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Il problema del soprannaturale nella teologia cattolica contemporanea

di Francesco Lamendola - 25/03/2015

Fonte: Arianna editrice


 


 

I cattolici dei nostri giorni, e specialmente quelli colti, a cominciare dai teologi, mostrano la tendenza a parlare sempre di più dell’uomo e sempre meno del soprannaturale: quindi, a parlare sempre meno della grazia, dell’anima immortale, della resurrezione di Cristo e del bisogno dell’umanità di essere redenta dal peccato.

La teologia ha sempre fatto una distinzione fra la manifestazione ordinaria e straordinaria del soprannaturale. Le tre virtù teologali, per esempio, che sono alla base della vita cristiana – la fede, la speranza e la carità – non si manifestano attraverso segni esteriori straordinari. Anche l’efficacia dei sacramenti, dal battesimo all’estrema unzione, non necessita di tali segni esteriori; e il sacrificio della messa, che ruota intorno al mistero della transustanziazione, è una porta aperta sul soprannaturale, che agisce in maniera discreta e silenziosa, poiché quel sacrificio è aperto all’accoglienza di ciascun fedele. Anche l’azione “normale” delle creature spirituali - angeli e demoni – rientra nelle manifestazioni ordinarie, se così si può dire, del soprannaturale: l’influsso benefico e protettivo dei primi e quello malefico e distruttivo dei secondi fanno parte del disegno complessivo della Provvidenza. L’uno è voluto da Dio per la salvezza degli uomini, l’altro è da Lui consentito per mettere i fedeli alla prova e per il conseguimento di un bene più alto, che sfugge alla vista dei mortali, ma che trova spiegazione nei disegni imperscrutabili dell’amore divino, le cui vie sono diverse dalle nostre. Angeli e demoni esistono e incessantemente rivolgono la loro attenzione verso la realtà umana, gli uni per servire l’opera di Dio, gli altri nel tentativo di ritardarla e ostacolarla, cosa resa possibile dalla loro natura di creature libere. Essi, però, hanno fatto la loro scelta una volta per tutte, i primi nel bene, i secondi nel male, mentre la scelta degli esseri umani si rinnova giorno per giorno, conservando essi, sino all’ultimo istante di vita, il dono prezioso del libero arbitrio.

Le manifestazioni straordinarie del soprannaturale appaiono sotto forma di segni visibili e, talvolta, spettacolari: come le visioni, le estasi, i miracoli, le stimmate, le profezie, quando vengono dall’alto; e come le ossessioni, le infestazioni, le possessioni diaboliche, i prodigi malvagi e le tentazioni eccezionali e particolari (diverse da quelle ordinarie), se provengono dal basso. Questa azione del soprannaturale è quella che più colpisce l’immaginazione e che più accende la fantasia, provocando forti reazioni emotive; è anche quella che, nelle persone poco preparate a riceverla o ad assistervi, scatena reazioni talvolta discutibili e incontrollate, degenerando in curiosità morbosa e in attesa spasmodica di prodigi, che poco o nulla hanno a che fare con la pura vita dell’anima, con i suoi veri bisogni e con l’aspirazione alla verità divina. Può dare luogo, inoltre, a forme superstiziose di aspettativa e di credulità e può distogliere l’attenzione da ciò che è essenziale, ossia dall’azione ordinaria del soprannaturale, prima di tutto attraverso il dono della grazia.

Il fatto che esista il pericolo di tali interpretazioni erronee e di tali discutibili degenerazioni non autorizza, però, a guardare con sospetto e con diffidenza preconcetta qualunque manifestazione straordinaria del soprannaturale. Quei cristiani i quali, in nome della lotta alle superstizioni e in ossequio a una certa mentalità razionalista e positivista, tipica della cultura secolarista oggi imperante, disprezzano tali fenomeni o escludono, addirittura, che possano realmente accadere, in nome di una malintesa “purezza evangelica” (come se il Vangelo non fosse letteralmente intessuto di tali manifestazioni soprannaturali straordinarie), compiono un vero e proprio peccato di superbia intellettuale e stravolgono il senso autentico delle Scritture: le quali, quando parlano di simili cose, non lo fanno in maniera figurata, alludendo a significati simbolici e astratti, ma, sovente, in maniera molto concreta, come di realtà inoppugnabili e puntualmente riscontrate ed attestate.

