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“Che te ne fai della poesia?”

di Andrea Pozzoli - 03/03/2015

Fonte: Arianna editrice



Giovanni Casoli e La vita è più grande

 

Che ancora oggi si leggano poesie o racconti o, peggio ancora, se ne scrivano, è in sé uno scandalo di fronte all’uomo moderno ed evoluto, che, avendo già tutte le risposte, ha esaurito le domande e liquida alla stregua di un vano passatempo l’attardarsi presso parole in rima o pensieri astratti, non quantificabili in cifre o utili.

Cosa dire, dunque, di uno scrittore e poeta che si permette di suggerire che forse il passaggio dell’uomo su questa terra è qualcosa di più; che non ci si può ridurre alle proprie brame individualistiche, alle proprie pulsioni, alla violenza manifesta ma benpensante e perbenista e dunque giustificabile?

Potrà pure essere considerato solo un poeta, o un folle – che per molti vale lo stesso, ma chi ha la forza di essere sincero con se stesso comprende che egli vede giusto e che davvero la vita è più grande.

Giovanni Casoli si inscrive in una linea di letterati e pensatori che avrebbe potuto e che ancora dovrebbe costituirsi in una tradizione, la quale, però, non può trovare spazio in un’Italia il cui disboscamento e desertificazione culturali si rivelano essere i primi articoli fondanti la dittatura del prodotto e del libero consumo.

Le duecentocinquantasei pagine dei suoi racconti in prisma narrativo, contenuti in La vita è più grande[1], valgono, dunque, come una testimonianza di fede, anche se accolta con il martirio dell’indifferenza; perché in quelle pagine la vita passa attraverso il prisma della narrazione che ne rifrange lo spettro in storie di uomini, donne, giovani, anziani, studenti, pensionati, credenti o atei: una rifrazione che, però, rivela la sostanziale e profonda unità e coerenza del significato della vita stessa, pur nel suo mistero.

Il principio del “Primum vivere, deinde philosophari”, citato in epigrafe, ci introduce alla raccolta e vale come un richiamo ad una maggiore aderenza alla concretezza delle cose davvero importanti.

Un lettore attento, però, coglie l’apparente incoerenza, o meglio l’ambiguità e l’ironia di una tale sententia, poiché strumentalizzabile anche, e forse più facilmente, a detrimento dell’attività letteraria, piuttosto che alla sua giustificazione.

Meglio la si comprende, se letta alla luce dell’interpretazione che ne diede Søren Kierkegaard nella sua polemica contro il seme di drago dell’hegelismo, la cui pretesa che nulla debba precedere la riflessione teoretica ha certamente strabiliato il mondo, ma è assurda, perché è in definitiva una fuga nella concettualità astratta dell’Iperuranio, con la quale la vita non ha nulla a che fare.

Se la vita, che è esperienza della realtà, non fornisce materia alla teoria, allora la filosofia non è vera filosofia e il filosofo non è vero filosofo.

Kierkegaard ne uscì con una distinzione, quella tra professores e confessores, che ci assiste nel comprendere l’atteggiamento di Giovanni Casoli di fronte alla vita e di fronte al pensiero e, dunque, l’atteggiamento che testimoniano o a cui sono richiamati i suoi personaggi.

Se, da una parte, il professor, da profiteor (dichiarare, insegnare), si profila come colui che è inflessibile nella teoria, ma flessibile, infinitamente declinabile nella vita pratica, anche – e spesso – nello specifico delle scelte morali, dall’altra, il confessor, da confiteor che ha tra i suoi significati “dichiarare”, “ammettere”, ma anche “manifestare”, “rivelare”, “mostrare”, si identifica con lo spirito dei cristiani della prima ora, i quali vivevano le proprie idee, le confessavano e vi confidavano fino al martirio: abitavano le proprie idee, delle quali, in perfetta unità, la loro vita era sostanza.

Nei racconti casoliani de La vita è più grande, questa opposizione si coniuga in quella analoga tra scire e sàpere, ovvero l’antagonismo tra scienza – il dire di una cosa “che cos’è” – e sapienza – il conoscerla perché la si è fatta propria attraverso l’esperienza e la riflessione.

