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Inglese: non attribuitemi sciocchezze che non ho detto

di Aldo Giannuli - 10/03/2015

Fonte: Aldo Giannuli


Se ci si desse la pena di rileggere per bene i due articoli che ho dedicato al problema dell’anglomania e della difesa dell’italiano, il mio pensiero dovrebbe risultare abbastanza chiaro, ma, siccome è sempre possibile che mi sbagli, non sarà inutile qualche precisazione. In primo luogo non ho mai detto che non si debba studiare e conoscere l’inglese. Per me sarebbe opportuno aumentare lo spazio della lingua inglese negli orari scolastici ed universitari. Poi, sarebbe opportuno anche impiegare più esercitatori ed assistenti di madrelingua, perché, più che di lezioni fatte in un inglese approssimativo e non maccheronico, abbiamo bisogno di docenti che migliorino la fluency dei nostri studenti ed a questo proposito, sarebbe auspicabile anche un aumento delle borse di studio per i programmi di studio all’estero.

Quindi, non ho nulla contro il fatto che si studi l’inglese, riconoscendone in pieno l’attuale importanza. Sono contro il fatto di espellere l’italiano dall’università e di creare artificialmente nel nostro paese una “lingua dei dotti” diversa dal parlato della gente comune. Questo creerebbe una frattura sociale molto grave alla quale, mi sembra, che i baldi sostenitori dell’idioma della regina Elisabetta non abbiano fatto caso. Per imparare l’inglese non c’è affatto bisogno di fare lezione in inglese, anzi è dubbio che questo abbia effetti positivi sulla didattica.

Ma, obietta qualcuno, ci sono gli studenti stranieri che ormai frequentano le nostre università. Ragione di più per fare lezione in italiano: se questi ragazzi hanno scelto di studiare in Italia (che non è la vice-Inghilterra) ci sarà pure qualche ragione, si immagina che apprezzino il nostro patrimonio culturale. Peraltro, vivendo per un periodo abbastanza prolungato in Italia, si immagina che imparino l’italiano, magari solo per fare la spesa al supermercato, quindi non sarebbe un onere aggiuntivo. Infine: a maggior ragione abbiamo interesse che apprendano il più possibile la nostra lingua, perché questo significa che, tornati in patria, saranno vettori della nostra influenza culturale, consumeranno prodotti culturali italiani come libri o riviste. Dunque, abbiamo tutto l’interesse, anche economico, ad usare questo strumento di penetrazione culturale per mantenere o espandere il nostro bacino di influenza culturale all’estero.

Peraltro, io terrei ben distinte le sfere dell’attività didattica e dell’attività scientifica. Se un nostro dottorando va a fare il dottorato all’estero va benissimo e magari questo risulterà più produttivo se conoscerà la lingua del posto in cui va, oltre all’inglese che è un passpartout. Così come è comprensibile che se un nostro docente partecipa ad un progetto internazionale, ad un convegno all’estero ecc, è molto probabile che gli sia necessaria la lingua inglese, nessun problema, ma questo cosa c’entra con l’imposizione dell’inglese in ogni angolo della vita quiotidiana in Italia? Siamo arrivati alla ridicolaggine di un Presidente del Consiglio che annuncia la “riforma dell’ education” anzi “dell’ educhescion”: siamo allo spettacolo da cabaret.

E vediamo anche al punto delle pubblicazioni scientifiche che qualcuno vorrebbe sempre e solo in inglese. Nulla in contrario sul fatto che i nostri docenti universitari pubblichino su riviste in inglese o anche in altre lingue: nelle facoltà scientifiche già si fa abbondantemente e sarebbe bene che lo si facesse anche nelle umanistiche, ma questo significa che dobbiamo chiudere quelle in lingua italiana? Lo sforzo necessario deve essere quello di evitare il più possibile che si alzino steccati fra la comunità scientifica e l’opinione pubblica, a questo serve la divulgazione, ma a questo deve servire anche un linguaggio il più possibile comprensibile nella produzione scientifica; l’ideale –sempre nei limiti del possibile- è quello di testi rigorosamente scientifici ma che siano leggibili anche da un pubblico colto, ma non necessariamente specialistico. Questo è quasi impossibile in discipline come la fisica, ma in altre, non solo è possibile, ma è doveroso esprimersi in modo accessibile anche ai non specialisti.

E voi vorreste che la produzione scientifica sia solo in lingua inglese? Questo alzerebbe ulteriori steccati fra comunità scientifica e società e ciò, in particolare in alcune discipline (come storia, sociologia, economia, diritto, politologia), sarebbe un disastro culturale senza precedenti. Dunque, si pubblichi pure in inglese, spagnolo, tedesco o coreano, ma avendo cura di rendere sempre disponibile il testo in italiano.

Dunque, va benissimo usare l’inglese ma con il buon senso di non farne  “la lingua iniziatica dei sapienti” (o dei “tecnici” visto che questo termine va più di moda) in modo da estromettere tutti gli altri dal sacro recinto della “cultura superiore”.

C’è un episodio che vorrei ricordare che la dice lunga sul reale spirito di questa anglomania. Partecipavo alla riunione di un organo accademico in cui si discuteva del solito progetto di lezioni in inglese. Sapendo già in anticipo che ogni argomento contrario sarebbe stato inefficace, intervenni dichiarandomi entusiasta dell’idea e facendo una proposta: non solo le lezioni, dovevano essere in inglese, ma anche le discussioni degli organi accademici sulle chiamate dei docenti, sull’elezione di direttori e presidi, sulla divisione di risorse e contratti ecc. Il gelo calò immediatamente e si passò ad altro argomento all’ordine del giorno…

Dunque, che si studi pure l’inglese, anzi di più, ma perché questo deve coincidere con una rese senza condizioni all’egemonia culturale americana e dobbiamo rinunciare a difendere il nostro spazio culturale?