ne hanno fatto esperienza immediata e diretta. Non si ha bisogno di dimostrare ciò di cui si è fatta esperienza: e se tale esperienza non è osservabile e misurabile secondo i criteri della scienza sperimentale galileiana, né, meno ancora, riproducibile in laboratorio, in condizioni di verificabilità oggettiva, allora tanto peggio per la scienza e per l’esperimento. Santa Teresa d’Avila non aveva bisogno che le si dimostrasse l’esistenza degli angeli: li vedeva; e il curato d’Ars non aveva bisogno che qualche teologo gli parlasse del diavolo: ne sperimentava le percosse. Il Paradiso e l’Inferno, molti santi e molti mistici li hanno visti, ne hanno percepito il profumo o il fetore, ne hanno udito le voci ed i suoni. E la teologia e la stessa filosofia, per secoli, non si sono nemmeno sognate di sottoporre a verifica simili affermazioni, perché non erano affatto in contrasto con la ragione, così come essa veniva intesa nella cultura occidentale prima della modernità.

Poi sono sopraggiunti la Rivoluzione scientifica, l’Illuminismo, il Positivismo: la ragione astratta è salita in cattedra e ha bandito tutto ciò che non si sottopone al suo vaglio; ha proclamato che reale è solo ciò che si accorda con i suoi dogmi, e veritiero solo ciò che essa può osservare, sperimentare, dimostrare. Allora la teologia ha incominciato a interpretare l’invisibile in senso allegorico, ha cominciato a ridurre l’ambito del soprannaturale, quasi scusandosi d’avergli riconosciuto uno spazio eccessivo; mentre la filosofia si è allontanata con imbarazzo dalla teologia e ha fatto finta di non aver mai avuto niente a che fare con essa, di non essere nemmeno sua lontana parente. Da ultimo, con il diffondersi del pensiero di Marx, Darwin, Nietzsche e Freud, la cultura moderna ha abbandonato l’idea stessa del soprannaturale, ha proclamato la morte di Dio, l’inganno della religione, la nevrosi del divino; e ha dato per scontato che il solo porsi simili questioni deve essere, per forza, indice di malafede o di una qualche forma di disordine mentale.

In tal modo abbiamo perso definitivamente la chiave, la chiave per leggere e interpretare il senso profondo del reale; il mondo è diventato muto e opaco ai nostri occhi, ha smesso di scaldare il nostro cuore, non ci ha incantato più con la sua misteriosa bellezza. Disincantati, amareggiati, scettici, ci siamo consolati dichiarando che l’uomo adulto non ha bisogno di favole, che le favole sono fatte per una umanità bambina; e che noi, uomini razionali ed evoluti, abbiamo sufficiente coraggio per guardare in faccia la realtà, ossia il fatto che non c’è niente da vedere. Divenuti ciechi, andiamo proclamando che i colori non esistono; sordi, andiamo blaterando che non esistono i suoni; incapaci di scorgere la verità, la bontà, la bellezza, ci ubriachiamo di frasi altisonanti, sostenendo che non si dà alcuna verità, né alcuna verità, né alcuna bellezza. Pare che molti provino un sinistro godimento nel crogiolarsi in questo cupo scetticismo.

Così, dunque, Novalis sintetizzava la sua concezione del reale e la sua teoria della conoscenza (in: Novalis, «Opere», traduzione di E. Pocar, «Frammenti», a cura di Da G. Cusatelli Milano, Guanda, 1982, passim):

 

«555. Tutto ciò che veniamo a sapere è una comunicazione. Così il mondo è effettivamente una comunicazione, una rivelazione dello spirito. Dove lo spirito di Dio era comprensibile il tempo non è più. Il senso del mondo è andato perduto. Noi ci siamo fermati alla lettera. Di fronte all’apparizione abbiamo perduto ciò che appare. Una volta tutto era apparizione di spiriti, ora non vediamo altro se non morta ripetizione, che noi non comprendiamo. Manca il significato del geroglifico. Noi viviamo ancora dei frutti di tempi migliori.

1186. La poesia è il reale, il reale veramente assoluto. Questo è il nocciolo della mia filosofia. Quanto più poetico, tanto più vero.

1188. Poetare è generare. Ogni produzione poetica deve essere un individuo vivente.

1208. Il senso per la poesia ha molto in comune con il senso per il misticismo. È il senso dell’originale, del personale, dell’ignoto, dell’arcano, di ciò che deve essere rivelato, del fortuito-necessario. Rappresenta l’irrappresentabile. Vede l’invisibile, sente il non sensibile, ecc. La critica della poesia è un controsenso. È già difficile distinguere: unica distinzione possibile, se alcunché sia o non sia poesia. Il poeta è veramente privato dei sensi; in compenso, in lui si trova tutto. Egli rappresenta nel senso più vero il soggetto-oggetto – animo e mondo. Di qui l’infinità di una buona poesia, l’eternità. Il senso della poesia è molto affine a quello della profezia e in genere al senso religioso, al senso del vate. Il poeta ordina, unisce, sceglie, inventa – e lui stesso non riesce a comprendere perché proprio così e non altrimenti.