Oggi, dicevamo, sembra essersi diffusa la tendenza a mettere la sordina al soprannaturale, partendo dalle sue manifestazioni straordinarie, per giungere al soprannaturale in se stesso: dimenticando che, così facendo, si colpisce al cuore l’intima essenza del cristianesimo, che riposa sul duplice, insondabile mistero (come ben dice Dante) della Trinità e dell’Incarnazione, le cui radici affondano nel soprannaturale e le cui sublimi altezze si perdono, del pari, nel soprannaturale. Fra questi due misteri abissali sta il dramma dell’uomo, dramma di caduta e redenzione: il quale è, anch’esso, profondamente permeato di mistero, che nessun ragionamento chiaro e distinto potrebbe presumere di dissipare. Una teologia rettamente intesa non è né il tentativo di chiarire quei misteri che sorpassano, e di molto, le facoltà di comprensione della mente umana, né, all’opposto - e come oggi sembra diventato di moda - negare, esplicitamente o implicitamente, tale dimensione di mistero e ridurre il soprannaturale al livello della intelligibilità creaturale.  

Questa seconda tendenza, tipica di una certa teologia post-conciliare, sembra impegnata a scalzare il mistero dalle sue stesse basi metafisiche, per ridurre la fede al livello della coscienza ordinaria e delle possibilità naturali dell’uomo: è, pertanto, una forma di naturalismo, la quale, in ultima analisi, anche se può non sembrare tale, rappresenta la più completa negazione dello spirito religioso in se stesso, e di quello cristiano in modo particolare. A tale demolizione del soprannaturale sopravvive, probabilmente, una sola religione, quella buddista; la quale, forse a non a caso, in quest’epoca di crisi e disorientamento spirituale, non sembra risentire affatto di tali effetti. Essa pare l’unica religione che, in Occidente, non dia segni di cedimento, semmai di espansione, essendo pervasa di razionalismo e di naturalismo immanentistico e dichiaratamente orientata all’auto-rivelazione a all’auto-redenzione dell’uomo.

Riteniamo utile riportare alcune considerazioni svolta da Raimondo Spiazzi nella sua opera «La Chiesa nella storia. Una esperienza bimillenaria», Roma, Bibliotheca Fides, 1967, pp. 372-5):

 

«La FEDE è ridotta spesso a SENSO RELIGIOSO: e anche questo è inteso non nel suo elemento spirituale, ma come vaga, fluttuante, indefinibile evoluzione del subcosciente sul piano soprattutto del sentimento. Tale concezione immanentistica e modernistica sembra entrata nel campo teologico, dove almeno la terminologia è ormai corrente, e si sa che con la terminologia passa facilmente anche la dottrina. Si arriva così alla svalutazione della ragione e alle nuove forme dio FIDEISMO. Si ritiene opportuno di non cerare, per ammessa e dichiarata impossibilità di trovare. Così i dice: non si scruta, ma si adora il mistero. Il che può significare umiltà, ma anche sfiducia nella ragione e ingiustificata squalifica del dogma e della teologia.

Insieme però a questa concezione della fede, avanza un NATURALISMO che tende sempre più a cancellare della vita il SOPRANNATURALE: e non solo il soprannaturale QUOAD MODUM (miracoli, estasi, rivelazioni ecc. campo nel quale è bene essere sempre più MODERATI e DISCRETI), ma lo stesso soprannaturale QUOAD SUBSTANTIAM, nella concezione della grazia e della vita cristiana. Il soprannaturale, così, non sarebbe che un grado più alto della vita spirituale sviluppata dalle facoltà naturali, non un nuovo intervento e un dono trascendente di Dio. Ma allora cosa resta della rivelazione, della “vita eterna”, di tutta l’economia della salvezza, dello stesso cristianesimo?

È il problema che ci pèone dinnanzi a interpretazioni e giudizi “teologici” su Di, il cristianesimo, il fenomeno religioso, che tendono a deporre il “soprannaturalismo” del passato: in Tillich, teologo protestante, per esempio, che identifica Dio con la “profondità dell’esistenza”, in opposizione al simbolismo dell’”altezza”, della “sopra-naturalità”, della trascendenza, con cui in passato se ne è parlato; in Bonhoeffer, pastore protestante morto in un campo di concentramento, che prospettava un “cristianesimo senza religione”, dato che gli uomini sempre più si rendono conto di poter vivere senza bisogno della “ipotesi” di Dio; in Bultmann, soprattutto, il quale, nel suo famoso libro-manifesto «Nuovo Testamento e mitologia», sostiene la necessità di spogliare il cristianesimo delle espressioni “mitologiche” che vi hanno immesso gli scrittori del Nuovo Testamento (come preesistenza, incarnazione, ascesa e discesa, intervento miracoloso, catastrofe cosmica, cielo, aldilà, ecc.), tutte ispirate al presupposto di un Dio che è “fuori” del mondo, “oltre gli spazi”, mentre il divino, il soprannaturale compenetra tutto l’ordine terreno; in Robinson, vescovo anglicano di Woolwich, (sobborgo orientale di Londra), che pure insiste sulla necessità di “demitizzare” Dio e riduce il cristianesimo all’espressione che il rapporto tra l’uomo e il fondamento dell’essere, che si chiama Dio, ha preso in una certa epoca della storia, e le cui forme, oggi, sono superate, sì da somigliare a rotoli di carta-moneta inconvertibile per mancanza di copertura aurea…

