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L’epopea di Mosul

di Giuseppe Marcenaro - 10/03/2015

Fonte: Il Foglio


Il martello islamista ha colpito là dov’è nata la civiltà. Dove ostinati visionari riportarono alla luce nell’Ottocento cinque millenni di storia

Un toro alato con testa umana, antica scultura assira in una sala del museo di Baghdad (foto Ap)

I cinque minuti del museo di Mosul. Cinque minuti e qualche secondo, filmati da un regista specializzato in orrorvisioni e messi in onda dalle televisioni dell’universomondo. Cinque minuti durante i quali – primi piani, campo lungo, piano sequenza – un’insistenza quasi didattica vorrebbe dimostrare che quel tipo di lavoro va fatto proprio così. Con quella perizia. Lo sbriciolamento d’uno dei trionfi di tutti i trionfi dell’archeologia. Il museo di Mosul, fin al giorno dell’ira, con quei reperti presi a martellate, preservava la testimonianza del più formidabile teatro stabile dell’umanità. Dove tutto ha avuto inizio. L’insondabile grandezza dell’origine del mondo che una furia cieca vorrebbe cancellare.

 

Quei cinque minuti drammatici di telegiornale, non soltanto hanno fatto scorrere davanti agli occhi la stoltaggine messa in scena da quattro smandrappati isterici irretiti da qualche testa fasciata di califfo a piede libero, ma hanno richiamato, si spera, alla mente della contemporaneità l’ineffabile pensiero centrale che è impossibile pensare. Cioè il senso del perché. Perché avviene ciò che avviene? Ed è stato un attimo vedere come un flashback mentale in dissolvenza, sovrapposto al sabba filmato nel museo di Mosul con i quattro disgraziati manovali dell’odio in azione – “Signore, perdona loro perché non sanno quello che fanno” –, l’arrabattarsi di entusiasti e visionari che vollero fissare l’origine del mondo proprio in quelle terre senza pace. Il moderno Iraq.

 

Il catalogo degli ostinati visionari, di quanti vogliono sempre provare scientificamente le proprie idee, venne compilato da un vagheggiante monsignor Pietro Daniello Uezio. Nel 1737 individuò, con un suo eccentrico trattato, il luogo ove si sarebbe collocato il Paradiso terrestre. Stava dalle parti della Mesopotamia, là al congiungimento del Tigri e dell’Eufrate. E a sostegno dell’ormai inscalfibile propria convinzione, evocò scritti e sentenze dovute a scaglioni di valent’uomini che avevano perso la ragione per inseguire un sogno. E a modello base, dimostrazione inoppugnabile, Uezio portava giusto la Bibbia: libro sacro e inattaccabile dove, tra altre storie come ognun sa, si narra del flagello degli Assiri, il disastro della torre di Babele e della splendida Ninive, dei settant’anni di schiavitù degli ebrei e di re Nabucodonosor. E dove ancora si narra della divina collera messa in atto da sette angeli sulle rive del Tigri e dell’Eufrate. E dove i profeti Isaia e Geremia, con terrificanti visioni, raccontano la distruzione “del più bello dei regni” della “splendida magnificenza dei caldei che fu travolta da Dio” così che “cani selvaggi latrarono nei palazzi e sciacalli negli ameni castelli”. Dell’ubertosa terra tra i grandi fiumi restarono lande brulle e colline misteriose su cui s’abbattevano tempeste che davano luogo a dune di terra nera che crescendo per cento anni sparivano per secoli. Questo nel rotolio dei millenni. E così dell’originaria bellezza si perse memoria. Attonite e sparute popolazioni nomadi sostavano a tratti in quelle pianure per consentire ai propri animali di far la fame con rare erbe. Tra le lamentazioni afone dei dromedari. Gli uomini di Allah e di Maometto, il profeta, si slargarono da quelle parti ignorando cosa vi fosse sotto il suolo che errabondi calpestavano.