Così, nel racconto Sàpere, un professore di liceo espone la massima di Marziale Hominem pagina nostra sapit (la mia pagina ha il sapore dell’umano, conosce sapientemente l’umano):

 

«Se si cerca lo scire senza il sàpere» cercò di spiegare il professore «non si cerca la verità ma solo il funzionamento delle cose».

«Boh» sospirò sinceramente uno dei più asini della classe, che si nascondeva sempre negli ultimi banchi.

«Ma che vuol dire?» chiese ed esclamò stizzita una ragazza dall’aria sveglia, sempre seduta davanti a  prendere appunti.

«Vuol dire» replicò pazientemente il professore «che se ti chiedi o cerchi il funzionamento del Partenone, di una Pietà di Michelangelo o della Nona di Beethoven, non li capirai mai»[2].

 

Allo stesso modo, in L’atteo, Giovanni, studente di filosofia e dichiaratamente ateo, contemplando un torrente di montagna, comprende l’insufficienza della pura scienza a spiegare l’abisso di mistero intrinseco nelle cose:

 

Man mano che vi si avvicinava, la sua voce ovviamente cresceva. Lui non sapeva decifrarla, lo attirava. Ricco d’acqua ancor più per le piogge recenti, aveva una voce profonda e continua, della cui monotonia non ci si stancava. Poi, quando fu vicino e si accoccolò a due passi dalla riva sassosa, in quella voce possente e fonda, unitona e alta, incominciò a distinguere due altre voci, quella più chiara della corrente centrale in cui le acque si mescolavano e si scontravano, e quella argentina delle piccole onde che ai lati si sfibravano fluendo e spicciandosi contro i sassi. Erano le tre voci che formavano il rombo del torrente, il suo tuono incessante: erano insieme la più remissiva e la più incoercibile delle voci, la più flagrante e la più segretamente silenziosa[3].

 

Giovanni, dunque, con evidente reminiscenza evangelica del Battista presso il Giordano e di fronte al Figlio prediletto dal Padre (Mc 1, 9-11), coglie nelle cose il segno trinitario che la scienza non può descrivere o misurare e che non può nemmeno concepire.

 

Giovanni si incantò sulla domanda che rivolgeva a se stesso: come mai quella monotonia complessa e unitaria non lo annoiava? Anzi lui la ascoltava graditamente come rimuovendo a ogni attimo il suo udirla; come mai, ancor più, questo ricominciare a ogni istante lo toglieva a se stesso, sembrava smemorarlo, ma no, di più, a essere onesto, sembrava consegnarlo rinnovato a se stesso, a un se stesso che non era quello, noto, di prima? Era la persuasione del torrente.

«Che cos’è? H2O?» si disse sarcasticamente. Il libro recitava: “La scienza non cerca la verità delle cose, ma la loro realtà”. Era così dai tempi di Machiavelli, la “verità effettuale”, lo schiacciamento della verità sulla realtà, la negazione della verità da parte della realtà. Ne aveva approfittato la scienza. Ma che vuole “la scienza?” “La” scienza non esiste[4].

 

È questo il vulnus che la nostra epoca porta con sé, una lacerazione che consiste in una crisi del rapporto con la realtà, provocata dal successo dei tre idoli dei nostri tempi posti sotto accusa da Giovanni Casoli nella sua antologia Novecento letterario italiano ed europeo (2002).

Il primo è quello della Modernità, un concetto equivocato, giacché l’attributo di modernus, derivante dal latino modo, cioè ora, fu utilizzato per la prima volta tra il V e il VI secolo d.C., per cui era moderno l’incipiente medioevo cristiano e non può ora essere moderna la nostra epoca, che tenta di procedere come se la svolta cristiana non ci fosse stata.

Il secondo è quello dell’Attualità, anch’essa fraintesa, poiché attuale non è ciò che “è adesso”, ma è piuttosto ciò che è in actu, attivo, vitale, fecondo. È in questo senso che Casoli può, dunque, citare Charles Peguy quando disse: “Omero è nuovo stamattina, e niente è forse tanto vecchio quanto il giornale di oggi”[5].

