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Guerra dell'istinto e socialismo aristocratico

di Luca Leonello Rimbotti - 25/03/2015

Fonte: Italicum

 

 

Dal marxismo al mito nazionale-popolare. In questo arco, che corre dall’impossibile al possibile, si racchiude gran parte della ventura politica di un ideale che è la chiave di volta della modernità: l’immissione delle masse nelle istituzioni borghesi, fino a decomporle, e la loro elevazione al rango di soggetto politico decisionista. Il marxismo, inteso nel senso di analisi degli antagonismi e “scienza” del mutamento sociale, ancora poteva veicolare credibili metodologie analitiche, se non fosse stato che il suo dogmatismo acritico gli impedì di leggere la realtà in tutte le sue manifestazioni, previste e imprevedibili, e non solo in alcune di esse. La trascuratezza marxiana nel vagliare variabili essenziali dei rapporti sociali di forza e delle strutture interne delle classi, condusse ad un fallimento di portata giacobina: molto sangue per nulla.

Da allora in poi, la rivoluzione fu possibile solo un passo oltre il marxismo. E spesso, contro di esso. Qualcosa che i migliori osservatori, già a cavallo tra Ottocento e Novecento, non mancarono di rilevare. Per dirne una, la cecità marxiana di fronte alle logiche irrazionali dell’appartenenza, la sua incapacità di valutare e dare peso sociopolitico alle determinanti dell’immaginale o a conferire valore di potenziale rivoluzionario ai patrimoni tradizionali, fu tale che molti intellettuali di prima grandezza finirono con l’emanciparsi da una “scientificità” irrealistica e imboccarono le nuove strade della sintesi tra conservatorismo e rivoluzione: da Sombart a Sorel a Michels, da Labriola fino a Croce e Gentile. Tutti, in qualche modo, “verticalizzarono” le concezioni del cambiamento sociale e si avviarono, ognuno per suo conto, su quel terreno elitario e differenzialista sul quale già Stirner e Nietzsche avevano inciso i loro fecondi paradossi, indicando la via di tutti gli impensati superamenti della palude egualitaria.

Da quel momento, la sparizione sostanziale del marxismo dalle dottrine politiche praticabili fu un fatto compiuto: e la storia del bolscevismo, anziché una smentita, in virtù della sua fredda incapacità di promuovere la dittatura del proletariato e di sostenere per l’appunto il peso del mutamento politico e sociale, ne è invece la più sonante conferma. In Psicologia politica,  Gustave Le Bon scrisse che “il carattere primordiale del socialismo è un odio intenso contro tutte le superiorità…e costituisce una sorta di forza mistica, che sarebbe in grado di ovviare alle iniquità della sorte”. Questo collettivismo programmato a tavolino da qualcuno che non aveva mai messo piede in una fabbrica né vissuto in prima persona le contraddizioni sociali reali, non patì mai un declino di propagazione a causa della propria assurdità, ma, esattamente al contrario, poté promuoversi come alternativo al capitalismo proprio in virtù del suo anti-marxiano tasso di nuova “religiosità” sociale. Oltre alla prospettiva di togliere ai ricchi – ovviamente eccitante per ogni sorta di povero – il marxismo ebbe slancio finché seppe auto-promuoversi come struttura del mutamento e cardine di una nuova distribuzione del potere, incentrata su un’utopia inarrivabile ma altamente mobilitatoria. Incapace di sopportare la stabilità e di creare da sé medesimo nuove spinte di oltranzismo, il comunismo è morto di vecchiaia nel giro di brevi decenni, sordo e muto dinnanzi al mondo che cambiava senza la sua partecipazione, in una sorta di parodia atea e quanto mai effimera dell’anti-Chiesa. Simile al cristianesimo nella promozione utopistica di una società dei giusti, il marxismo è spiombato come un cadavere impagliato perché sprovvisto, diversamente dalla Chiesa cattolica, di vere élites e di veri capi.

Nel campo della “religiosità” politica e della mistica della rivoluzione, che è l’unico in grado di aggregare masse in alternativa al sistema della cooptazione capitalistica che muove il circuito produzione-consumo, dobbiamo dunque liquidare Marx e suoi discepoli di ieri come di oggi, e inquadrare altre realtà.