 

Mesopotamia è il nome con cui la terra fra i due fiumi, culla di una grande civiltà, è ricordata nell’Antico Testamento. Stavano là le città su cui si era abbattuta l’ira del Signore. Un po’ più a nord Ninive. Più a sud Babilonia. Da quelle parti “re crudeli onoravano altri dèi e perciò furono estirpati dalla terra”. Passarono millenni. Da una enciclopedia popolare del 1867 alla voce Mesopotamia: “Il paese raggiunse l’apogeo sotto le dominazioni assira e babilonese. Sotto gli Arabi fu sede dei califfi. Con le invasioni dei Selgiucidi, dei Tartari e dei Turchi cominciò a declinare, e ai nostri giorni è ridotto in parte a un deserto spopolato”.
E allora eccoli alcuni splendidi dementi, con la testa piena di leggende a cercare da quelle parti la prova tangibile delle loro fantasie. Planavano sui deserti, senza meta. A sera in una tenda piantata nel vuoto, alla luce di una lampada oscillante, si lambiccavano il cervello rigirandosi tra le mani un pezzetto d’argilla disseccata raccattato nella pianura arsa. Fissavano i piccoli segni su quel frammento che somigliavano a impronte lasciate da uccelli che avessero corso sul fango bagnato.

 

ARTICOLI CORRELATI Gli sdraiati contro Al Baghdadi La nuova invasione tartara La “storia moderna” di quella parte di mondo potrebbe cominciare nel 1840 quando il governo francese nominò agente consolare a Mosul un certo Paul-Emile Botta. Aveva già girato mezzo mondo ed era un collezionista di insetti. Ogni sera, chiuso l’ufficio, Botta esplorava i dintorni di Mosul. E poneva domande ai perplessi abitanti. Se per caso avessero vecchie pentole. Dove fossero saltati fuori i mattoni con cui era fabbricata una stalla. E tutti quei cocci con le tracce delle zampe degli uccelli dove erano stati trovati. E quando supplicava gli indicassero il luogo gli rispondevano con un’alzata di spalle. Spiegavano che Allah era grande. E quei cocci Allah li aveva sparsi dappertutto. E bastava soltanto guardarsi attorno.

 

Non c’è da stupirsi se l’ostinato Botta, che in realtà non sapeva neppure lui cosa stesse cercando, dopo le innumerevoli notizie false degli indigeni, non prestasse fede a un arabo chiacchierone che con linguaggio colorito venne a parlargli di una collina zeppa di tutte le meraviglie che il francese stava cercando. Né c’è da stupirsi se Botta si frastornasse quando un altro arabo, diceva di venire da un villaggio lontano, e di aver udito delle ricerche del francese, e di volerlo aiutare perché amava i francesi. Doveva essersi diffusa la voce che l’originale agente consolare di Mosul vagolava alla ricerca di cose che in realtà si trovavano sparse ovunque. Cercava Botta mattoni con le zampe degli uccelli? Gli disse l’arabo che nel suo paese, a Khorsabad, ce n’erano a bizzeffe. Lui lo sapeva, perché con quei mattoni aveva costruito il proprio focolare e tutti, nel suo villaggio, avevano fatto lo stesso da anni e anni.

 

Botta si fece convincere. C’erano sedici chilometri di distanza tra Mosul e Khorsabad. Partì. Non si poteva mai sapere… Questa piccola spedizione, nella storia dell’archeologia, rese immortale il nome di Botta. Quello dell’arabo non è ricordato. Fu Botta che riportò alla luce i resti di una civiltà fiorita per quasi due millenni e poi sepolta sotto la nera terra e dimenticata dagli uomini per oltre due millenni. Aveva riesumato Ninive. Appena affondata la vanga erano venute alla luce delle mura. E su queste erano apparse iscrizioni, figure, rilievi, animali spaventosi, uomini barbuti, fiere alate, forme lontane da tutto quanto si poteva immaginare. Come non se ne erano mai viste. Per giorni, scavando, affiorarono alla luce altre mura e sempre nuove mura. Botta stava disseppellendo la splendida città degli antichi re Assiri. Venne fuori un palazzo costruito su vaste terrazze. Fu riconosciuto come la dimora di re Sargon, citato nelle sentenze di Isaia. La Bibbia aveva ragione. Scavando, il popolo degli Assiri tornò, tratto dall’oscurità e dalla leggenda. L’agente consolare di Mosul, l’archeologo avventizio Botta, s’era dato subito da fare per far arrivare in patria la sua scoperta. 

