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Perché Onorio, nel 410, abbandonò Roma alla mercé dei Visigoti di Alarico?

di Francesco Lamendola - 25/03/2015

Fonte: Arianna editrice


 


 

È uno degli interrogativi scomodi, uno di quegli interrogativi che rodono silenziosamente, ma implacabilmente, come un tarlo, la mente degli storici: perché Roma, nel 410, non venne difesa contro i Visigoti di Alarico, i quali, dopotutto, non erano numerosissimi, né invincibili? Stilicone, infatti, li aveva battuti già due volte: a Pollenzo e a Verona (rispettivamente nel 402 e nel 403), ricacciandoli fuori dall’Italia. Perché, dunque, l’imperatore d’Occidentale, Onorio, figlio di Teodosio il Grande, non fece praticamente nulla per stornare la minaccia dall’antica capitale, e preferì restarsene inattivo, con le truppe, nella sicura città di Ravenna, protetta dalle paludi meglio che da qualsiasi esercito?

Adesso Stilicone non c’era più: era stato decapitato, d’ordine dello stesso Onorio, nell’agosto del 408; e, checché ne dicano storici pettegoli e poco informati, quasi certamente l’imperatore non aveva desiderato una simile soluzione, né, tanto meno, se n’era compiaciuto: era stato anche lui sorpreso dall’ammutinamento dell’esercito, avvenuto a Ticinum (Pavia), nel corso del quale i principali ufficiali e ministri favorevoli a Stilicone erano stati sgozzati sotto i suoi occhi, e lui stesso aveva corso seriamente pericolo di vita. Aveva dovuto firmare anche la condanna a morte del suo generalissimo, dunque, perché ormai, a corte, dominava il partito nazionalista, istigato dal prefetto Olimpio e sostenuto dal Senato, contro il partito filo-barbarico, favorevole alla trattativa con i Goti: e Stilicone, piuttosto che attizzare una guerra civile, aveva affrontato la morte senza esitare, a Ravenna, offrendo il collo alla scure del carnefice.

Stilicone cadde appunto per aver costretto il Senato, diffidente e riluttante, a pagare ad Alarico 4.000 libbre d’oro per la sua infruttuosa permanenza ai confini dell’Illirico, quando gli era stato chiesto di tenersi pronto a marciare contro l’Impero d’Oriente: il Senato aveva dovuto cedere, ma aveva giurato odio eterno al generale, ormai apertamente sospettato di tradimento. In effetti, pur avendolo potuto, egli non aveva mai inflitto ad Alarico il colpo definitivo (come aveva fatto con Radagaiso, le cui orde erano state distrutte presso Fiesole), permettendogli anzi di lasciare l’Italia, sostanzialmente indenne. Non era stata, quella, la dimostrazione della perfidia del Vandalo, bramoso di mettere sul trono il proprio figlio, Eucherio, vantando la parentela con il defunto Teodosio, di cui aveva sposato la figlia Serena? In realtà, Stilicone meditava di servirsi di Alarico contro l’usurpatore gallico Costantino III: ma la sua improvvisa caduta mandò a monte il progetto.

Così, Alarico era sceso nuovamente in Italia, aveva marciato fino a Roma e l’aveva stretta d’assedio, chiedendo alla corte di Ravenna di poter insediare i suoi Visigoti, secondo il regime della “hospitalitas”, in Pannonia, e, per sé, la carica di “magister militum”, che ne avrebbe fatto, in pratica, il capo supremo delle forze armate occidentali. Onorio rifiutò, ma Alarico continuò a trattare, togliendo e rimettendo l’assedio per tre volte: nel 408, nel 409 e nel 410. Le sue richieste si facevano via via più modeste, ma Onorio le giudicava sempre eccessive: non poteva ammettere di trattare da una posizione di debolezza, perché qualunque concessione sarebbe apparsa come un umiliante cedimento alla prepotenza dei barbari. Solo quando Alarico si fosse deciso a lasciare l’Italia, le trattative avrebbero potuto riprendere: ma il re goto, che temeva di perdere la faccia davanti ai suoi, era altrettanto prigioniero di Onorio delle circostanze.

