I libri di Slavoj Žižek, sociologo e filosofo sloveno, ricordano i film di Emir Kusturica: allegorici e straripanti, densi di richiami ai più differenti registri culturali, eruditi e popolari. Žižek, affabula, mescolando Hitchcock e Marx, Lacan e Wagner, Fritz Lang, Hegel e il cyberspazio. E come i film del regista bosniaco, anche i suoi saggi non ammettono vie di mezzo: o si amano o si odiano…
Attualmente Žižek è sulla cresta dell’onda. Tradotto in tutto il mondo, e in particolare negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, dove le università se lo contendono a colpi di dollari. Ma anche in Italia è piuttosto noto. Negli ultimi sette anni sono usciti quattordici suoi libri, tutti pubblicati da editori come Ombre Corte, Manifesto, Meltemi, Feltrinelli, Cortina. E vendono, malgrado i titoli criptici, perché in linea con quell’ esoterismo individualista che anima una certa sinistra postmoderna e decostruttivista, che ha ormai tirato i remi in barca: Il Grande Altro (1999), Il godimento come fattore politico (2001) Il soggetto scabroso (2003), eccetera.
La principale contraddizione di Žižek è pretendere di conciliare un individuo debole con una teoria politica forte: un Io diviso e bisognoso di aiuto, con un’idea di democrazia, così radicale, da sconfinare nel comunismo. Non per niente l’autore che lo ha più influenzato - e attraverso cui Žižek ha filtrato Hegel e Marx - è Jacques Lacan, probabilmente il più criptico interprete di Freud. Una specie di gran sacerdote della psicanalisi francese, che prima ha scomposto la società in individui, e poi, non contento, l’individuo stesso, ponendo le sue molteplici personalità, al centro di una dialettica senza fine del desiderio. Esoterismo psicanalitico allo stato puro.
Ora, sarebbe noioso, ricostruire il rapporto Lacan-Žižek, basti perciò ribadire che l’opera del pensatore sloveno ne condivide i difetti, soprattutto sul piano sociologico. Per Žižek l’ individuo precede la società, che viene così intesa come sommatoria di individui desideranti. Ad esempio, ogni senso del dovere morale viene da lui liquidato come una illecita “fonte di godimento”: una jouissance che allontanerebbe l’individuo dalla pura ricerca del piacere. Dal momento, che secondo Žižek, il “godimento”, che nasce dall’aver compiuto proprio dovere, rinvia a un rigido ruolo sociale o professionale, imposto all’uomo dall’esterno. A dire il vero, Žižek, muove le stesse critiche alla ricerca dei piaceri consumistici: ricerca imposta dai meccanismi (esterni) della società dei consumi. Per lui, insomma, la “liberazione”, coincide, con lo svincolamento da ogni dovere o costrizione esterna: essere liberi significa non dover scegliere mai in base a convenienze sociali. C’è poi nelle sue opere, si veda ad esempio Tredici volte Lenin (Feltrinelli 2003), un costante e nostalgico riferimento alla democrazia radicale, come partecipazione politica di massa, libera da doveri e costrizioni esterne, idea che Žižek, fa risalire a Lenin. Ora, sorvolando sul fatto, che Lenin si guardò bene dal favorirla, resta difficile capire come sia possibile promuovere Lenin, che teorizzò e praticò per tutta la vita i ferrei doveri del rivoluzionario di professione, a seguace di Lacan, il nemico dei doveri politici e sociali… E quel che è più grave, è che certa sinistra (quella che ad esempio disdegna le sulfuree opere di Preve) non si è accorta della contraddizione di Žižek. Anche perché, evidentemente, da un pezzo, non legge più neppure Lenin…
Si prenda ora ad esempio, il suo libro appena uscito, Contro i diritti umani (Il Saggiatore, Milano 2006, pp. 78, euro 6,00). Che in realtà non è poi così “contro”. E spieghiamo perché.