 

Ma come sovente avviene quando un sogno diventando improvvisamente realtà si dissolve, molte delle delicate sculture in alabastro, riesumate dopo millenni, come “corpi vivi”, a contatto con l’aria ardente del deserto si polverizzavano. Eugène-Napoléon Flandin, specialista in disegni di antichità, arrivò a Ninive per incarico del governo francese. Flandin fu per Botta quel che Vivant Denon era stato per Napoleone in Egitto. Soltanto che Denon aveva “ritratto” monumenti destinati a eternizzarsi. Flandin, copiandoli, doveva farli sopravvivere. Doveva essere veloce. Fissare sulla carta i sommi reperti che si decomponevano sotto i suoi occhi.

 

Nel 1850 uscì “Monument de Ninive, découvert et décrit par Botta, mesuré et dessiné par M. E. Flandin”, un’opera che mosse gli appetiti degli archeologi “professionali”. Botta era un dilettante. La sua specialità i coleotteri.

 

Sullo scenario iracheno apparve così un inglese la cui fama, inevitabilmente, avrebbe oscurato Botta. Sugli scavi avviati planò Austen Henry Layard, archeologo, diplomatico, politico, scrittore e conoscitore d’arte. Membro dell’alta aristocrazia londinese, conclamato come uno dei più famosi archeologi di metà Ottocento: “Con i suoi scavi in Mesopotamia aveva rivelato al mondo lo splendore dell’arte e delle antiche civiltà dell’Assiria, in particolare rivelò le città di Ninive e Nimrud”. Storia di sempre. Peste ai precursori. E neppure Layard mancò un libro autoglorificante. Opera che ebbe una lampante diffusione. Tradotto nelle “maggiori lingue”. Anche in italiano. La copia che può far da traccia in quest’occasione proviene da una biblioteca estinta, quella di un milanese, tal Luigi Vismara, un ignoto per oggi, che al tempo suo si dava aria di saputo e che in vena di facezie un cugino definiva “Voltaire da sottoscala”. Questo non per diminuire la memoria dell’antico proprietario del volume, zeppo di chiose d’antan. Semplicemente per fare intendere come l’effetto della scoperta suscitasse ben diffusi e generalizzati stupori a ogni livello.

 

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Ed è il libro che, sfogliato, riporta ai drammatici, tragici, indefinibili cinque minuti di Mosul documentati dall’ormai celebre filmato, cui con inebetita impotenza abbiamo assistito. Una performance di alcuni assatanati che se la prendono proprio con le statue e le vestigia che prima Botta e poi Layard avevano riesumate. Gli incunaboli delle nostre civiltà. Ora, nel libro cui si è fatto cenno – “Della scoperta di Ninive. Descrizione di Austero Enrico Layard”, volgarizzamento del conte Ercole Malvasia Tortorelli, Bologna 1855 – l’archeologo inglese racconta di un suo incontro con lo sceicco Abd-er-Rahman. Layard doveva aver spiegato al meravigliato musulmano il senso della sensazionale scoperta. E lo sceicco aveva risposto: “Mio padre e il padre di mio padre piantarono qui la loro tenda prima di me… Da dodici secoli i veri credenti – e Dio sia lodato, essi soli posseggono la vera saggezza – si sono stabiliti in questa contrada e nessuno di essi, né di quelli che vennero prima di loro, ha mai sentito parlare di un palazzo sotterraneo. E guarda! Viene uno da una terra distante molti giorni di viaggio e va diritto sul posto e prende un bastone e traccia una linea di qua e l’altra di là. ‘Qui – dice – è il palazzo, e là la porta’ e ci mostra ciò che per tutta la nostra vita è stato sotto i nostri piedi, senza che ne sapessimo nulla. Meraviglioso! Meraviglioso! Hai appreso questo sui libri, per magia o attraverso i vostri profeti? Parla! Dimmi il segreto della sapienza!”.