A un certo punto, durante il secondo assedio, Alarico ebbe l’idea di far eleggere un anti-imperatore e la sua scelta cadde su un influente senatore romano, Prisco Attalo, il quale vestì la porpora e divenne, praticamente, la marionetta del re barbaro. Ciò, in teoria, avrebbe dovuto spaventare Onorio e indurlo a cedere, ma così non fu; e alla fine, esasperato, Alarico strappò la porpora ad Attalo e tentò un ultimo accordo con Ravenna. Nuovamente respinto, sfogò la sua inutile ira contro la città di Roma, entrandovi la notte fra il 23 e il 24 agosto del 410 e saccheggiandola per tre giorni, prima di ripartire, carico di bottino, verso il Sud. Il suo obiettivo era quello di passare in Sicilia e, di lì, in Africa, il granaio dell’Impero, poiché i suoi Visigoti soffrivano ormai le conseguenze della carestia e del blocco dei rifornimenti provenienti da Cartagine. Ma non riuscì a procurarsi una flotta e dovette tornare indietro, morendo, all’improvviso, presso Cosenza, mentre il suo successore, Ataulfo, riportava i Goti fuori dell’Italia, in Gallia, trascinandosi dietro anche la sorella di Onorio, Galla Placidia, catturata a Roma e destinata a diventare sua moglie. Era il 412 e Ataulfo, per precauzione, si portò dietro anche lo screditato Attalo, il quale, chi sa, avrebbe potuto ancora tornare utile come strumento di pressione, se non di ricatto, nei confronti della corte ravennate.

La caduta di Roma nelle mani dei barbari ebbe una risonanza morale immensa (di cui è traccia anche nell’epistolario di San Girolamo, che allora si trovava in Palestina), poiché un fatto del genere non si era mai più verificato dai lontanissimi tempi di Brenno, capo dei Galli Senoni, che l’aveva presa e occupata nel 390 a. C. I pagani ne diedero la responsabilità ai cristiani, dichiarando che l’abbandono del culto degli dèi aveva provocato l’ira di questi ultimi; i cristiani risposero – fra l’altro, con Sant’Agostino -, facendo presente che, dopotutto, il sacco era durato tre soli giorni, che non vi era stato incendio e che i Visigoti avevano rispettato tutti coloro i quali si erano rifugiati nelle chiese, e ciò in ottemperanza a un esplicito accordo stipulato con il vescovo Innocenzo. I nemici, dunque, avevano dato prova di una insolita mitezza e i Romani, da parte loro, appena poco tempo dopo questo tragico evento, tornavano ad affollarsi per assistere agli spettacoli circensi: dunque, concludeva Sant’Agostino, non avevano imparato nulla, non avevano tratto alcun insegnamento da quella terribile lezione, che non era venuta dal corruccio degli dei pagani, ma dai peccati e dagli errori degli uomini. La critica di Agostino (e quella del suo discepolo Orosio) non si rivolgeva, comunque, contro l’imperatore Onorio, il quale, essendo un pio cristiano, andava assolto da qualunque responsabilità; il destino della Città terrena, edificata con la violenza e con la crudeltà e dominata dall’amore di sé, era comunque quello di perire, prima o dopo; ma il cristianesimo additava agli uomini un’altra realtà, imperitura e perfetta: quella della Città celeste, ispirata dall’amore di Dio.

Ma perché Onorio non si impegnò a fondo per allontanare da Roma la sciagura, ed evitare all’Impero l’incalcolabile danno morale, derivanti dalla presa della città da parte dei barbari? Perché trattenne a Ravenna, presso di sé, l’esercito d’Italia, che, dopo i fatti di Ticinum, era apparso così ansioso di battersi contro i Visigoti? Davvero egli non si rese conto, davvero non seppe valutare sino in fondo le conseguenze non solo politiche, ma psicologiche e spirituali, che la presa di Roma “eterna”, da parte di una mano di barbari, avrebbe provocato in tutte le province, e di come il prestigio e l’autorità imperiali ne sarebbero stati minati dalle fondamenta? Come mai sembrò più preoccupato di proteggere se stesso e la nuova capitale, Ravenna, piuttosto che la vecchia, che incarnava il destino storico e lo spirito immortale della Città dei Sette colli?

Il fatto è che, quando lo studioso moderno si pone simili domande, commette un duplice errore di ragionamento. Il primo è quello di guardare agli eventi con il senno di poi, senza rendersi conto che, per un contemporaneo, le cose non dovevano affatto apparire così chiare come egli se le figura; e, in particolare, che ben pochi avrebbero immaginato che l’Impero di Occidente avesse ancora poco più d’una sessantina di anni da vivere, prima di estinguersi per sempre. Per Onorio, così come per i suoi consiglieri e, in sostanza, per la maggior parte dei suoi contemporanei, il fattore decisivo, per la sopravvivenza dell’Impero, era quello dinastico: finché la dinastia teodosiana rimaneva sul trono, assicurando una chiara linea di successione, era impensabile che la coesione sociale e politica dell’Occidente venisse meno. Occorreva, dunque, resistere a tutti i costi su quel versante: occorreva debellare qualsiasi usurpatore, molto più pericoloso di qualunque orda barbarica. I barbari, così si pensava, passano e se ne vanno; gli usurpatori cercano di colpire al cuore lo Stato romano, agendo dall’interno e minandone la legittimità. Tale è la struttura degli Stati dinastici, l’ultimo dei quali in ordine di tempo – l’Impero austro-ungarico – si è dissolto quando è crollato il principio-base. E qui veniamo al secondo errore di ragionamento, tipico degli storici moderni. Per costoro, il fattore decisivo della posta in gioco - la sopravvivenza dell’Impero Romano -, era rappresentato da una politica di integrazione dell’elemento barbarico: si trattava di una vera e propria lotta contro il tempo. Se l’Impero non fosse riuscito ad assimilare i “foederati”, se non fosse stato in grado di civilizzare e cristianizzare quelle masse, sempre più numerose e agguerrite, che premevano da oltre il Reno e il Danubio, le dighe avrebbero ceduto e lo Stato sarebbe crollato. Anche Onorio e la sua corte valutavano al primo posto l’importanza del fattore tempo, ma da un’altra prospettiva. Essi avevano fatto, irrevocabilmente, e fin dal 408, la loro scelta di campo: stringere una alleanza di ferro, politica e morale, con l’Impero d’Oriente, per “bonificare” lo Stato dall’inquinamento barbarico e per ripulirlo da quei generali e da quelle truppe che erano considerati l’avanguardia di una vera e propria invasione, l’invasione e l’occupazione da parte dell’elemento razziale germanico. Bisognava fare come a Costantinopoli: dare un giro di vite in senso anti-barbarico, epurare la corte e le forze armate dalla presenza germanica; solo allora si sarebbe potuto rifondare lo Stato con ragionevoli prospettive di successo.

