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Difesa della famiglia nell’era ipertecnica

di Mauro Magatti - 25/03/2015

Fonte: Corriere della Sera


È dunque attorno al tipo di società che vogliamo per il nostro futuro ciò di cui si può e si deve discutere. Senza censure, pregiudizi o reazioni isteriche.  Domenico Dolce e Stefano Gabbana hanno pubblicamente difeso la famiglia tradizionale, suscitando la veemente reazione di Elton John La presa di posizione pubblica a favore della famiglia tradizionale da parte di Dolce e Gabbana ha suscitato la reazione veemente di Elton John, il quale non solo ha accusato i due stilisti di essere «arcaici», ma ha anche lanciato una campagna di boicottaggio del loro lavoro. Di fronte a tanta reattività (già vista in altre occasioni) viene da chiedersi: tutto ciò che si può tecnicamente fare è di per sé legittimo? È illiberale interrogarsi sulle pratiche che la tecnica rende possibili? È ancora ammissibile porre domande sulla realtà di tipo non semplicemente tecnico? In realtà, dietro il battibecco tra star vi è la questione serissima che nasce dalla «doppia sconnessione» che, in anni recenti, ha progressivamente messo in discussione i presupposti stessi della famiglia tradizionale. Se, con l’introduzione della pillola, è stato tecnicamente separato l’atto sessuale dalla riproduzione, con la fecondazione assistita la riproduzione è stata disgiunta dalla sessualità. È per via di questa doppia sconnessione che la famiglia — per secoli la cellula sociale a cui era affidato il compito di gestire la complessa relazione tra i sessi e tra le generazioni — oggi è così traballante. Non si tratta, quindi, solo di un cambiamento dei costumi; in campo c’è l’ipotesi di una società che si organizza prescindendo dalla famiglia (che ha il torto di avere un carico relazionale incompatibile con un modello di vita programmaticamente basato sull’estensione illimitata della libertà di scelta individuale). Se gli avanzamenti tecnici non possono essere né ignorati né disprezzati, al tempo stesso non possono essere assunti acriticamente. Ne va della nostra libertà e del nostro futuro. Nella società della potenza tecnica, dove la nostra capacità di manipolazione avanza ogni giorno di più, ciò da cui siamo interpellati è la radicalizzazione del processo di individualizzazione. E di cui la disgregazione della famiglia è sintomo evidente. Chi, come Elton John, pensa che la famiglia sia una forma sociale così indistinta da poter prescindere dalle due dimensioni che l’hanno storicamente definita prospetta un mondo in cui l’individuo diventa l’unità sociale unica e fondamentale. Una società, cioè, in cui tutti i rapporti – per definizione flessibili e reversibili – siano riconducibili (anche in ambiti sensibili) ai singoli individui e alle loro scelte. Con il solo limite del tecnicamente possibile e con forme di regolazione esclusivamente tecniche e giuridiche. Che un tale mondo sia desiderabile (e pienamente realizzabile) è quanto meno opinabile. Dall’altra parte, chi vuole difendere la specificità della famiglia «riproduttiva» non può limitarsi a invocare la tradizione. Prima di tutto perché la famiglia non è sempre stata il luogo della dignità umana. E poi perché non ha senso prescindere dai progressi scientifici. Di fronte all’ipotesi di una società organizzata sull’abbinamento sempre più stringente tra individui e sistemi tecnici, la famiglia va invece riscoperta e riproposta come uno dei pochissimi luoghi dove è ancora possibile non solo far nascere alleanze durature tra persone libere che condividono una speranza di futuro, ma anche fare esperienza di relazioni che non rientrano integralmente nel campo della scelta individuale: è perché non si possono scegliere i genitori, né i fratelli, né i figli che la famiglia rimane preziosa nella società ipertecnica. La scienza, la tecnologia, la libertà di scelta sono grandi conquiste alle quali non avrebbe senso rinunciare. E tuttavia, quanto più avanziamo su questa strada, tanto più abbiamo bisogno di luoghi di resistenza e rigenerazione di un «umano non onnipotente» dove l’altro possa ancora essere accettato e riconosciuto (invece che reso scarto) anche quando non ci piace, non funziona, è fragile o è diverso dalle nostre aspettative. Nella convinzione che proprio l’esperienza di questa «alterità imperfetta» (nella quale prima o poi tutti ci ritroviamo) costituisca un baluardo nei confronti delle derive disumanizzanti che si nascondono nelle pieghe del nostro modello di vita.