Il terzo e ultimo idolo è quello della Realtà, per cui la verità è la realtà delle cose, hic, nunc, materialiter:

 

Ma per smentire questo grossolano materialismo basta pensare a come è una bugia: reale? vera? Se qualcuno la dice, certamente fa parte della realtà, è reale; ma non sarà mai vera finché rimane menzogna. E se diciamo che è una vera bugia, intendiamo solo dire che è una reale bugia.

[...] Se si identificano realtà e verità la menzogna scompare, con la verità, e la realtà non è più giudicabile; è ciò che è perché è: una tautologia, una paralizzante Medusa[6].

 

Le conseguenze di questa deriva sono chiare agli occhi di Casoli, che, in Nuda speranza, cita l’Adelchi manzoniano per parlare di “un volgo disperso che nome non ha” (Coro, Atto III) e per chiedersi, in Una sorella:

 

In questo silenzio di casa mi ritorna una domanda: ma come ha fatto la società civile ad autoannientarsi in pochi anni? Chi e cosa l’hanno sedotta e abbandonata? Quattro lustrini elettronici e po’ di droga? Forse tristemente è proprio così. Cioè non l’immoralità ma l’amoralità, e ce ne corre di differenza. Immorale è uno che t’insulta, amorale è uno che vedendoti a terra tira dritto. È esattamente questa la definizione di tolleranza, l’amoralità. La tolleranza permette tutto, non si oppone a niente, non perdona niente, non le importa di niente. Il mio dirimpettaio è molto tollerante, non saluta mai e ti guarda di spicchio per valutare che ostacolo sei e aggirarti[7].

 

Una tolleranza che è indifferenza e che non può non colpire ciò di cui oggi, ci ammonisce Casoli, c’è un “disperato bisogno”[8], la Bellezza.

Così, sempre in Una sorella, leggiamo:

 

[...] perché il bello è bello, questa è una domanda che nella nostra disgraziata epoca conserva intero il suo pungiglione.

Lo smarrimento della domanda e della risposta comunica che, a meno di dire cose geniali, si è al buio [...].

Solo un genio, Giacomo Leopardi, ha saputo nel 1830 pronunciare, in forma di domanda, la diagnosi perfetta dello svuotamento del bello. Infatti scrive nel Canto notturno, rivolgendosi alla Luna: «Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore rida la primavera» e generazioni di professori non si sono resi conto di trovarsi di fronte ai versi più tremendi scritti da secoli: perché se il bello non ride al suo amore allora non è bello ed esplode in milioni di impotenti seduzioni che sono belle quanto brutte, insensate e senza significato[9].

 

L’abolizione della bellezza, tuttavia, ha purtroppo conseguenze devastanti, giacché mina alla base la capacità di pensiero e del pensiero, ingenerando quella dolorosa opposizione tra scire e sàpere intuita anche da Guido Ceronetti, citato nell’antologia casoliana:

 

La bellezza abolita, il mondo è un blocco freddo che agghiaccia la conoscenza, e la ragione può continuare il suo volo, però non producendo che mostri, perché la conoscenza è paralizzata[10].

 

E ancora da Hans Urs Von Balthasar in Gloria I:

 

In un mondo senza bellezza (...) anche il bene ha perduto la sua forza di attrazione, l’evidenza del suo dover essere adempiuto (...). In un mondo che non si crede più capace di affermare il bello, gli argomenti in favore della verità hanno esaurito la loro forza di conclusione logica[11].

 

Una separazione tra bene-vero-bello di cui nel 2013 ci ha ammoniti anche Papa Francesco I in La bellezza educherà il mondo e di cui Casoli si duole nell’incipit di Ma la bellezza?:

 

Ma la bellezza? Questa inquietante eccezione alla banalità non è una cosa, ma pervade tutte le cose; questa improvvisa giovinezza in un lampo illumina il bene, suo fratello, e senza di essa la verità è uguale a zero. Infatti “il bello è caro” dice Teognide.

Essa non solo genera amore, ma è generata da amore; non è solo reminiscenza, ma nostalgia; non del passato, ma del futuro[12].

 

Parole in cui sonora riecheggia la memoria di Rodolfo Quadrelli, quando parlava della tradizione nei termini di un futuro possibile.