Ma anche laddove è conservato il senso della religione e viene ancora riconosciuto al cristianesimo di essere una forma indiscutibilmente superiore di religione, anche se per certuni sembra meno attraente e incisiva di certe religioni e mistiche orientali, per le quali c’è una vera passione, come se in esse si scoprisse chissà quale nuovo messaggio spirituale: in realtà secondo tali concezioni il cristianesimo rappresenta nient’altro che un momento saliente nella vita dello spirito: non è fondato su una rivelazione, se non nel senso che alla parola “rivelazione” può essere dato in una concezione immanentistica ed evoluzionistica; una progressiva esperienza e autorivelazione religiosa. In altri casi si accetta il cristianesimo come un’etica superiore – quella del Discorso della Montagna – ma lo si rifiuta come religione per il fatto che nel mondo moderno non ci sarebbe più spazio per il sacro né bisogno di Dio come di una ipotesi per spiegare il mondo, sicché all’uomo d’oggi basterebbe il messaggio di Cristo come dottrina e forza morale secondo cui ordinare la propria vita nel tempo, senza riferimento e fede in una realtà trascendente (Dio, vita eterna), che non esiste. Anzi, un gruppetto di protestanti americani, capeggiati da un certo Altizer, giungono a formulare la tesi (una madornale stupidaggine) che “Dio è morto” e che quindi è il tempo dei “cristiani atei”.

C’è chi va oltre, e considera il cristianesimo come una forza storica, senza dubbio, validamente operante in passato e per alcuni anche al presente, in ordine alla formazione e allo sviluppo della civiltà: ma ne travisa l’essenza squisitamente religiosa, come avviene anche per la Chiesa, considerata più come organizzazione che ha riflessi – postivi o negativi – nel campo della vita terrena, che non come comunità di credenti e di pellegrinanti al cielo. Un altro dei soliti americani, il professor Harvey Cox, di Harvard, dando per certo che la vecchia interpretazione religiosa e metafisica del cristianesimo è ormai tramontata per sempre, auspica che si impari a “parlare di Dio con spirito laico” e che si instauri una nuova teologia, quella dei “cambiamenti sociali”.

Così, secondo le diverse opinioni e posizioni, il cristianesimo e la Chiesa sono valutati o respinti come realtà inserite nel mondo, compromesse col mondo, quasi infeudate al mondo, mentre sfugge, su entrambe le sponde, il senso religioso, spirituale, soprannaturale della religione fondata da Gesù Cristo per unire gli uomini nel culto del vero Dio e nella preparazione alla vita eterna.»

 

Eppure, voci sempre più numerose e sempre più significative, nel quadro della stessa gerarchia cattolica, sembrano aver abbandonato questo atteggiamento di saggia prudenza e di giusta distinzione rispetto alle più recenti filosofie antropocentriche e razionaliste, eredi, in qualche modo, dell’americanismo, del modernismo, della cosiddetta teologia negativa; e sempre più di rado si sente parlare del soprannaturale, sempre più spesso della fede come di una conquista umana.

Prendiamo in mano il catechismo per gli adulti, redatto a cura della Conferenza Episcopale Italiana: i riferimenti al soprannaturale non formano, come ci si aspetterebbe, la sua ossatura fondamentale; di angeli e demoni si parla pochissimo, più che altro in una nota teologico-pastorale relegata nell’appendice; e il linguaggio che vi si adopera sembra dettato da una esagerata vaghezza, da una indeterminazione tipica della cultura laica, allergica alle affermazioni nette e recise e che predilige le frasi sfumate, le affermazioni con riserva, i giri di parole un po’ ambigui, che ciascuno è libero di leggere e interpretare come vuole. Particolarmente significativo, in proposito, il capitolo - sempre relegato in appendice - sul significato e la natura del peccato originale, dal quale traspare evidente l’imbarazzo degli estensori nel trattare un argomento così ostico alla mentalità odierna, fondata sul dogma della responsabilità individuale. Il peccato originale, dunque, fa scandalo; eppure, è alla base di tutto il cristianesimo: senza di esso, la Redenzione sarebbe inutile. Come si fa a non vederlo? E come si fa a non vedere che, per il credente, tutta la vita, tutta la sfera del mondo naturale, non sono che inni di lode al mistero del soprannaturale, che ne rende ragione e dà loro un senso e uno scopo?