 

La notizia della scoperta di antiche vestigia ne accese ovviamente il culto. E più d’un “intelligente” europeo si mise in viaggio per andare a vedere. A rendersi conto personalmente di come fosse realmente la terra dove si era avviata la civiltà del mondo.
Helmuth von Moltke che aveva viaggiato molto, non mancò i luoghi dove Layard portava in luce “civiltà sepolte”. Von Moltke, il celeberrimo maresciallo. Proprio lui. Quello che aveva messo sotto l’esercito francese nel 1870, per citare una delle sue imprese. Il supermilitare stratega all’inverosimile, viaggiando per la Mesopotamia, onusto di stupore per le antichità, non aveva perduto “lo sguardo” del militare: studiava le mura, la loro possibile difesa, la maniera di scalarle… Di quel viaggio pubblicò il diario, sotto il titolo “Lettere dall’oriente”.

 

“Mosul – scriveva – è la grande stazione intermediaria delle carovane sulla via da Baghdad a Aleppo: un’oasi in mezzo al deserto: bisogna che la città stia sempre in guardia contro gli arabi; i muri che la circondano sono deboli, ma alti, e bastano a proteggerla contro la cavalleria dei beduini. La porta Bab-el-Emadi già nominata nelle crociate esiste ancora oggi, ma è murata. Secondo l’antico costume orientale, si dà molta importanza qui alla grandezza e alla bellezza delle porte. Si veggono portoni ad arco di marmo davanti a case e a capanne d’argilla il cui tetto è appena alto quanto il portone. I tetti sono piatti e circondati da mura basse con incavature. Gli abitanti di Mosul sono una singolare mistura di caldei primitivi con arabi, curdi, persiani e turchi, che li hanno soggiogati successivamente: la lingua è generalmente l’arabo. Piccole comunità parlano ancora l’aramaico. Per lo più monaci cristiani”. Poco oltre un inaspettato pensiero: “Quando qualche visionario scatena i popoli l’un contro l’altro non è più il progresso, è il ritorno alla barbarie”. Chissà cosa aveva percepito Von Moltke girando per le lande irachene, osservando il mescolarsi delle tribù, i loro strani dissidi, le ostinate incomprensioni tra chi pregava Allah e chi ancora custodiva i remoti culti per Zoroastro, Mitra… e quale altra sublime divinità capace di lenire la quotidiana disperazione dell’uomo.

 

In nessun altro luogo, come in questa terra, le civiltà si sovrappongono l’una sull’altra. Le tavolette d’argilla ricoperte di scrittura cuneiforme narrano la storia di Dario, re dei Persiani che fu all’apogeo della sua potenza nel 550 a. C. e che rappresentò il centro di un regno inimmaginabile per splendore e grandezza. Altre tavolette recano notizie di antiche genealogie, di guerre, devastazioni e delitti, rievocano Hammurabi, sovrano di un altro regno, fiorito intorno al 1930 a. C., o al re Sanherib, e fanno cenno a un altro immenso impero sul volgere dal secolo VIII al VII.

 

La mente è portata a immaginare un cerchio di persone in ascolto estatico di un cantastorie che, in una monotona cantilena interrotta da pause efficaci, parla di Harun, il prodigioso Califfo che raggiunse la massima potenza e fama di saggezza verso l’800 d. C., quando in occidente regnava Carlo Magno. Tra l’attuale Damasco e Schiras fiorirono sei grandi centri di civiltà, che esercitarono di volta in volta una grande influenza sul mondo antico. E queste civiltà reciprocamente interferenti, pur conservando la propria autonomia, si fecondarono a vicenda e riempirono con la loro vita più di cinque millenni. Cinque millenni di storia umana, spesso crudele, ma anche sublime! E a quel tempo Babilonia non era ancora stata fondata.

 

E’ contro questo universo, simboleggiato dai reperti conservati nel museo di Mosul, che le comparse del sinistro hellzapoppin cinematografico dei cinque minuti, si sono accanite. Un universo sostanza dell’ineffabile sfera celeste senza centro o confini in cui tutti siamo calati. A un tempo fieri delle grandezze ereditate. E a un tempo soggiogati da una incontenibile angoscia che ci induce, con ineffabile richiamo, a rifletterci in un crepaccio d’orrore senza fondo entro cui la nostra “civiltà” sembra inesorabilmente scivolare. Tra i diffusi idiomi della morte.