Inizialmente il pensatore sloveno sembra respingere i diritti umani, da lui comunque intesi come diritti di eguaglianza e libertà (égaliberté). Scrive lapidario: “ I diritti umani universali sono in realtà i diritti dei bianchi maschi benestanti, di operare liberi scambi sul mercato, di sfruttare gli operai e le donne e di esercitare il predominio politico” (p. 67). Dopo di che, contraddicendosi, auspica che possano essere “politicizzati”. E fa subito un esempio: quello “dell’edificio ideologico imposto dai colonizzatori [che] improvvisamente viene fatto proprio dai suoi schiavi come mezzo per articolare le loro rivendicazioni ‘autentiche’ ” (p. 72). Perciò la critica žižekiana dei diritti umani non riguarda i diritti umani in quanto tali, ma la loro estensione: se sono rivendicati dall’Occidente sono cattivi, se invece sono fatti propri e reclamati dai popoli non occidentali, allora sono buoni.
In secondo luogo, Žižek non spiega come “universalizzarli”. Infatti è contrario al ruolo sociale delle “organizzazioni rette da autorità non direttamente politiche - l’ esercito, la Chiesa, la scuola”, a suo avviso, “esempi di violenza” (p. 50). Ma, anche qui, compie un passo falso. Perché distingue tra violenza cattiva, quelle delle istituzioni borghesi (le “organizzazioni rette da autorità”) e quella rivoluzionaria, buona. Dal momento che “il nostro compito, scrive, è (…) sviluppare una teoria della violenza storica intesa come qualcosa che non può essere strumentalizzato da nessun agente politico (…); e poi chiederci come trasformare il processo rivoluzionario in un forza civilizzatrice” (pp. 48-49). E così anche per la violenza, come per i diritti umani, Žižek usa il doppio standard.
In terzo luogo, non si capisce, chi possa guidare la “forza civilizzatrice”, visto che non deve essere asservita a nessun “agente politico”. La filosofia di Žižek esclude infatti qualsiasi forma di impegno collettivo da parte dell’individuo, in quanto il senso del dovere, come si è visto, segrega e non libera l’individuo: l’ “(auto)sacrificio alla causa”, scrive, emana sempre “il cattivo odore dell’attrazione per una jouissance letale e oscena” (pp. 33-34).
Il problema è che l’universalizzazione dei diritti umani auspicata da Žižek, imporrebbe un individuo forte, e non il debole soggetto lacaniano, sul quale invece il filosofo sloveno costruisce la sua teoria. Va però sottolineato che dove c’è un’ antropologia forte, come nel mondo islamico, i diritti occidentali di eguaglianza e libertà sono poco condivisi, spesso respinti, e talvolta con le armi.
Perciò Žižek rischia di essere lapidato proprio da chi vuole aiutare… Mentre trova ascolto tra i tutori del pensiero debole. Per qual ragione. Probabilmente perché il suo pensiero è funzionale a una certa sinistra a corto di idee, che ritiene, comunque, di poter abolire la guerra per legge… Una sinistra che non ha mai letto o capito la lezione di Proudhon. E che ha accantonato Sorel, probabilmente invece l’unico pensatore che è stato capace di affrontare, senza tradire Marx, e in maniera sistematica, il rapporto tra violenza, forza e dinamiche del mutamento istituzionale. Peccato... Perché, a differenza del duo Lacan-Žižek, si tratta di due autori molto concreti, che difendono l ’antico e saggio principio del si vis pacem, para bellum e che contrastano qualsiasi astratta forma di égaliberté (al singolare) in nome delle libertà concrete (al plurale): non vogliono la guerra per la guerra, ma neppure la pace per la pace.
E qui bisogna fare attenzione, perché attraverso Žižek, affiora ceto pericoloso e confusionario irrealismo: come trasformare un “processo rivoluzionario [violento] in una forza civilizzatrice [pacificatrice]”? Con quali mezzi? Con quali uomini? Con quali limiti? E non sono problemi secondari, dal momento che influiscono la libertà e la sicurezza di tutti.
