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La donna si autodistrugge quando vede nella maternità una prigione

di Francesco Lamendola - 10/03/2015

Fonte: Arianna editrice

 


 

Anna Karenina lascia il marito e il figlio e alla fine, in un certo senso, va incontro alla morte, devastata dal senso di colpa, oltre che dalla morbosa gelosia per l’uomo amato; la protagonista di «Una donna» di Sibilla Aleramo lascia marito e figlio senza distruggersi la vita, anzi, inseguendo intensamente la ricerca della propria affermazione sociale e affettiva: in entrambi i casi la donna vede il proprio matrimonio come una trappola e i propri figli come lo strumento di un ricatto esistenziale, per spezzare il quale non vi è altra strada che abbandonarli.

La donna moderna, emancipata, indipendente, sovente finisce per considerare la maternità come una prigione, responsabile di tutte le insoddisfazioni, le amarezze, le frustrazioni della sua vita: classico esempio di come sia cosa facile e istintiva, piuttosto che guardare onestamente in se stessi, distorcere la realtà e raccontarsene una versione deformata, allo scopo di scaricare il peso del proprio fallimento esistenziale su qualcun altro o su qualcosa d’altro. Si prende la prima cosa che capita a portata di mano: il lavoro, i genitori, i colleghi, i vicini, gli amici; per la donna, la cosa più a portata di mano sono i figli: non in quanto  possano rivelarsi ingrati o deludenti, ma proprio in quanto figli: per il fatto di esistere, sono di ostacolo, perché tarpano le ali alla madre.

Da sempre, i falliti e gli incapaci preferiscono credere che sarebbero diventati dei grand’uomini, o delle donne assolutamente eccezionali, se soltanto non avessero avuto quel tale fardello da portare sulle spalle; se soltanto fossero stati liberi di seguire la propria strada, di realizzare la propria vocazione; se soltanto non fossero stati scoraggiati, impediti, ostacolati in ogni modo da quelle certe persone o da quella tale situazione. Allora sì, che avrebbero fatto vedere al mondo di che pasta erano fatti: che grandi artisti o scrittori, che campioni sportivi o capitani d’industri, che modelle, che attrici stupende, inarrivabili sarebbero potuti diventare! Ma la vita è stata ingenerosa, verso di essi; li ha soffocati, li ha disarmati, li ha costretti ad arrabattarsi per le piccole, meschine necessità quotidiane: li ha distolti dalle sublimi altezze cui erano destinati, dai successi travolgenti che avrebbero ben meritato. Oh, è stata ben crudele, la vita, nei loro confronti: non li ha capiti, non li ha riconosciuti, non li ha valorizzati; sono stati ben piccoli e meschini i loro genitori, i loro mariti e le loro mogli, i loro amici e i loro vicini, quei filistei dei loro capi-ufficio e dei loro superiori gerarchici!

Per la donna, il fatto di avere dei figli è la scusa più facile e più a portata di mano di tutte; per la donna con tendenze suicide, il pretesto più a buon mercato per farla finita con una esistenza grigia e squallida, che le ha negato i meritati riconoscimenti e le gioie dovute. Il mistero di una vita umana, sia ben chiaro, merita comunque rispetto; il mistero del dolore, sempre, merita rispetto e compassione; il mistero del suicidio, merita compassione ed un pensoso, rispettoso silenzio: però non si dovrebbe attribuire il proprio dolore a circostanze che non c’entrano per nulla, e non si dovrebbe adoperare il suicidio come un’arma ideologica per rivendicare in faccia agli altri una libertà conculcata, una dignità offesa che non c’entrano affatto. Bisognerebbe sforzarsi di essere onesti, in vita e in morte.

La scrittrice statunitense Kate Chopin (Sain Louis, 1851-1904), divenuta in Europa quasi un caso letterario – mentre in patria era pressoché sconosciuta – dopo che la cultura femminista si è impadronita del suo romanzo «Il risveglio», apparso nel lontano 1899 - offre un buon esempio di tale cattiva coscienza, che non si riconosce come tale e che, al contrario, addossa agli altri, e specialmente alla propria condizione di madre, le delusioni e i fallimenti della propria vita, vedendosi come una eroina e una martire dell’emancipazione femminile, e venendo riconosciuta come tale da quella cultura che si autodefinisce progressista e libertaria.