Purtroppo, però, i tempi nostri remano in senso opposto:

 

Dai cadaveri delle ideologie storiche (liberalismo, capitalismo ottocentesco, marxismo) si è formato per sincretismo il corpo macabro e pesante, crescente e schiacciante – viene da pensare al capolavoro di Ionesco Amedeo o come sbarazzarsene – della più morta e mortificante delle ideologie mai comparse negli ultimi secoli: quella che, apertamente combattendo e dichiarando obsoleta ogni verità, ogni realtà spirituale, ogni ideale e tanto più ogni religione, accelera un “progresso” in cui l’uomo moderno crede di spostarsi velocemente in avanti mentre, con tutti i conforti e gli sconforti tecnologici, ripiega precipitando all’indietro, al di qua della religione, al di qua della cultura, della civiltà, della storia, della preistoria, dell’animalità incosciente e innocente, al di qua della biologia anche solo vegetativa, oltre l’alto gradino che lo separa, all’indietro, dal meccanismo e dalla cosa[13].

 

La questione è lampante: c’è in gioco niente di meno che la nostra stessa umanità, svilita, mortificata, dimenticata, relativizzata alle logiche del mercato e del potere, che sono la stessa cosa.

 

[...] per la prima volta nella storia, oggi, sembra che tutto quanto nel passato non risulti materialmente utile al presente, non sia più “attuale”; e che qualcosa o qualcuno, esistente oggi, per il solo fatto di esserci, valga più di ogni passato, lo sostituisca: per una sorta di diritto barbarico dei vivi a occupare lo spazio dei morti. Ciò significa soltanto che oggi, e ancor più domani, occorrerà lottare per restare umani, per avere un futuro (poiché chi non ha un passato non ha un futuro)[14].

 

Non è un caso, quindi, che La vita è più grande abbia in epigrafe queste parole di uno dei numina praesentia di Giovanni Casoli, Fëdor Dostoevskij:

 

La vita è dappertutto, la vita è in noi stessi e non fuori di noi. Accanto a me ci saranno sempre degli esseri umani, ed essere umano tra gli uomini e restarlo sempre, in nessuna sventura avvilirsi o perdersi d’animo: ecco in che cosa consiste la vita, ecco il suo compito[15].

 

Sono parole che impongono di rileggere l’espressione essere umano non più come sostantiva (io sono un essere umano), ma come predicato: io sono umano e devo restare umano.

Nonostante il dolore! E quest’opera di Casoli, benché estranea ad emotivismi, sentimentalismi, piagnistei esistenziali, è piena di dolore e non concede sconti. Addirittura di fronte alla morte.

Non a caso, Dostoevskij espresse questo ammonimento al fratello Michail in una lettera inviata dalla Fortezza di Pietro e Paolo a San Pietroburgo il 22 dicembre del 1849, quando ancora non immaginava che il 24, giunto sul patibolo con l’accusa di società segreta, la pena capitale gli sarebbe stata comminata in condanna ai lavori forzati.

Di fronte al dolore e financo alla morte, l’umano deve restare umano, accettare di attraversarne il vaglio, accettare la perdita che rappresentano, senza tralignare nel cinismo o nel nichilismo.

Per noi sedicenti moderni, incapaci di povertà di spirito, mitezza e purezza di cuore, questo costituisce un nodo problematico, un motivo di scandalo, come del resto è scandaloso il titolo di una raccolta poetica di Casoli, La bellissima perdita, e ancora di più la citazione di Betocchi riportata in epigrafe: “La vera bellezza non era difforme dal dolore di perderla”[16].

Casoli, però, non si cura dello scandalo e costringe ancora al confronto con i primi cristiani, consapevoli di dover essere, per divenire testata d’angolo, prima di tutto pietra d’inciampo:

 

Se c’è un dovere profondo di quest’epoca sconvolta e smarrita a causa del suo nichilismo, è quello di passare con dolore e coraggio dal nichilismo al nulla.

