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Kurt Tucholsky, ovvero ciò che l’intellettuale non dovrebbe mai essere

di Francesco Lamendola - 24/02/2015

Fonte: Arianna editrice


 

 


 

La Vulgata storiografica oggi imperante presenta il nazismo come una vampata di estremismo nazionalista e antisemita sorto quasi del nulla, in modo gratuito, o, al massimo, sorto genericamente dal malcontento per il trattato di Versailles; e tale è il suo timore di apparire indulgente con esso, che tace del tutto, o quasi, la denigrazione maligna, incessante, sistematica, non solo del militarismo prussiano o di questo quell’aspetto della vita tedesca, ma della vita tedesca in quanto tale, dello spirito tedesco in quanti tale, da parte degli ambienti di sinistra, e specialmente della cultura di estrema sinistra, in gran parte di provenienza ebraica.

Tuttavia, non si comprende sino in fondo come e perché il nazismo si sia affermato e sia giunto al potere, se non si tiene conto di questo; se non si tiene conto del fatto che Brecht, Piscator, Tucholsky, Grosz e cento altri impiegarono la notevole libertà – alcuni storici direbbero: il permissivismo – esistente nella Repubblica di Weimar, per offendere intenzionalmente i sentimenti più profondi del popolo tedesco, per sbeffeggiare i sacrifici da esso compiuti nella prima guerra mondiale (che costò alla Germania, ricordiamolo, qualcosa come 1.800.00 morti: la cifra più alta fra tutte le nazioni belligeranti, Russia compresa) e per ridicolizzare il borghese tedesco in quanto tale, che fosse o no fautore del Kaiser, che fosse o no reazionario e xenofobo: il borghese tedesco in quanto tale, con le sue credenze, i suoi valori, il suo stesso aspetto fisico.

Questi intellettuali di sinistra, che detestavano i socialdemocratici quanto i nazisti e che non facevano alcuna distinzione fra Stresemann e Hitler, impiegavano la penna (o, come nel caso di Gorsz, la matita) esclusivamente per ricoprire la loro patria d’insulti, di risate sarcastiche, di sorrisetti sprezzanti: non avevano niente da proporre, assolutamente niente – tranne, beninteso, una generica palingenesi rivoluzionaria: ma per essi “rivoluzione” era un concetto-balocco, come il biberon lo è per i lattanti -, niente da suggerire affinché qualcuno si ravvedesse o si facesse un minimo di auto-critica: sapevano e volevano solo provocare, offendere, denigrare. E chi mai si farebbe l’autocritica, qualora venga sottoposto a una tempesta sistematica e implacabile di odio e di disprezzo, non per un determinato comportamento, ma per il fatto di essere così come egli è, ossia, in ultima analisi, di esistere? In un caso simile, le reazioni possibili sono solamente due: o il suicidio (ma una nazione intera non può farlo, o, almeno, non tutta in una volta) oppure la ribellione, che sarà tanto più virulenta, tanto più scomposta, tanto più cieca e brutale, quanto più è stata cieca, brutale, virulenta la campagna di denigrazione che l’ha preceduta.

Sappiamo bene che un simile discorso, oggi, non piace; oggi gli orecchi del pubblico vengono accarezzati da un altro genere di discorsi: che il nazismo è stato un male, anzi il Male per antonomasia, assolutamente gratuito e ingiustificato; che, appunto, qualunque tentativo di spiegarlo rischierebbe di diventare un tentativo di giustificarlo o, peggio, di assolverlo (cosa che noi, per lo meno, di certo non desideriamo); che gli intellettuali di sinistra sono sempre buoni e bravi, mentre quelli di destra, se pure ci sono (e la Germania di Weimar ne ha avuti parecchi), devono essere per forza dei manutengoli della reazione e dell’imperialismo; che, insomma, la Germania degli anni Venti e dei primi anni Trenta ebbe una fantastica fioritura culturale grazie a questi scrittori, poeti, registi, pittori e disegnatori di sinistra, ma che il nazismo ruppe quel magico momento e li mise in fuga, con la sua rozza brutalità poliziesca, impoverendo il Paese di splendide risorse intellettuali.

