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Arroganza intellettuale e razzismo di Mary Wollstonecraft, pioniera del femminismo

di Francesco Lamendola - 10/03/2015

Fonte: Arianna editrice


 

 



La londinese Mary Wollstonecraft (1759-1797), divenuta moglie del filosofo anarchico William Godwin, è una icona sacra del movimento femminista delle origini, ricordata come tale in tutti i libri di testo canonici e politicamente corretti.

La sua fama di scrittrice è consegnata essenzialmente a due opere di modesta mole: il romanzo «Mary», apparso nel 1788, e la «Rivendicazione dei diritti della donna», del 1792, che è considerato il primo manifesto femminista della storia.

Mary Wollstonecraft si considera una donna molto avanzata, molto progredita, molto indipendente nei suoi giudizi e nelle sue battaglie ideali: l’esatto contrario della donna docile e sottomessa, che non sa pensare con la propria testa e si rimette alle decisioni del padre o del marito. E così la sua figura è stata tramandata e la sua ombra fa continuamente capolino, occupando più o meno spazio, in tutta una serie di scrittrici anglosassoni di tendenza femminista delle generazioni successive, fino a Margaret Fuller, George Sand, Virginia Woolf, e senza dimenticare quella Kate Chopin che, poco conosciuta nella sua patria, gli Stati Uniti, è diventata un’autrice di culto in Europa.

Ma è davvero così, Mary Wollstonecraft, la libera pensatrice, moglie di un libero pensatore: è proprio così immune dai pregiudizi, dai luoghi comuni, dal conformismo e dal filisteismo dei suoi contemporanei; è realmente emancipata dal tronfio sciovinismo britannico e dalla irriducibile, rocciosa convinzione che solo nella sua patria alberghino le virtù che distinguono l’uomo dall’animale, a  cominciare dalla tolleranza e dal pluralismo culturale?

Vediamo.

Sfogliando il suo romanzo «Mary», lacrimosa storia di una donna che scopre di essere sfruttata a causa del proprio sesso e che realizza in se stessa un percorso di consapevolezza, che è anche una storia di formazione, durante la quale la coraggiosa eroina si lascia dietro le spalle i pregiudizi e i perbenismi dei suoi concittadini e la sua autrice ha modo di colpire con i dardi dell’ironia l’ignobile ipocrisia della società maschilista dell’epoca, si trovano, nondimeno, considerazioni che non sfigurerebbero per niente in bocca al nazionalista e al razzista più arrogante e triviale, tutto compreso dalla intrinseca superiorità delle stirpi anglosassoni sulla miserabile plebaglia papista che popola le contrade dell’Europa meridionale.

Ecco, al principio del capitolo XIV (ma sono capitolo brevissimi: tutta l’opera non occupa più di un centinaio di smilze paginette), con quali lusinghiere espressioni questa gentile donna, moderna ed emancipata, si esprime a proposito degli aborigeni semi-trogloditi di quella terra sgradevole, posta sulle rive dell’Atlantico, chiamata Portogallo, i quali, fra gli altri abominevoli vizi, non si peritano di seguire l’esecrabile religione cattolica romana (da: M. Wollstonecraft, «Mary, un romanzo»; titolo originale: «Mary, a fiction», 1788; traduzione dall’inglese di Giulia Arborio Mella, Roma, Savelli, 1978, p. 89):

 

«I portoghesi sono certo il popolo più barbaro d’Europa. Johnson avrebbe detto: “La loro mente è minima”. E può gente simile servire il Creatore in spirito e verità?  No, il grossolano rituale della Chiesa Romana è tutto quanto essi sono in grado di comprender: possono far penitenza, ma non vincere la sete di vendetta, né la lussuria. La religione, o l’amore, non hanno mai reso umani i loro cuori; essi vogliono solo ciò che è vitale, e adorano solo col corpo. Il senso estetico è sconosciuto; i fronzoli gotici e le decorazioni artificiose che essi chiamano ornamenti spiccano nelle loro chiese e nel loro abbigliamento. Il rispetto per i meriti dell’intelletto può trovarsi soltanto in una nazione civile.

Poteva la vista di un simile popolo appagare il cuore di Mary? No: ella si ritraeva disgustata da questo paesaggio… si volgeva a un uomo di cultura. Henry era da qualche tempo indisposto e depresso; Mary si sarebbe mostrata partecipe con chiunque si trovasse in quelle condizioni, ma con lui lo fu in modo particolare; si credeva obbligata dalla gratitudine, poiché egli si prodigava sempre per svagare Ann e per impedirle di soffermarsi sull’orrenda prospettiva che aveva dinnanzi, e che talvolta ella non poteva non anticiparsi con una sorta di rassegnata disperazione.»