Solo dal nulla – anzi da nulla – evitiamo espressioni enfatiche – “il” nulla come “la” scienza non esiste – solo da nulla si può ricominciare. E questo lo capiscono soltanto quelli che sentono di voler essere re e non corrieri, come ammonisce Kafka: “Furono invitati a scegliere tra l’essere re o corrieri dei re. Da veri bambini, tutti vollero essere corrieri. Ecco perché ci sono tanti corrieri che galoppano per il mondo e si scambiano messaggi che, poiché non ci sono re, sono diventati privi di senso”.

I corrieri non vedono che la foglia “morta” non è mai così bella come ora e che questo non è un enigma, è un mistero.

Tra il nichilismo e il nulla c’è un abisso, come tra un bazar con centinaia di cosucce che si accumulano negandosi reciprocamente, e lo spazio, non so, di una cattedrale romanica o ancor più quello di una grotta in alto su montagne impervie[17].

 

È lo scandalo tutto cristiano e dunque paradossale della perdita di sé per la propria salvezza – come nel Racconto di Natale di Buzzati, in cui negare Dio al prossimo significa perderlo e, invece, rinunciarvi significa condividerlo e rimanere in Lui.

È, soprattutto, lo scandalo della poesia:

 

[...] il bello per me in questi anni è andato assomigliando sempre più a ciò che resta se si toglie tutto il superfluo, ricordi Michelangelo?

Solo che l’atto del togliere non piace a nessuno, tutti credono che il bene e il male non esistano e che quindi il meglio sia aggiungere, accumulare, prendere. Ma t’immagini una bellezza procurata, o svelata, affastellando, ammucchiando? È l’immagine vera della non bellezza della società.

Ma io cammino a ritroso, o in avanti se è la società a retrocedere. E camminando camminando giungo al punto di non ritorno, che è poi quello di san Francesco nudo e crudo, la scelta di nulla per avere in dono tutto. O san Francesco era “solo un poeta” come molti dicono?[18]

 

Sì, san Francesco era poeta: a patto che, come Casoli afferma in Sul fondamento poetico del mondo (2010) e in Novecento letterario italiano ed europeo (2002), non si consideri la poesia alla stregua del poetico.

La poesia non è abbellimento, arzigogolo, vezzo, capriccio, compiacente e compiaciuto estetismo e dunque vanità; piuttosto, è quanto si intuisce in un verso da sempre caro a Giovanni Casoli, un verso di Hölderlin che vale come un’epifania e che – forse non è un caso – fu da lui composto negli anni in cui, per la scienza psichiatrica, era schizofrenico:

 

Voll verdienst, doch dichterisch,

wohnet der Mensch auf dieser Erde.

[Pieno di meriti, ma poeticamente,

abita l’uomo su questa terra – In lieblicher bläue]

 

Certamente, come ci viene ammonito dal racconto Che te ne fai della poesia?, “Non bisognava mai dimenticare che il mondo è tutt’altro che poetico”[19], tuttavia:

 

Dio, che meraviglia! Tommaso visse di quelle sillabe (non solo di quelle, ma di esse specialmente) per anni, fino alla sua maturità e oltre. Qualunque cosa gli capitasse, bella o brutta, qualunque rovescio o volo dell’anima, in qualunque solitudine scendesse, o nel cuore segreto di qualunque risata e vocìo e sghignazzo tra amici in cerca di felicità anche per un solo momento, quelle parole non solo lo accompagnavano ma lo promuovevano oltre se stesso, cogliendolo al volo come il colpo di fionda di uno sguardo coglie la bellezza: irrevocabilmente. Erano esse a comprendere lui, gli facevano giustizia, lo confortavano anticipatamente di ogni rovescio della vita fino alla morte stessa, gettavano nel relativo e nel piccolo e nel poco ogni clamore quotidiano e, con tutto questo loro lavorio interiore in lui, restavano alte e intatte risplendenti come un sole invisibile, ma che rendeva possibile vedere ogni cosa nella sua vera luce.

Perché quell’abitare poeticamente, abitare, non dimorare per sempre, poeticamente, non materialmente soltanto; e oltre e prima e dopo tutti i possibili inutili meriti di cui si è pieni essendo vuoti; quell’abitare poeticamente “su questa terra” cioè in questa vita mortale; era la consolazione più grande e la liberazione più certa da ogni piccola o grande dipendenza, da ogni vischiosa rete, da ogni banale irrisione e giudizio, che uccidono chi non è vivo di un’altra vita[20].