Che quegli artisti abbiano avuto, invece, la loro parte (oh, intendiamoci: solo una parte!) di responsabilità nell’esasperare la reazione dell’estrema destra, sfociata poi nel trionfo elettorale di Hitler; che essi non abbiano saputo fare ciò che qualunque ceto intellettuale dovrebbe saper fare, rendersi utili al proprio popolo e alla propria società, criticandone anche i difetti per correggerli, ma sempre muovendo da un sentimento di amore e di comprensione, mai di odio preconcetto, ebbene questo non viene detto e nemmeno implicitamente suggerito, anzi, la storiografia oggi dominante continua a presentarli come degli eroi incompresi e sfortunati, dei nobili cavalieri della libertà e della democrazia smarriti in un mondo che era decisamente troppo barbarico e troppo venale per apprezzarli o anche solo per comprenderli.

E sia. Ma allora come spiegare il fenomeno della rivoluzione culturale conservatrice tedesca, che annovera nomi di tutto rispetto, non certo inferiori a quelli dell’intellighenzia di sinistra, anzi, come poi si è visto (non sempre, ma spesso il tempo è galantuomo), più profondi, più lungimiranti, più universali e, dunque, ancor oggi più attuali? Chi potrebbe negare che il Dio di Brecht, il comunismo, è miseramente fallito, e che i suoi testi mostrano, impietosamente, tutti i segni del tempo, mentre i libri di Spengler, di Carl Schmitt, di Jünger, di Heidegger hanno ancora qualcosa da dire al lettore dei nostri giorni, qualcosa su cui farlo seriamente riflettere?

Vale la pena di rileggere le parole di Walter Laqueur su Kurt Tucholsky (1890-1935), tipico esponente di questa estrema sinistra intellettuale, nel suo libro «La Repubblica di Weimar. Vita e morte di una società permissiva» (titolo originale: «Weimar. A Cultural History 1918-33)», London, Weidenfeld and Nicolson Ltd,1974; traduzione dall’inglese di Lydia Magliano, Milano, Rizzoli, 1977, pp. 64-66):

 

«Da qualunque angolazione la si guardasse, la sinistra intellettuale era totalmente isolata e patrocinava cause degne, umane e progressiste che purtroppo nessun altro era disposto ad appoggiare. E fu proprio questa consapevolezza d’essere soli la matrice dell’estremismo e della mancanza di responsabilità che prevalessero tra questi uomini di sinistra non allineati; i loro attacchi contro l’ordine costituito si fecero sempre più incontrollati, le loro critiche sempre più demolitrici. Tucholsky, il satirico più brillante e più fecondo dopo Heine, scrisse di essersi convinto fin dal 1913 “che lo spirito tedesco era intossicato quasi senza speranza di recupero e di essere diventato uno di quelli che non credevano nella possibilità d’un miglioramento, che cr4edevano la democrazia tedesca nient’altro che una facciata e una menzogna”. Nel 1931 pubblicò un volume di brevi riflessioni e di succinti saggi intitolato “Deutschland, Deutschland über alles”, un attacco implacabile sferrato contro la Reichswehr, contro la Chiesa, contro il potere giudiziario i tedeschi, ch’erano stati un popolo di “Dichter und Denker”, di poeti e di pensatori, erano divenuti una nazione di “Richter und Henker”, di giudici e di carnefici), contro gli studenti grandi tracanna tori di birra, contro Hindenburg, contro i capi socialdemocratici, della polizia prussiana, contro Stresemann, contro i segretari dei sindacati, contro tutti o quasi, in una parola, i detentori d’un posto di potere. I bersagli della sua bordata non erano soltanto il filisteo tedesco dalla gretta mentalità borghese, le sue consuetudini, il suo gusto nell’arredare la casa e la sua maniera di educare i figli, ma il sistema di vita tedesco in generale; denunziava non solo il militarismo ma il concetto stesso di difesa nazionale (“non esiste segreto dell’esercito tedesco che non sarei pronto a trasmettere con tutto il cuore a una potenza straniera” scriveva Tucholsky). Sbeffeggiava non solo le associazioni degli ex combattenti con i loro slogan di un acceso sciovinismo e con le loro sfilate, ma derideva sistematicamente e con spirito corrosivo ogni manifestazione di patriottismo.  Tutto questo, inutile rilevarlo, era tant’acqua al mulino del’estrema destra. Con le sue implacabili frecciate Tucholsky non induceva neppure un militarista a recitare il “mea culpa”, mentre rafforzava invece moltissima gente nell’idea che gli intellettuali di sinistra fossero tutti quanti traditori, o per lo meno individui irresponsabili che non andavano presi sul serio. L’impressione che si ricavava dal suo libro si potrebbe riassumere così: tutto quello che era tedesco era sbagliato e stupido a priori (“Deutsch ist doof”, com’ebbe a dire una volta) e quindi doveva essere estirpato. In un articolo sulla “Faccia del tedesco”Tucholsky descrisse l’uomo della strada più o meno come George Grosz l’aveva disegnato nelle sue caricature: testa grossa, fronte non troppo alta, occhietti piccoli e inespressivi, il muso sempre pronto a tuffarsi in un boccale di birra, un paio d’antipatici baffetti a spazzola. Era una caricatura della Germania di Weimar, in parte fedele, in gran parte distorta e comunque d’un gusto discutibile e di nessunissima utilità. Perché non si vede che cosa avrebbero potuto fare i poveri tedeschi per migliorare il proprio aspetto, ingrandirsi gli occhi e rendere la fronte più spaziosa. L’illustrazione del libro di Tucholsky che scandalizzò la gente più d’ogni altra, quando comparve, era un fotomontaggio, “Gli animali vi guardano”, in cui si vedevano otto dignitosi signori, brutti anzi che no e dall’aria tutto sommato remissiva, sui sessantacinque anni e oltre, quasi tutti in uniforme militare. Era un’immagine patetica, ma nessuno degli otto aveva caratteristiche particolarmente animalesche o ripugnanti; è un fatto, purtroppo, che gli uomini in genere appaiono più belli e virili a trent’anni che a settanta ed è più facile che sorridano i bebé piuttosto che i generali in pensione. Se Tucholsky intendeva dire implicitamente che l’esercito e la polizia tedesca avevano bisogno di ufficiali più attraenti nell’aspetto, ci pensarono i nazisti a fornirglieli, alcuni anni dopo, ad esempio con un Heydrich e con altri giovanotti che impersonavano la maschia bellezza ariana.