Esiste un metodo di propulsione dell’attivismo politico, che ha già dimostrato in passato di sapersi gestire nello stesso odierno milieu politico-economico del capitalismo maturo: il mito politico. Esso è “un complesso di immagini capaci di evocare con la forza dell’istinto tutti i sentimenti che corrispondono alle diverse manifestazioni della guerra ingaggiata dal socialismo contro la società moderna”. Questa frase di Georges Sorel – che va adattata all’attuale, nel senso di non attribuire ruolo alcuno al defunto socialismo storico, dando invece ampio credito ad un socialismo di popolo ancora da forgiare – la possiamo incastonare in quell’unico quadro dell’antagonismo, che oggi è possibile rintracciare solo tra frange e marginalità ancora allo stadio di diffusa impoliticità. Periferie ideologiche, che cercano di assegnare rinnovata volontà politica alle scoordinate ma potenzialmente virulenti sacche di refrattarietà al metodo di dominio liberistico.

Stando alle parole di Sorel, oggi noi dobbiamo sostituire il termine “socialismo” con quello di “istinto”. Oggi nessun referente politico, nessun polo politico permette di riversare la carica di ribellismo sulle spalle di un soggetto credibile: non ci sono partiti, sindacati, organismi in grado di gestire neppure l’ombra di un progetto rivoluzionario o semplicemente alternativo. Oggi il rovesciamento deve essere pensato risollevando gli “istinti” soreliani di magnetismo sociale e di volontà di cambiamento del sistema, partendo magari dalle micro-realtà territoriali della vita sociale quotidiana.

La nuova ideologia dell’avvenire registra la riduzione dei residui brandelli marxistici in altrettanti volani dell’economicismo, così da rendere vana, anzi nociva, una riattualizzazione dell’equivoco storico che per lungo tempo ha impedito alle masse di percepire correttamente il “progressismo” come un battistrada dell’ideologia industrialista.

La nuova ideologia dell’avvenire ha ormai compreso che la catena di ferro che lega tra loro timocrazia e oclocrazia – cioè i ricchi e la plebe – è stata forgiata attraverso la borghesizzazione universale e il sopruso produttivistico. Per ottenere questo risultato, ai popoli sono state tolte la cultura e la cultura politica. Si osserva il sovvertimento della storia europea, nel vedere come il sovrano e il popolino, un tempo coalizzati contro la nobiltà e i ceti medi, si saldino oggi ad un borghesismo ridotto a individualismo di massa. In luogo di quelle antiche dinamiche sociali, legate al tradizionalismo dello Stato dei ceti – non necessariamente sistema dell’ingiustizia, ma tendenzialmente sistema della differenza - la borghesia cosmopolita, notoriamente priva ormai di capacità politiche rivoluzionarie o anche solo innovative e appiattita sui codici utilitaristici, è divenuta classe universale. I due rami borghesi, quello oligarchico dei tecnocrati e quello “democratico” delle masse consumatrici, impediscono ogni procedimento di lettura politica dei fatti, ogni progetto di superamento e ogni capacità di sintesi politica.

Da qui, la necessità di ricostruire un bacino di nuova infusione: sguardo freddo sulla realtà, abbandono dei paralizzanti teoremi intellettualistici e accensione della miccia sovversiva di liberazione, cominciando dal basso, dalle cavità ctonie in cui fermenta e ribolle la lava della rivolta. L’ideologia della ribellione nasce non appena i fatti prendono a muoversi: è allora che anche i simboli tornano a parlare. E i fatti, ogni tanto, si muovono. Noi vogliamo, una volta di più, ricordare i fallimenti piramidali di quelle dottrine che, antistoricamente e intellettualisticamente, avevano preteso di anticipare i fatti con le teorie, la storia con i dogmi pensati a tavolino. Il fallimento delle palingenesi puritan-comunistiche non è che il segno della loro inefficienza e dell’efficienza, invece, del realismo gestito dalle classi economiche, facenti parte della medesima famiglia ideologica, come dimostra la loro convivenza strutturale nel sistema americano. Il paradiso in terra della società degli eguali è stato sveltamente sostituito dal paradiso in terra della società dei ricchi: ma i protagonisti sono gli stessi, e i trozkijsti che hanno fallito a Mosca hanno trionfato a New York.