 

Mary Wollstonecraft, dunque, nel condannare senza appello tutto il popolo portoghese, non questa  o quella classe sociale, non questo o quel partito, ma il popolo portoghese in quanto tale, descritto secondo gli stereotipi più corrivi e superficiali della pubblicistica anglosassone e protestante, non si perita di citare quel trombone sfiatato del dottor Johnson; né di farsi domande retoriche circa il limite di sopportazione della sua eroina nei confronti di una razza così deplorevole; né, infine, di tirare un rigo sopra tutta l’arte barocca portoghese, sui capolavori dell’architettura religiosa e sulle raffinatezze dell’abbigliamento lusitano, in nome di un classicismo estetico a prova di bomba e talmente compiaciuto, da non essere mai sfiorato neppure da un’ombra di dubbio circa la liceità di altre espressioni del bello.

In un intero popolo ella non sa trovare neppure un pregio, neppure una qualità; non le riesce di dipingere con simpatia neppure un gruppo sociale, neppure un singolo individuo: sono tutti degli incivili e dei bigotti, dei violenti e dei dissennati, tutti “massa dannata”, senza remissione e senza possibilità di redenzione. Neppure la tradizionale ospitalità, neppure l’istintiva cortesia portoghese ricevono il benché minimo riconoscimento: nessun tratto positivo, solamente ottusità e barbarie; ed è logico: ella non vede i Portoghesi come un insieme di individui, ma come il riflesso ideologico, anonimo e  impersonale, di un vizio capitale: la mancanza di umanità e d’intelligenza, che sono poi due facce della stessa medaglia. I loro cuori sono feroci, così come il loro gusto del bello è irrimediabilmente corrotto: di conseguenza, non sarebbe possibile trovare fra essi nemmeno un’eccezione alla regola, perché la regola è quella.

È il punto di vista, astratto e pretenzioso, dell’«Enciclopèdie», ossia di tutti i velleitarismi ideologici fondati sul preteso monopolio della verità: l’uomo concreto scompare e quello che resta è solo un manichino, che serve a confermare tutto il bene (il buon selvaggio di Rousseau) o tutto il male (“homo homini lupus” di Hobbes) di cui non l’uomo concreto, ma una umanità astratta, è capace, a giudizio di quei tali signori. Sembra di sentire Montesquieu, il quale, nello «Spirito delle leggi», sentenzia: «Quanto più si va a Sud, tanto più ci si allontana dalla morale». L’ideologismo giacobino sconfina nel razzismo biologico: i popoli del Nord sono “naturalmente” virtuosi (i giusnaturalisti Altusio, Grozio e Pufendorf non erano forse uomini del Nord?), i popoli del Sud sono naturalmente perversi, licenziosi, senza onore. E la signora del Nord non fa eccezione alla regola.

Se questa pagina non fosse stata scritta dalla profetessa ufficiale del movimento femminista e se tale posizione non la rendesse puramente e semplicemente inattaccabile agli occhi di tutti i seguaci del progressismo e del politicamente corretto, ci si potrebbe domandare – ma certo sarebbe una domanda terribilmente sconveniente, per non dire blasfema – come sarebbero, anzi, come sono valutati simili giudizi, qualora ad emetterli sia, per esempio, un cittadino tedesco del XX secolo nei confronti degli Ebrei, nella sua corrispondenza privata o annotando le pagine d’un diario. Non c’è il minimo dubbio che essi verrebbero classificati come la prova del nove dell’insopprimibile tendenza razzista del popolo tedesco, anche indipendentemente dalle ideologie politiche estreme, come il nazismo: e proprio la gratuità, la banalità e la genericità assolute dei giudizi sferzanti su di un popolo intero, come quello portoghese, sarebbe portata a dimostrazione del fatto che il razzismo è nei cromosomi di certi popoli rapaci e crudeli, come il tedesco, sempre inclini a prendersela con le piccole e indifese minoranze, sempre svelti a schizzare veleno sulle vittime della loro violenta, congenita xenofobia.