Che fosse una politica velleitaria e suicida, questo non lo avevano compreso: ma non si può dar loro tutti i torti. Le cose non erano così evidenti come noi, forti della conoscenza di quel che è accaduto, ci immaginiamo. E Onorio, dal suo punto di vista, aveva ragione a tener fermo sulla continuità del principio dinastico: il dramma finale e la dissoluzione conclusiva dell’Impero d’Occidente ebbero inizio quando, nel 455, si estinse la dinastia teodosiana, con l’assassinio di Valentiniano III da parte di alcuni seguaci del defunto generale Ezio, da lui ucciso con le proprie mani. L’usurpatore Petronio Massimo aveva architettato quel colpo di stato, ma pagò con la vita la sua temerità, perché il popolo si rivoltò contro di lui quando apparve chiaro che non avrebbe saputo difendere Roma dalla imminente incursione dei Vandali di Genserico. La storia dei ventidue anni successivi al sacco di Roma da parte di Genserico è, in buona sostanza, la storia di come i generali barbari, specialmente Ricimero, tennero in pugno l’Impero, muovendo come burattini gli ultimi sovrani d’Occidente e sbarazzandosene quando essi ostacolavano i loro piani.

Ha osservato lo storico Paul Veyne nel suo libro «L’impero greco-romano» (titolo originale: «L’empire gréque-romain», Paris, Editions du Seuil, 2005; traduzione dal francese di S. Arena, L. C. Dapelli e S. Stucchi, Milano, Rizzoli, 2007, pp. 641):

 

«L’assassinio di Stilicone riaprì all’armata di Alarico la strada di Roma. Ma l’imperatore d’Occidente, Onorio, aveva giurato a se stesso che non avrebbe ceduto al ricatto di Alarico. La sua visione, e quella dei suoi consiglieri, non era la nostra; per loro, la grande questione non ea la sorte delle popolazioni né la perdita di una parte d’impero, ma consisteva nel preservare il trono eliminando qualunque usurpatore. La politica di quei due secoli è tutta occupata da una “lotta tra capi” che sembrano preoccuparsi ben poco delle devastazioni inflitte dai barbari al loro impero; per Onorio, il peggior nemico non era Alarico, ma Attalo. Alarico, infatti, non minacciava né il trono, né la persona di Onorio; era invece la sua marionetta, Attalo, che si dava grandi arie e prometteva a Onorio di detronizzarlo, infliggergli mutilazioni fisiche ed esiliarlo su un’isola.

Onorio, dal canto suo, al sicuro in una Ravenna protetta dalle paludi che all’epoca la circondavano e dalla sua flotta, preferì sacrificare Roma piuttosto che negoziare con Alarico e l’usurpatore; la potente armata assegnata alla sua persona, i “palatini”, i “praesentales”, non si mosse dalle guarnigioni italiane, fatto per cui non si incontra mai alcun riferimento a essa. Dopo molte peripezie, le negoziazioni tra Ravenna e il re goto finirono per essere interrotte. Alarico era giunto a supplicare Onorio di accettare, sotto la minaccia, condizioni più moderate: gli mandò a dire che l’imperatore non poteva permettere che una città che aveva comandato l’universo per mille anni e in cui si ergevamo edifici tanto belli venisse distrutta e bruciata! Che prendesse piuttosto Alarico e i suoi uomini come difensori ausiliari dell’impero, accordando loro in cambio terre da coltivare!»

 

Tanto Onorio che Alarico, dunque, erano prigionieri di una logica che impediva loro di uscire dal vicolo cieco in cui s’erano cacciati; e l’inutile sacco di Roma fu la conseguenza di tale “empasse”…