Affinché il lettore possa farsene un’idea personale, riportiamo la pagina finale del romanzo di Kate Chopin «Il risveglio» (titolo originale: The Awakening; a cura di Anna Heiz, Napoli, Esselibri, 1996, pp. 161-3):

 

«Durante la notte, passata senza dormire, l'aveva assalita la disperazione. Non c'era niente che lei desiderava. Non c'era nessun essere umano che lei voleva accanto a sé, tranne Robert. Eppure, si rendeva conto che persino lui, e il pensiero di lui, sarebbero svaniti dalla sua esistenza, lasciandola sola. Sentì che i bambini erano per lei un ostacolo insormontabile: si erano impadroniti di lei e cercavano di trascinarla nella schiavitù dell'anima per il resti della vita. Ma lei sapeva come evitare tutto questo. Comunque, non stava pensando a queste cose, mentre scendeva alla spiaggia.

L'acqua del Golfo era lì davanti a lei, scintillante di mille riverberi alla luce del sole. La voce del mare è inebriante. Senza tregua, bisbiglia, stordisce, mormora, invita l'anima a perdersi in abissi di solitudine. Per tutto il tempo che Edna camminò sulla spiaggia bianca, non scorse un'anima viva. Solo un uccello con un'ala spezzata, su in alto nel cielo, sbatteva nell'aria, svolazzava, sbandava stremato, creando lui stesso il vortice che lo trascinava giù, sempre più giù, verso l'acqua.

Edna aveva ritrovato il vecchio costume da bagno, ormai sbiadito, appeso ancora al solito gancio.

Se lo infilò, lasciando gli abiti nella cabina. Ma quando fu davanti al mare, da sola, gettò via lo sgradevole, fastidioso indumento e, per la prima volta in vita sua, se ne stette nuda al sole, in balia della brezza che la sferzava e delle onde che la invitavano.

Che sensazione strana e terribile stare là nuda sotto il cielo! E com'era bello! Si sentiva una creatura appena nata, che apriva gli occhi in un mondo che le era familiare e che non aveva mai visto.

Piccole onde spumose si rompevano sui suoi piedi bianchi e le si attorcigliavano attorno alle caviglie come serpentelli. Si immerse. L'acqua era gelida, ma lei continuò a avanzare. L'acqua era profonda, ma lei sollevò il suo corpo bianco, spingendosi al largo con bracciate lunghe e rapide. Il contatto con il mare è sensuale. Avvolge il corpo nel suo morbido, intimo abbraccio.

Andò avanti, sempre più avanti. Si ricordò della notte in cui aveva nuotato verso il largo per la prima volta e le tornò in mente il terrore che l'aveva invasa, di non saper più tornare a riva. Adesso non guardò indietro, ma avanti, sempre più avanti, pensando al campo della "blue-grass" [erba dal colore blu-verdastro], che aveva attraversato da bambina, credendo che non avesse né principio né fine.

Mano a mano le braccia e le gambe diventavano sempre più pesanti.

Pensò a Léonce e ai bambini. Anche se erano parte della sua vita, non potevano pensare di poterla possedere tutta, anima e corpo. Come avrebbe riso Mademoiselle Reisz, forse deridendola, se lo avesse saputo. "E voi vi definite un'artista! Che pretese, Madame! L'anima dell'artista deve essere audace, deve sapere osare e sfidare".

La stanchezza la incalzava e stava per sopraffarla.

"Addio; perché ti amo". Lui non sapeva, non capiva e non avrebbe mai capito. Forse il dottor Mandelet avrebbe potuto capirla. Ma era ormai troppo tardi per andare da lui. La riva erra lontana e le forze l'avevano abbandonata.

Si rese conto della distanza e l'antico terrore divampò in lei per un istante, poi s'inabissò di nuovo. Edna udì la voce di suo padre e quella di sua sorella Margaret. Sentì abbaiare un vecchio cane., legato al sicomoro. Gli speroni dell'ufficiale di cavalleria tintinnavano, mentre attraversava il portico. C'era un ronzio d'api e il profumo muschiato dei garofani riempiva l'aria.»

 

I bambini, dunque, il pensiero dei propri bambini, non solo non trattiene Edna dal gesto fatale, ma le offre il pretesto per consumarlo: essi la vogliono trascinare nella schiavitù dell’anima per il resto della vita. E il marito (tradito), la famiglia, altro non sono che dei parassiti, dei vampiri bramosi di possederla, di schiavizzarla: nessun rimorso nei loro confronti, quindi, ma un profondo fastidio, un rancoroso disprezzo. Resterebbe l’uomo di cui Edna è innamorata: ma nemmeno il pensiero di lui vale a trattenerla: poco prima, egli ha avuto l’imperdonabile colpa di confessarle il proprio amore e di dirle addio, per rispetto alla sua condizione di donna sposata e di madre.