Il filosofo sloveno non risponde. E ci si sente a disagio, come vedendo Underground di Kusturica: dove feste nuziali, bagordi, canti, ammazzamenti, promesse di un mondo migliore, si susseguono, come in un vortice. Ma alla fine si esce dal cinema, storditi, più inquieti di prima.
Attualmente Žižek è sulla cresta dell’onda. Tradotto in tutto il mondo, e in particolare negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, dove le università se lo contendono a colpi di dollari. Ma anche in Italia è piuttosto noto. Negli ultimi sette anni sono usciti quattordici suoi libri, tutti pubblicati da editori come Ombre Corte, Manifesto, Meltemi, Feltrinelli, Cortina. E vendono, malgrado i titoli criptici, perché in linea con quell’ esoterismo individualista che anima una certa sinistra postmoderna e decostruttivista, che ha ormai tirato i remi in barca: Il Grande Altro (1999), Il godimento come fattore politico (2001) Il soggetto scabroso (2003), eccetera.
La principale contraddizione di Žižek è pretendere di conciliare un individuo debole con una teoria politica forte: un Io diviso e bisognoso di aiuto, con un’idea di democrazia, così radicale, da sconfinare nel comunismo. Non per niente l’autore che lo ha più influenzato - e attraverso cui Žižek ha filtrato Hegel e Marx - è Jacques Lacan, probabilmente il più criptico interprete di Freud. Una specie di gran sacerdote della psicanalisi francese, che prima ha scomposto la società in individui, e poi, non contento, l’individuo stesso, ponendo le sue molteplici personalità, al centro di una dialettica senza fine del desiderio. Esoterismo psicanalitico allo stato puro.
Ora, sarebbe noioso, ricostruire il rapporto Lacan-Žižek, basti perciò ribadire che l’opera del pensatore sloveno ne condivide i difetti, soprattutto sul piano sociologico. Per Žižek l’ individuo precede la società, che viene così intesa come sommatoria di individui desideranti. Ad esempio, ogni senso del dovere morale viene da lui liquidato come una illecita “fonte di godimento”: una jouissance che allontanerebbe l’individuo dalla pura ricerca del piacere. Dal momento, che secondo Žižek, il “godimento”, che nasce dall’aver compiuto proprio dovere, rinvia a un rigido ruolo sociale o professionale, imposto all’uomo dall’esterno. A dire il vero, Žižek, muove le stesse critiche alla ricerca dei piaceri consumistici: ricerca imposta dai meccanismi (esterni) della società dei consumi. Per lui, insomma, la “liberazione”, coincide, con lo svincolamento da ogni dovere o costrizione esterna: essere liberi significa non dover scegliere mai in base a convenienze sociali. C’è poi nelle sue opere, si veda ad esempio Tredici volte Lenin (Feltrinelli 2003), un costante e nostalgico riferimento alla democrazia radicale, come partecipazione politica di massa, libera da doveri e costrizioni esterne, idea che Žižek, fa risalire a Lenin. Ora, sorvolando sul fatto, che Lenin si guardò bene dal favorirla, resta difficile capire come sia possibile promuovere Lenin, che teorizzò e praticò per tutta la vita i ferrei doveri del rivoluzionario di professione, a seguace di Lacan, il nemico dei doveri politici e sociali… E quel che è più grave, è che certa sinistra (quella che ad esempio disdegna le sulfuree opere di Preve) non si è accorta della contraddizione di Žižek. Anche perché, evidentemente, da un pezzo, non legge più neppure Lenin…
Si prenda ora ad esempio, il suo libro appena uscito, Contro i diritti umani (Il Saggiatore, Milano 2006, pp. 78, euro 6,00). Che in realtà non è poi così “contro”. E spieghiamo perché.