«Mutatis mutandis», se ci si consente il parallelismo, è come quando tutti si scagliano contro il mostro Erich Priebke, boia impenitente delle Fosse Ardeatine, immeritevole perfino di avere un funerale e di essere sepolto in un pezzo di terra qualsiasi; ma ecco che, se il discorso si sposta sui piloti americani che sganciarono le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, provocando un numero di vittime innocenti infinitamente più grande, e condannandole a una morte infinitamente più crudele, subito quegli stessi accusatori diventano un po’ meno loquaci, anzi perdono del tutto la voglia di parlare, e si limitano ad alzare le spalle e a lanciarti delle occhiatacce fulminanti, come se non valesse nemmeno la pena di mettersi a discutere con degli interlocutori così palesemente  stupidi o in mala fede.

C’è una ragione per un tale stato di cose: i progressisti si ritengono i “veri” depositari della Virtù (versione laica e aggiornata dell’etica cristiana), anzi, i soli che la sappiano riconoscere e mettere in pratica: essi costituiscono, per definizione, e senza false modestie, l’avanguardia del Progresso, della Civiltà, della Giustizia, della Libertà, ecc.: gli altri possono fare una cosa sola, accodarsi alla loro sequela. Se non lo fanno, allora li si deve combattere senza quartiere, si deve schiacciare loro il capo come a delle serpi: «Écrasez l’infâme!», incitava Voltaire, versione laica e aggiornata di San Michele che schiaccia la testa al Diavolo; qui, il Diavolo dell’ignoranza, della superstizione, dell’oscurantismo. Non meritano alcuna pietà – come è accaduto, coerentemente, nella guerra di sterminio della Vandea -, perché essere pietosi con loro significherebbe aprire le porte alla reazione e vanificare la marcia trionfale della Virtù.

E allora eccole, le signore progressiste come Mary Wollstonecfrat, tutte protese ad affermare le forze del Bene e della Luce contro quelle del Male e delle Tenebre, tutte comprese nel loro sacro zelo di crociate del Progresso e della Modernità: queste signore di sinistra che non tollerano se non ciò che va d’accordo con i loro presupposti razionalisti e materialisti e con i loro pregiudizi egualitari e giacobini, e son pronte a trattare da nemico chiunque non sia con loro, totalmente e incondizionatamente; un nemico non tanto da odiare, quanto da disprezzare, perché esse, dall’alto del loro sapere, si vergognano di respirare la stessa aria e di camminare sulla medesima terra che ospita creature tanto abiette e incivili da non vedere i vantaggi del Progresso.

Del vittimismo hanno fatto una professione, onde poter ricattare, attraverso il senso di colpa, l’universo mondo, tenendo sospesa su di esso la spada di Damocle di un “J’accuse” permanente: con loro non si può discutere, non ci si può confrontare alla pari, bisogna solo vergognarsi e sentirsi colpevoli, bisogna fare ammenda delle proprie colpe ideologiche e pratiche, bisogna abiurare la propria condizione di maschi profittatori di un ordine sociale ingiusto.

Se prendono le strade della politica, se arrivano in alto, se diventano ministri e se occupano alte cariche istituzionali, allora la prima cosa che fanno è sfoderare il loro repertorio di antiche e recenti rivendicazioni a tutto campo: vogliono far passare le loro convinzioni a colpi di decreto, magari scavalcando un vero dibattito parlamentare, di solito facendo leva sull’effetto emotivo di qualche episodio di cronaca nera; non perdono tempo, mettono l’opinione pubblica davanti al fatto compiuto e intanto lasciano cadere la maschera della tolleranza, che andava bene prima di arrivare al potere, e mostrano apertamente il loro vero volto, dispotico e intollerante. Non conoscono sistema più efficace, per far prevalere le loro idee, che il codice penale, le manette e la prigione: chiunque si azzardi a esprimere dissenso, d’ora in poi non verrà trattato come un normale avversario politico o ideologico, ma come un abietto criminale, meritevole della gogna mediatica, delle sanzioni di legge, dell’esclusione dalla comunità civile.

Se diventano prime donne di una grande nazione, ecco che si lanciano in una serie di battaglie per la civiltà: la loro personale “Kulturkampf” passa per la lotta contro l’obesità (sempre in nome del classicismo estetico, si direbbe, più che della salute dei loro concittadini), oppure per la difesa di un terrorista straniero condannato nella sua patria, ma da esse considerato una vittima ingiustamente perseguitata e bisognosa di protezione. Loro sanno cosa è giusto: il loro sesso ha sofferto tanto, ha sopportato secoli d’ingiustizie e di sfruttamento; adesso bisogna ascoltarle e credere ciecamente in tutto ciò che dicono. Hanno sempre in bocca i diritti della minoranze: gli immigrati clandestini, gli omosessuali, ecc.; e vogliono instaurarne la dittatura  – oh, ma sia chiaro, per amore della Civiltà…