Il libro di Tucholsky era una satira, tuttavia conviene prenderlo sul serio  perché vi si riflettevano alcune delle debolezze fondamentali degli scrittoi di sinistra, doppiamente privi di un ambiente congeniale, perché, estranei nel paese natio, erano per di più incapaci di riconoscersi nell’uno o nell’altro dei due grandi partiti socialisti. Per loro era la stessa cosa prendere a bersaglio Adolf Hitler oppure un qualsiasi malcapitato ministro socialdemocratico, Tucholsky e i suoi amici ritenevano che il personaggio più diabolico di tutti fosse, in quel periodo, il magistrato tedesco e che le prigioni più inumane di tutte fossero quelle tedesche; ci vollero Freisler e Auschwitz perché rivedessero il proprio giudizio. Si figuravano che Stresemann e i socialdemocratici fossero i politici più reazionari del mondo, ma soltanto pochi anni dopo si trovarono costretti a fare i conti con Hitler, Goebbels e Göring. Durante il cancellierato di Brüning credettero sinceramente che  il fascismo fosse già al potere in Germania, o che la situazione fosse in ogni caso così disastrosa che non sarebbe mai potuta peggiorare… finché non furono colti di sorpresa dagli orrori del Terzo Reich. Il colmo dell’ironia fu che l’epoca di Weimar corrispose in realtà a un decennio di libertà politica e culturale che in Germania non conosceva precedenti…»

 

Ci sarebbero diverse osservazioni da fare su questa pagina di prosa storiografica, e, per quel che ci riguarda, parecchie riserve: a cominciare dalla premessa: che la sinistra intellettuale tedesca fosse la sola a «patrocinare cause degne, umane e progressiste»; ma lasciamo perdere, almeno in questa sede: ci basta la netta, limpida affermazione che questa stessa sinistra intellettuale fece all’estrema destra reazionaria il miglior regalo che avrebbe mai potuto farle: spingere il popolo tedesco verso di quella, dopo averlo offeso e ferito nei suoi sentimenti più cari.

Prendiamo il caso delle associazioni combattentistiche. È chiaro che, in esse, prospera quasi sempre una certa vena di militarismo o, come minimo, di nostalgia per la passata grandezza militare. Ebbene? Forse che simili sentimenti sono incompatibili con una società libera e civile? Forse che tali associazioni non esistono nei Paesi anglosassoni, particolarmente negli Stati Uniti d’America, senza che ciò sia considerato come un oltraggio intollerabile alla coscienza civile dell’umanità? Ai reduci, che hanno seppellito al fronte i loro amici più cari, non si domanda un giudizio storico o morale sulla guerra da essi combattuta; si rispettano le loro ferite, si mostra gratitudine per quanto hanno fatto. Se la guerra fu sbagliata, la colpa non va certo addossata a loro. Non è su di loro che si dovrebbe sputare, che si dovrebbe inveire; non è infangando le loro medaglie e i loro sacri ricordi che si ristabilisce la civiltà della pace. Invece questo è esattamente ciò che facevano gli intellettuali dell’estrema sinistra tedesca: sputavano sui reduci, irridevano i loro sacrifici, sbeffeggiavano il ricordo dei loro commilitoni caduti al fronte o ritornati a casa senza braccia o senza gambe, o con i polmoni distrutti dai gas. E magari, a farlo, erano proprio quegli stessi che, durante la guerra, si erano tranquillamente imboscati, grazie ai loro soldi e alle loro potenti protezioni, sì da non aver dovuto sopportare neanche il fastidio d’indossare l’uniforme; e le cui famiglie, speculando sull’economia di guerra, si erano oltremodo arricchite, sfacciatamente e ostentatamente, in mezzo ai sacrifici e alla miseria generale.