Quello che una volta Rousseau imputava ai regimi aristocratici, oggi è imputabile al regime “democratico” nato dalle sue stesse elucubrazioni egualitarie: “Rousseau volle far valere il fatto che un manipolo di potenti e di ricchi troneggi al culmine della società umana e al vertice della felicità, mentre la massa striscia sprofondata nel buio e nella miseria: tutto ciò era solo conseguenza di un principio d’autorità”, scrisse Michels, aggiungendo: “la democrazia eliminò così poco la miseria che, nella prima metà del secolo, proprio là dove la democrazia dominava nel modo più ampio e illimitato, come in Inghilterra e in Belgio, la miseria del proletariato di fabbrica raggiunse il più alto grado”. Dunque la “democrazia” borghese liberale, dopo guerre e rivoluzioni, alla metà dell’Ottocento aveva raggiunto lo stesso risultato dell’ancient regime: una feroce ingiustizia sociale. Basta sostituire il Belgio con l’America e la “democrazia” ottocentesca con quella dell’odierno tecnopolio e otteniamo un quadro del presente: sono le due facce di una medesima realtà. Utopismo comunistico e lobbismo usurario lavorano da buoni due secoli a braccetto, e ogni volta ripropongono geneticamente lo stesso risultato: lo sfruttamento economico e lo sfaldamento coscienziale. E tutti, nondimeno, comprendiamo che non è in gioco il principio dell’autorità, ma la gestione dell’autorità da parte dei nemici eterni della politica, repressa nel nome della retorica apocalittica ebraico-calvinista circa il primato dell’economia su ogni altro aspetto della vita associata.

In questo modo, le strutture dell’appartenenza culturale tornano ad essere fondamentali proprio nel senso soreliano di un risveglio delle riserve di energia promotrice nascosta tra le maglie del rimosso mitico ed immaginale. Sorel rappresenta oggi più di sempre il punto di congiunzione tra la modernità delle teorie sociali dinamiche e aggressive e l’impalpabile potenza evocatrice che talune matrici tradizionali – ad esempio, il neo-nazionalismo – continuano a mantenere nei ristretti ambiti del tradizionalismo rivoluzionario. La “borghesia conquistatrice” si è finalmente conquistata il diritto a sparire dai cicli attivi della storia, in virtù della propria partecipazione al disegno di espropriazione dei popoli dalla loro cultura nel nome dell’universalismo globalizzatore. Essa è seguita a ruota dagli intellettuali progressisti, che hanno come unico ideale residuo quello di assomigliare sempre più alle oligarchie economiche. Le frange neo-marxiste tenute fuori dal gioco del liberismo egualitario dovrebbero tenerne conto. La materia di cui era fatta la cultura politica del sorelismo è chiara: un procedimento di maturità politica che seppe condurre a concorde punto di vista rivoluzionario tutto un fianco dello schieramento antiborghese, tipicamente rappresentato dalla linea francese che va da Proudhon a Blanqui  a Lagardelle, da Péguy fino a Doriot e a Drieu La Rochelle. Riproporre dunque una “patristica” del rivoluzionarismo a-marxista?

Il socialismo aristocratico, più che nei libri e nelle idee, è nei fatti, è nella storia, è nella composizione del gene politico europeo. La rivoluzione culturale che vogliamo forgiare, nell’attesa che sorga una credibile classe politica in grado di assumerne i caratteri fondanti, si abbevera essenzialmente alla refrattarietà nei confronti del sistema usurocratico. La mobilitazione di questi ambienti, e la liberazione di alcuni di essi dai complessi storici costruiti su di loro come gabbie incapacitanti – ad esempio, l’anti-fascismo scolastico – sono l’anticamera di un radicalismo basato sulla mistica dell’eroismo e del sublime. Senza il “socialismo dei migliori”, voce moderna dell’appartenenza, la strada si libera definitivamente per la vittoria finale dei mercantilisti, su tutto il pianeta. In un tempo di rinascite fondamentaliste, in cui alcune religioni – non la cristiana, ormai troppo “occidentalizzata” e “atlantizzata” - sembrano volersi attrezzare per contrastare il livellamento universale e l’esportazione violenta della “democrazia” da parte dei padroni della ricchezza, la resurrezione dei simboli popolari della partecipazione politica indica l’unica strada percorribile. E’ quella della ripresa dell’iniziativa politica per mano delle nazioni. E’ quella della rinascita di ogni singolo popolo come centro di resistenza culturale, sociale e politica all’aggressione etno-pluralista e globalizzatrice. Il livellamento universale gestito concordemente dalle destre e dalle sinistre economiche ha il suo unico nemico nella possibilità di suscitare il risveglio dell’istinto soreliano dell’appartenenza che sta dormendo nei popoli. La nazione popolare che esprime aristocrazie del coraggio è in grado – essa sola, in questi tempi, e molto meglio degli effimeri fanatismi religiosi - di portare guerra di sani istinti di vita a coloro che sono abituati a condurre guerre di morte e distruzione.