 

Diveniamo partecipi, così, di una vera e propria agnizione: è la scoperta della bellissima perdita in cui consiste la “povertà” della poesia, perché, al di là dei nostri meriti (voll verdienst), scopriamo che – come ancora insegna Hölderlin – Alles ist innig, tutto è intimo, e dunque anche l’invisibile bellezza che si cela dietro al visibile; una bellezza invisibile che la poesia – come disse Paul Klee – ha il compito di rendere visibile.

Dunque, nonostante le fatiche, il dolore e la morte, la poesia e la bellezza da essa rivelata possono davvero salvare il mondo, “car le fond de l’homme malgré tout est poesie” – scrisse Paul Céline in una sua lettera, “perché il fondo dell’uomo, malgrado tutto, è poesia”.

Se, però, ci è data la possibilità di questa bellissima perdita, di questa salvezza in una bellezza invisibile che diviene visibile, allora, citando Rainer Maria Rilke, Casoli ci esorta a non dissipare la vita, proprio perché siamo “nur ein mal”, una volta sola:

 

[...]

Ein Mal jedes, nur ein Mal. Ein Mal

und nicht mehr. Und wir auch ein Mal.

Nie wieder. Aber dieses ein Mal

gewesen zu sein, wenn auch nur

ein Mal: irdish gewesen zu sein,

scheint nicht wiederrufbar.

[...]

 

[...]

Una volta ogni cosa, soltanto una volta.

Una volta e non più. E una volta anche noi.

Né più mai. Ma essere stato

una volta, anche se solo

una volta: essere stati terreni,

sembra irrevocabile.

[...]

(Nona Elegia)

 

Non dobbiamo, dunque, dissipare la nostra vita e, infatti, poco prima, Rilke ci ricorda che “hiersein ist viel”, “essere qui è molto”, con quel verbo hiersein (essere qui) che suona molto più pregnante, presente e dunque pregiato del filosofico dasein, quell’esserci heideggeriano indeterminato e vano.

È, dunque, con spirito da confessores che dobbiamo abitare la terra, cioè abitare la terra poeticamente, per essere, tra i cosiddetti moderni, testimoni e forse anche martiri di una verità nicht wiederrufbar, inappellabile, irrevocabile: che La vita è più grande.

 



[1] G. Casoli, La vita è più grande. Racconti in prisma narrativo, Gruppo Albatros Il Filo, Roma, 2014.

[2] Ib., p. 237.

[3] Ib., p. 71.

[4] Ib.

[5] G. Casoli, Novecento letterario italiano ed europeo. Autori e testi scelti, Vol. I, Città Nuova Editrice, Roma, 2002, p. 7.

[6] Ib.

[7] G. Casoli, La vita è più grande. Racconti in prisma narrativo, Gruppo Albatros Il Filo, Roma, 2014, p. 140.

[8] G. Casoli, Novecento letterario italiano ed europeo. Autori e testi scelti, Vol. I, Città Nuova Editrice, Roma, 2002, p. 5.

[9] G. Casoli, La vita è più grande. Racconti in prisma narrativo, Gruppo Albatros Il Filo, Roma, 2014, p. 145.

[10] G. Casoli, Novecento letterario italiano ed europeo. Autori e testi scelti, Vol. I, Città Nuova Editrice, Roma, 2002, p. 5.

[11] Ib.

[12] G. Casoli, La vita è più grande. Racconti in prisma narrativo, Gruppo Albatros Il Filo, Roma, 2014, p. 241.

[13] G. Casoli, Novecento letterario italiano ed europeo. Autori e testi scelti, Vol. II, Città Nuova Editrice, Roma, 2002, p. 453.

[14] Ib., Vol. I, p. 7.

[15] G. Casoli, La vita è più grande. Racconti in prisma narrativo, Gruppo Albatros Il Filo, Roma, 2014, p. 7.

[16] G. Casoli, La bellissima perdita, Casa Editrice Marietti, Genova-Milano, 2006, p. 13.

[17] G. Casoli, La vita è più grande. Racconti in prisma narrativo, Gruppo Albatros Il Filo, Roma, 2014, p. 138.