Tutto questo dovrebbe condurci a una riflessione conclusiva circa il ruolo dialettico fra intellettuali e società, e forse, sul ruolo stesso dell’intellettuale in quanto tale. La civiltà europea, per secoli e millenni, non ha avuto “intellettuali”, bensì, semplicemente – e scusate se è poco – uomini di cultura; uomini per i quali la cultura comprendeva anche la saggezza, per i quali la saggezza era il distillato della cultura e del sapere. Poi, a partire dall’avvento della modernità, sono arrivati gli intellettuali: i “savants”, i “philosophes”, tutta questa mala razza di parassiti presuntuosi ed estremisti, che si gloriano di disprezzare qualunque tradizione e che adorano il dio Progresso con lo zelo di altrettanti piccoli Torquemada, pronti a mettere al rogo qualunque eretico-reazionario. Se non possono farlo materialmente, lo fanno con la loro penna avvelenata. Non ci si lasci ingannare dalla superficie del fenomeno: se gli intellettuali di sinistra della Repubblica di Weimar hanno dovuto fuggire all’estero all’avvento del nazismo, o sono addirittura finiti nei campi di concentramento, questo non significa che non avrebbero riservato lo stesso destino ai loro avversari, se avessero vinto loro. Del resto, è quel che hanno fatto i loro colleghi russi, dopo il colpo di Stato bolscevico dell’Ottobre 1917, e seguitato a fare sino al 1990, in Unione Sovietica e, poi, negli altri Paesi del blocco “socialista”; o quel che hanno fatto i loro colleghi cinesi durante la cosiddetta Rivoluzione culturale.

L’intellettuale, dunque, così come si è definita la sua figura nel corso della modernità, è - non sempre, ma più spesso di quel che non si creda - un masso erratico che non ama la propria famiglia, che non ama il proprio Paese, che non ama la propria civiltà, che detesta la tradizione, che aborrisce la religione, che esecra l’arte classica, le filosofie spiritualiste e qualsiasi concezione spirituale della vita; è un declassato sociale pieno di rancore, un ambizioso che vorrebbe emergere senza lavoro, senza fatica, senza sacrificio; uno che, pur non avendo mai lavorato, pretende di insegnare agli altri come dovrebbe essere organizzato il mondo di domani; che, non credendo in niente, insegna che la Verità non esiste; che, non fidandosi di nessuno, e nemmeno di se stesso, afferma che bisogna sospettare di tutti, e specialmente di chi mostra di volerci bene (Freud insegna); che, non amando nessuno, maschera il proprio odio dietro formule melense di pace e amore universale; che è sempre pronto a suonare il piffero della rivoluzione, ad applaudire il vincitore del momento (di destra o di sinistra, non importa), semplicemente perché è troppo pigro e indolente per rassegnarsi all’idea di dover lavorare utilmente come tutti gli altri, mantenere una famiglia, educare dei figli. Meglio fare come Rousseau, allora, il prototipo dell’intellettuale moderno: scrivere trattati di pedagogia e, intanto, mettere i propri figli all’orfanotrofio!

Forse, se la modernità tornasse a produrre più uomini di cultura, e meno intellettuali, non accadrà più quel che è accaduto nella Germania di Weimar: che la barbarie totalitaria sia stata favorita e quasi evocata dal comportamento irresponsabile, distruttivo, anti-nazionale, assurdamente e volgarmente denigratorio verso ciò che è più caro al cuore di un popolo, proprio da parte di coloro i quali, per formazione umanistica e per intelligenza, avrebbero dovuto sforzarsi di ricostruire, di lenire le ferite, di medicare i ricordi dolorosi, e non versare del sale o dell’aceto sopra le piaghe ancora infette e purulente.