Edna lo aveva assillato e quasi perseguitato per dei mesi interi, codesto Robert, per sentirsi dire, alla fine, ciò che voleva: per sentirgli dire che l’amava, come lei amava lui (il che, nel frattempo, non le aveva impedito di darsi a un altro uomo, un notorio cacciatore di donne che l’aveva aggiunta al suo copioso “carnet” senza alcuna fatica, e anche, per la verità, senza il minimo imbarazzo o la minima vergogna da parte di lei, né prima né dopo il rapporto fisico); ma poi non aveva tollerato che la vittoria, così faticosamente conquistata, le si sbriciolasse fra le mani e che Robert, troppo corretto per farne la sua amante, uscisse di scena per sempre.

Come una bambina viziata, a quel punto, Edna sceglie la morte: una morte che viene vissuta come un rito di purificazione e di liberazione, con quel rifiuto del costume da bagno e con quel nuotare nuda lontano, sempre più al largo, abbandonandosi alla sensualità del contatto con l’acqua marina, come una ninfa di un quadro di Arnold Böcklin: bovarismo inconsapevole e tenace, fino all’ultimo, che getta l’ombra del kitsch anche su un estremo gesto che vorrebbe essere eroico, ma che eroico non può essere in alcun modo, visto che non scaturisce da una onesta lettura dei propri sentimenti, ma dalla frustrazione della bambina viziata che si vede sottrarre il giocattolo agognato dalle mani, proprio quando ormai gustava il trionfo d’averlo tutto per sé.

Ai nostri giorni, purtroppo, il suicidio ideologico sta facendo sempre più strada e sempre più discepoli. Ci si uccide per protestare contro una ingiustizia sociale, vera o presunta, e lo si usa come un’arma per imprimere le stimmate di fuoco del senso di colpa sui propri “nemici”; si accusa la società di essere crudele e persecutrice, si punta il dito contro questa o quella forma di intolleranza, che hanno resto impossibile la vita alla vittima. Non si sa riconoscere la vera radice del proprio male, della propria disperazione, che è il disamore della vita, la fragilità davanti alle sfide che essa comporta: si preferisce dare tutta la colpa al mondo cattivo e presentare se stessi come le vittime sacrificali di una battaglia per la civiltà che, comunque, andrà avanti nonostante tutto e finirà per trionfare. Non ci si confronta con l’altro, non lo si interroga: gli si getta in faccia il proprio cadavere per annichilirlo, per farlo sentire indegno, crudele e incivile; si denuncia la società come ottusa e arretrata, come incapace di riconoscere e rispettare i diritti delle minoranze- il che, sia chiaro, talvolta è vero: ma che c’entra questo con la decisione di togliersi la vita?

Kate Chopin cattiva maestra, dunque: non solo perché non valuta il pericolo di presentare il suicidio come una forma di liberazione, ma soprattutto perché non sa riconoscere quel che accade realmente nell’anima della sua eroina e bara al gioco, quando presenta la sua condizione di sposa – alla quale il marito non ha mai fatto mancare nulla – e specialmente di madre, come l’origine della sua impossibilità di vivere una vita soddisfacente. E questo è tipicamente americano, tipicamente moderno: il male non è dentro di noi, è sempre fuori; i cattivi sono sempre gli altri; noi siamo buoni, sono loro che ci tormentano e non ci lasciano vivere. Noi siano innocenti, troppo puri per questo mondo basso e sporco: abbiamo il diritto di difenderci, pertanto, con qualunque mezzo e a qualsiasi costo. La natura è buona, la società è cattiva: siamo come il buon selvaggio di Rousseau, smarriti in una foresta piena di malizia e di egoismo (altrui, mai nostro).

E sia. A ciascuno le proprie menzogne, il proprio auto-inganno. Guardare dentro di sé onestamente e lealmente, sino in fondo, è cosa alquanto impegnativa e presuppone un lungo percorso interiore alla ricerca della verità, un percorso intransigente e pieno di sacrifici: solo pochi hanno il coraggio di seguirlo per davvero. Le ideologie della modernità sono fatte apposta per eludere questo bisogno di verità, per fabbricare miti auto-consolatori e auto-celebrativi. Il femminismo è uno di questi. Senza il marito, senza i figli, senza la maledizione  della famiglia a cui pensare e di cui occuparsi, la vita della donna sarebbe tutta un’altra cosa: sarebbe intensa e ricca di soddisfazioni, ed essa, se intellettuale, potrebbe eccellere e far vedere a tutti che le sue capacità non sono per niente inferiori a quelle del maschio. Il guaio è che ideologie di questo tipo non solo eludono il vero problema; fanno di peggio: esse sono il problema; creano un circolo vizioso nel quale l’anima si smarrisce e rimane intrappolata e risucchiata in una spirale auto-distruttiva. Il rifiuto della maternità è solo l’effetto, non la causa del male. Il male, come sempre, è la mancanza di verità verso se stessi e verso gli altri.