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Disoccupazione e clausole di salvaguardia: come cambia il volto del nostro Paese

di Valerio Lo Monaco - 07/04/2015

Fonte: Valerio Lo Monaco

Disoccupazione e clausole di salvaguardia: come cambia il volto del nostro Paese

Dunque i settantanovemila “nuovi contratti” di cui si concionava in televisione e sui giornali e in Parlamento era una (mezza) bufala. Adesso, grazie ai dati Istat resi noti proprio ieri, il quadro relativo alla occupazione nel nostro Paese è un po’ più chiaro rispetto a prima e si possono tirare alcune somme. Si possono, inoltre, fare un paio di ragionamenti, uno almeno parziale, e uno, invece, definitivo.

Andiamo con ordine, facendo solo un accenno al dato citato in apertura: qualche settimana addietro Renzi, Poletti & co. comunicavano a reti unificate che nei primissimi mesi dell’anno erano stati sottoscritti ben 79 mila contratti di lavoro, senza specificare la loro natura, e solo alcuni si spingevano sino alla ammissione che non era ancora possibile conoscere la loro natura, in quanto si poteva trattare anche di mere transizioni tra contratti a tempo determinato ad altri tipi di contratti. Ciò non impediva alla classe politica di governo, però, di citare la cosa con toni trionfanti.

Secondo l’Istat, e veniamo a ieri, il dato complessivo che emerge è però quello di una disoccupazione che torna a salire, tornando nuovamente al 12.7%, che è lo stesso dato di dicembre scorso e che è più alto di 0.2 punti rispetto a febbraio del 2014. Insomma, nei dodici mesi precedenti si tratta di un incremento del 2.1%, portando il valore numerico assoluto di disoccupazione a 3.24 milioni di cittadini. In merito a quella giovanile, la disoccupazione si attesta al 42.6%, con una ulteriore crescita di 1.3 punti rispetto al solo mese precedente.

Si tratta, bisogna ribadirlo, dei dati ufficiali della disoccupazione rilevata, cioè non tenendo conto degli inattivi (chi è senza lavoro e non è neanche iscritto alle liste di collocamento per l’assoluta sfiducia e lo scoraggiamento nel trovare un nuovo posto). Ciò significa che in senso assoluto i dati sono decisamente peggiori.

Il ragionamento parziale che si può fare è dunque quello di una situazione che il “lavoro” complessivo di Renzi e del suo governo, dall’insediamento a oggi, sul quale qualche sintesi si può ormai fare, non sta portando assolutamente a nulla in merito alla occupazione. Certo, gli effetti del Jobs Act devono ancora farsi sentire perché il suo varo è troppo recente, ma sbaglia chi pensa che i due dati sopra citati non possano essere messi in relazione, perché la cosa non solo è possibile ma, anzi, è illuminante.

Il secondo ragionamento, infatti, ci porta a interrogarci sulla natura del lavoro in circolazione. Al momento, Jobs Act o meno, la disoccupazione non accenna a diminuire (anzi continua a salire) e una delle possibili conseguenze del grande piano di smobilitazione salariale di Renzi potrebbe portare se non altro a un rallentamento della sua crescita. La disoccupazione potrebbe dunque assestarsi ai valori odierni, ma con una importante novità, in grado di cambiare il volto dell’occupazione nel nostro Paese. Anche ammettendo (e lo vedremo nei prossimi mesi) un periodo di transizione in merito alla tipologia dei contratti che le aziende andranno a offrire ai lavoratori in seguito al Jobs Act, e anche ammettendo che questo fenomeno arresti la crescita della disoccupazione, ci troveremmo di fronte a una situazione che vede al lavoro lo stesso numero di occupati, ma con un tipo di lavoro fortemente degradato rispetto a prima. 

Non è affare da poco, perché si tratta della fotografia esatta di ciò verso cui, dalla lettera della troika a Berlusconi a suo tempo, e poi attraverso il lavoro di Monti e di Letta, e quindi di Renzi, si è imposto all’Italia di andare. In altre parole, non era ovviamente pensabile che si lasciasse che la disoccupazione crescesse all’infinito, ma i metodi che si stanno utilizzando per fermarla sono proprio quelli che ci erano stati imposti, cioè con la perdita progressiva di salari e di tutele per i lavoratori. Il quadro che ne emerge è molto semplice da sintetizzare: una Italia che ha meno lavoratori e che, allo stesso tempo, offre a questi condizioni peggiori di prima. Pochi lavoratori, in “cina style”.

Su questo quadro lavorativo, che ovviamene solo un ingenuo può pensare che possa portare alla ripresa economica tanto ricercata dal governo, si attendono per oggi le decisioni relative al Def dal Consiglio dei Ministri. Nel documento di economia e finanza odierno dovrebbero arrivare le decisioni in grado di scongiurare l’avvio delle clausole di salvaguardia. Queste riguardano soprattutto l’aumento automatico dell’Iva e delle accise, per il 2016, se l’Italia non dovesse arrivare agli obiettivi fissati in bilancio.

Ora, sulla possibilità di arrivare a quegli obiettivi economici di crescita lasciamo a ogni singolo lettore la propria previsione, ma su un fatto dovremmo essere tutti d’accordo, perché si tratta di andare a vedere un numero, uno solo, in grado di chiarire alcune cose: all’appello, già oggi, mancano 17 miliardi.

Questi 17 miliardi sono esattamente ciò che il governo andrà “a cercare” nel Consiglio dei Ministri odierno, e proprio per evitare, ancora prima di conoscere i dati definitivi sulla crescita, che si arrivi allo scenario dell’entrata in vigore delle norme di salvaguardia.

Renzi ha dichiarato che non vi saranno ulteriori tasse, e dunque resta da capire dove verranno rastrellati questi 17 miliardi. Si parla di tagli agli sprechi, naturalmente. Come sempre. Tagli possibili, certo (e non appena conosceremo le decisioni di oggi torneremo a commentare il tutto). Ma si parla anche di nuove spese addebitate ai comuni e persino di ulteriori tagli ad alcuni servizi, come quello del trasporto urbano. Il che, in entrambi i casi, significa tasse indirette. Perché pur riuscendo a non far aumentare Iva e accise, nel caso di ulteriori tagli ai servizi e ai Comuni, il Governo non farebbe altro che tassare noi tutti, come è ovvio, solo che con strumenti differenti.

Significherebbe che quelle buche già aperte nelle strade comunali non verranno chiuse, che quegli asili e quelle scuole già quasi fatiscenti non verranno restaurate, che quel servizio pubblico di trasporti già malandato non verrà che peggiorato e insomma tutto quello che ci si può attendere da Comuni già disastrati economicamente e che andrebbero, dopo le decisioni di oggi, a esserlo ancora di più.

Altro che “nessuna nuova tassa”: clausole di salvaguardia o meno, se di nuovi tagli si tratta, ebbene quelli sempre sulle nostre teste saranno.

Delle promesse di Renzi, dal suo insediamento a oggi, rimane ben poco. Anche l’Istat conferma che la pressione fiscale (ufficiale) è salita a oltre il 50%, dunque aumentata rispetto all’anno precedente, e che la spesa pubblica è aumentata per pagare maggiori interessi. Poi, che la pressione fiscale reale sia al 70% e anche ben oltre è affare di cui, invece, si accorgono in pochi… Intanto oggi aspettiamo le decisioni sul Def, mentre i dati sulla disoccupazione in crescita sono già belli che spariti, dalle prime pagine dei media.