Inizialmente il pensatore sloveno sembra respingere i diritti umani, da lui comunque intesi come diritti di eguaglianza e libertà (égaliberté). Scrive lapidario: “ I diritti umani universali sono in realtà i diritti dei bianchi maschi benestanti, di operare liberi scambi sul mercato, di sfruttare gli operai e le donne e di esercitare il predominio politico” (p. 67). Dopo di che, contraddicendosi, auspica che possano essere “politicizzati”. E fa subito un esempio: quello “dell’edificio ideologico imposto dai colonizzatori [che] improvvisamente viene fatto proprio dai suoi schiavi come mezzo per articolare le loro rivendicazioni ‘autentiche’ ” (p. 72). Perciò la critica žižekiana dei diritti umani non riguarda i diritti umani in quanto tali, ma la loro estensione: se sono rivendicati dall’Occidente sono cattivi, se invece sono fatti propri e reclamati dai popoli non occidentali, allora sono buoni.
In secondo luogo, Žižek non spiega come “universalizzarli”. Infatti è contrario al ruolo sociale delle “organizzazioni rette da autorità non direttamente politiche - l’ esercito, la Chiesa, la scuola”, a suo avviso, “esempi di violenza” (p. 50). Ma, anche qui, compie un passo falso. Perché distingue tra violenza cattiva, quelle delle istituzioni borghesi (le “organizzazioni rette da autorità”) e quella rivoluzionaria, buona. Dal momento che “il nostro compito, scrive, è (…) sviluppare una teoria della violenza storica intesa come qualcosa che non può essere strumentalizzato da nessun agente politico (…); e poi chiederci come trasformare il processo rivoluzionario in un forza civilizzatrice” (pp. 48-49). E così anche per la violenza, come per i diritti umani, Žižek usa il doppio standard.
In terzo luogo, non si capisce, chi possa guidare la “forza civilizzatrice”, visto che non deve essere asservita a nessun “agente politico”. La filosofia di Žižek esclude infatti qualsiasi forma di impegno collettivo da parte dell’individuo, in quanto il senso del dovere, come si è visto, segrega e non libera l’individuo: l’ “(auto)sacrificio alla causa”, scrive, emana sempre “il cattivo odore dell’attrazione per una jouissance letale e oscena” (pp. 33-34).
Il problema è che l’universalizzazione dei diritti umani auspicata da Žižek, imporrebbe un individuo forte, e non il debole soggetto lacaniano, sul quale invece il filosofo sloveno costruisce la sua teoria. Va però sottolineato che dove c’è un’ antropologia forte, come nel mondo islamico, i diritti occidentali di eguaglianza e libertà sono poco condivisi, spesso respinti, e talvolta con le armi.
Perciò Žižek rischia di essere lapidato proprio da chi vuole aiutare… Mentre trova ascolto tra i tutori del pensiero debole. Per qual ragione. Probabilmente perché il suo pensiero è funzionale a una certa sinistra a corto di idee, che ritiene, comunque, di poter abolire la guerra per legge… Una sinistra che non ha mai letto o capito la lezione di Proudhon. E che ha accantonato Sorel, probabilmente invece l’unico pensatore che è stato capace di affrontare, senza tradire Marx, e in maniera sistematica, il rapporto tra violenza, forza e dinamiche del mutamento istituzionale. Peccato... Perché, a differenza del duo Lacan-Žižek, si tratta di due autori molto concreti, che difendono l ’antico e saggio principio del si vis pacem, para bellum e che contrastano qualsiasi astratta forma di égaliberté (al singolare) in nome delle libertà concrete (al plurale): non vogliono la guerra per la guerra, ma neppure la pace per la pace.
E qui bisogna fare attenzione, perché attraverso Žižek, affiora ceto pericoloso e confusionario irrealismo: come trasformare un “processo rivoluzionario [violento] in una forza civilizzatrice [pacificatrice]”? Con quali mezzi? Con quali uomini? Con quali limiti? E non sono problemi secondari, dal momento che influiscono la libertà e la sicurezza di tutti.
Il filosofo sloveno non risponde. E ci si sente a disagio, come vedendo Underground di Kusturica: dove feste nuziali, bagordi, canti, ammazzamenti, promesse di un mondo migliore, si susseguono, come in un vortice. Ma alla fine si esce dal cinema, storditi, più inquieti di prima.
E per nulla intellettualmente appagati.