1225. Poeti e sacerdoti erano in origine una cosa sola; soltanto le epoche posteriori li hanno separati. Il vero poeta però è sempre rimasto sacerdote come il vero sacerdote è rimasto poeta. E l’avvenire non dovrebbe forse ricostituire l’antico stato di cose?

1229. Il vero poeta è onnisciente: è realmente un microcosmo.»

 

Ricostituire l’antico stato di cose: ecco l’aspetto propositivo del discorso di Novalis, ecco la prospettiva che si apre sul futuro, invece di rinchiudersi in una sconsolata nostalgia di un passato che non può ritornare. Ma è davvero possibile, ricostituire la comprensione del linguaggio di Dio, tornare a leggere le parole dell’invisibile? È possibile, per l’uomo moderno, riprendere il sentiero interrotto, ritrovare la fede smarrita, riconquistare la speranza dimenticata?

In verità, il solo fatto di porsi simili interrogativi testimonia la gravità della nostra malattia; esso, da solo, mostra fino a che punto abbiamo smarrito la confidenza con il soprannaturale, con il divino – e dunque, in ultima analisi, con noi stessi. Perché il punto è proprio questo: il soprannaturale non è un Altrove più o meno ipotetico, più o meno (im)probabile: esso è la struttura ultima del mondo, della realtà e dell’uomo stesso. L’uomo non sarebbe tale se non avesse, in se stesso, nelle sue profondità, una scintilla divina: una scintilla che gli morde il cuore con la bruciante nostalgia dell’Assoluto, con l’anelito ardente a far ritorno nella dimora dell’Essere.

L’uomo non sarebbe uomo se smettesse di ascoltare questa voce interna che gli suggerisce le parole ineffabili che scendono come una musica, che lo guida e lo sorregge nei passi più difficili, che lo esorta a tenere lo sguardo rivolto sempre verso l’alto. Non sarebbe più uomo: sarebbe qualcosa d’altro, regredirebbe allo stato di bruto. Oh, beninteso: sarebbe un bruto altamente tecnologico, attorniato da sofisticati strumenti per misurare la Terra e il cielo; un bruto che può scindere l’atomo e che può viaggiare nello spazio, ad esplorare altri corpi siderali; che può fare una statistica quotidiana di tutto ciò che accade intorno a lui e può commissionare dei sondaggi per sapere quel che pensano i suoi simili in un dato giorno, in una data ora: ma pur sempre un bruto. Senz’anima, senza luce, senza speranza.

Dobbiamo riconquistare la speranza; non ha senso domandarci se ci riusciremo: dobbiamo farlo e basta. Abbiamo ascoltato fin troppo i cattivi maestri del dubbio sistematico, del sospetto, del risentimento; i cattivi maestri dalle parole amare, dalle verità sconfortanti, dal sapere che non ha saggezza, né benevolenza, né capacità di perdonare. Hanno fatto il loro tempo; li abbiamo applauditi, li abbiamo osannati, ci siamo abbeverati ai loro discorsi: adesso basta. Dobbiamo scuoterci di dosso la polvere del loro scetticismo, la ruggine della loro amarezza, le vischiose ragnatele dei loro sospetti, delle loro insinuazioni, dei loro sguardi obliqui.

Dobbiamo ritornare un po’ poeti, un po’ bambini – in fondo, è la stessa cosa. Dobbiamo perdere lo sguardo strumentale e calcolante, e smetterla di vedere in ogni cosa un campo di manovra del nostro ego, uno strumento della nostra astuzia, un mezzo da manipolare a nostro talento; dobbiamo ritrovare il rispetto dovuto alla creazione – e a noi stessi. Per farlo, dobbiamo deporre le lenti deformanti, che ci mostrano ogni cosa sotto la luce del profitto materiale, che traducono ogni cosa – anche il sapere, anche gli affetti - nel linguaggio dell’economia; e ritrovare un poco d’innocenza, un poco d’ingenuità – quella sana, quella pulita. A forza di voler essere troppo furbi, ci siamo tarpate le ali – e siamo precipitati a terra, rovinosamente. Ora dobbiamo ridare ali ai nostri sogni: ma che siano i sogni giusti, i sogni veri, propri dell’essere umano: non quelli dell’ego, ma quelli d’una coscienza matura e disinteressata, libera da calcoli e da secondi fini.

Dobbiamo fare una rivoluzione interiore.

Non ha senso domandarci se siamo veramente pronti, se potremo farcela: sono tutte scuse e astuzie dell’ego, che vorrebbe smontarci per poter continuare a tiranneggiare la nostra vita, a parassitare la nostra libertà. Ha bisogno di distruggere in noi la speranza, perché teme di perdere il controllo su di noi. Per questo ci gonfia di vento, di falsi ideali, di mete futili e irraggiungibili: per tenerci in ostaggio. Dobbiamo fargli vedere che ci siamo destati, che siamo tornati ben padroni di noi stessi…