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Cosa riserva il futuro a Samira?

di Uri Avnery - 20/10/2005

Fonte: nuovimondimedia.com

Cosa riserva il futuro a Samira? 
di Uri Avnery

Cos’è la vita senza la disponibilità di acqua con quaranta gradi all’ombra, dipendendo da generatori improvvisati per la corrente elettrica, vivendo costantemente nella paura, con i carri armati che scorazzano per le strade? È una non-vita. È ciò che succede in Iraq 
Pochi giorni fa, ad una conferenza in Europa, ho incontrato un’affascinante giovane donna. Intelligente e piuttosto colta, parlava diverse lingue. Ed era molto attraente. Dopo qualche ora di shopping sembrava una modella, vestita all’ultima moda. È una ragazza sciita, di Baghdad, la città dove è appena ritornata. Chiamiamola Samira.

Ciò che mi ha colpito di più di Samira è stato il suo pessimismo. “La situazione è difficile”, mi ha detto, “e, qualsiasi cosa accada, non potrà che peggiorare”. Per una giovane donna, per una professionista, la prospettiva è deprimente. La comunità sciita in Iraq è in mano agli ayatollah, che impongono alle donne una rigida condotta religiosa. Probabilmente non così rigida come nell’Afghanistan dei talebani o nell’Iran di Khomeini, ma abbastanza dura per impedire ad una donna di vestirsi liberamente o di realizzare le proprie ambizioni professionali. Samira sta tenendo nascosta la sua professione a molti dei suoi vicini nel quartiere di Baghdad, dove abita, per timore di attrarre l’attenzione di una delle tante milizie armate che si aggirano in città.

Cos’è la vita senza la disponibilità di acqua con quaranta gradi all’ombra, dipendendo da generatori improvvisati per la corrente elettrica, vivendo costantemente nella paura con i carri armati che scorazzano per le strade? È una non-vita, destinata a degenerare sempre più.

Lo scenario futuro per l’Iraq? Samira intravede diverse possibilità, di cui nessuna rassicurante. Forse una nuova distruzione. Probabilmente una guerra civile. Sicuramente una sanguinosa e crescente insurrezione. Di certo all’orizzonte nessuna chance per una nuova, prosperosa e democratica società multiculturale.

L’Iraq sembra ora un giocattolo irrimediabilmente rotto, smontato da un bimbo sciocco e ostinato.

Ho accuratamente evitato di scrivere della situazione irachena per diversi mesi – nel frattempo gli eventi hanno preso una piega sempre più tragica – perché siamo giunti al punto in cui è diventato impossibile raccontarne senza dover dire “Te l’avevo detto!”

Il mondo (e soprattutto Israele) è zeppo di politici, generali, giornalisti, accademici, agenti dell’intelligence e gente che nelle proprie previsioni è stata regolarmente smentita (con rare eccezioni, come un orologio bloccato che mostra l’ora giusta solo due volte al giorno). In maniera decisamente strampalata, di questi personaggi continuano ad essere richiesti, i loro errori continuano ad essere perdonati e dimenticati nonostante le conseguenze disastrose che hanno causato, e ciò accade per lo più a politici e generali.

Una lunga esperienza mi ha insegnato che “Te l’avevo detto!” è una delle espressioni che più fanno infuriare. Ma, se l’opinione pubblica dimentica in fretta i commentatori caduti in errori clamorosi, mai si scorderà di coloro che hanno dimostrato di avere ragione. Quindi, dimentichiamoci di quella frase. Insinuiamo che alcune delle cose che avevo detto prima della guerra non si sono dimostrate poi così sbagliate. Due di quelle cose in particolare meritano ora un’attenzione speciale.

Primo: il vero obiettivo della guerra in Iraq era quello di istituire un permanente presidio americano in quel paese, sostenuto da un regime collaborazionista locale, con l’obiettivo di garantire un controllo diretto delle riserve petrolifere irachene e di quelle delle regioni circostanti – dell’Arabia Saudita, degli altri paesi del Golfo e del bacino del Caspio. Niente “armi di distruzione di massa”, nessuna “rimozione di un tiranno assetato di sangue”, nessuna “diffusione della democrazia”, nessun ”asse del male”.

Secondo: il principale risultato della guerra sarà la smantellazione del paese in tre diverse componenti ostili tra loro – gli arabi sunniti, gli sciiti e i curdi. Se questa smantellazione dell’Iraq viene definita impropriamente come “una libera federazione” o in altri modi è irrilevante. Il punto è che il controllo delle risorse petrolifere non è assegnato alle autorità locali.

Era chiaro che i curdi, se avessero mantenuto le risorse petrolifere sul proprio territorio, si sarebbero accontentati di nulla più che di un’indipendenza “di fatto”. Era chiaro anche che questo avrebbe destato forti preoccupazioni in Turchia, in Iran e in Siria, tutte nazioni che hanno oppresso il popolo curdo promettendo la realizzazione del sogno di un unico grande Kurdistan. Era inoltre chiaro che uno stato iracheno sciita sarebbe stato guidato da figure religiose – molte delle quali provenienti dall'Iran – che avrebbero imposto la legislazione islamica, la sharia. Questi clericali se non diventeranno i tirapiedi di Teheran poco ci manca. E, naturalmente, cercheranno di prendere possesso delle riserve petrolifere.

Non c’era bisogno di una profezia biblica per immaginare che i sunniti non avrebbero accettato questa situazione. In un tale assetto federativo, infatti, essi perderebbero potere e petrolio, e si ritroverebbero in un abisso di impotenza. Una tendenza del genere, dal momento che nasce come conseguenza naturale di un problema insoluto, porterebbe alla proliferazione di un’insurrezione senza fine. Né i leader curdi né quelli sciiti sembrano il genere di persone che rinuncerebbero alle proprie acquisite posizioni privilegiate per il bene di un Iraq che non hanno mai amato e nel quale dall’inizio non si sono mai identificati.

Tutto questo avrebbe potuto essere semplicemente evitato, se solo l’unica superpotenza rimasta sulla Terra non fosse stata guidata da una classe politica da ultimo posto in classifica, se la propria linea politica non fosse stata minata dai fanatismi dei neo-con, se Tony Blair – che avrebbe dovuto sapere come stavano le cose – non si fosse dimostrato un incorreggibile opportunista.

Milioni di persone oneste, innocenti iracheni di ogni comunità – come la mia nuova amica Samira – ne stanno pagando il prezzo più alto.

 

Uri Avnery è uno scrittore israeliano. È uno dei tre autori di ‘The Other Israel: Voices of Dissent and Refusal’. Ha inoltre contribuito al nuovo libro di Counterpunch, ‘The Politics of Anti-Semitism’

 

Fonte: http://usa.mediamonitors.net/content/view/full/21460
Tradotto da Luca Donigaglia per Nuovi Mondi Media