Il matrimonio gay, per l’omosessuale Testori, è solo un’esecrabile rivalsa
di Francesco Lamendola - 14/04/2015
Fonte: Arianna editrice
Qualcuno ha deciso di cambiare il significato delle parole a nostra insaputa, in base alla logica del politicamente corretto: e così ci troviamo fra le mani uno strumento linguistico pieno di trabocchetti e di tagliole, dove i nomi non corrispondono più ai concetti che conosciamo, che abbiamo sempre saputo e che, fino a prova contraria, stanno scritti nel vocabolario.
Potremmo fare moltissimi esempi, ma, in questa sede, ci soffermeremo su uno soltanto: il termine “omofobia”, tipico neologismo di matrice ideologica post-moderna. Stando al significato letterale, significherebbe “odio per il simile”, ma, in senso traslato, sta per “odio, paura, avversione nei confronti degli omosessuali”. I signori dell’Unione Europea, i quali, oltre a dettar legge in materia finanziaria, pretendono anche di cambiare il modo di pensare e di sentire dei cittadino, hanno deciso che si tratta di un crimine, per la precisione un crimine equiparabile al razzismo, alla xenofobia, all’antisemitismo e al sessismo; e i vari Parlamenti stanno occupandosi di codificarlo e sanzionarlo come tale. Studi di incerta provenienza sostengono che ad esso è riconducibile il 30 per cento dei suicidi adolescenziali, per cui tale problematica viene presentata come urgentissima e drammatica, abbisognante di risposte e soluzioni immediate.
La fretta, però, l’urgenza ultimativa, sono sovente cattive consigliere: il rischio è che si faccia passare per “omofobia” qualsiasi giudizio negativo sulla omosessualità, anzi, qualsiasi giudizio che non sia pienamente ed entusiasticamente favorevole verso di essa. La benché minima riserva, infatti, potrebbe essere interpretata come omofobica: dire, per esempio, che la “vera” famiglia è quella fondata sull’unione dell’uomo e della donna, equivarrebbe a una forma di discriminazione e, dunque, potrebbe configurarsi come un vero e proprio reato. Non si tratta di un fenomeno isolato: anche esprimere giudizi negativi su certi stranieri, non importa se suffragati – purtroppo – da fatti palesi e che avvengono sotto gli occhi di tutti; anche esprimere giudizi negativi sula politica dello Stato di Israele verso i Palestinesi; anche esprimere giudizi negativi su certi comportamenti femminili, tutto ciò rischia di diventare, automaticamente, espressione di razzismo e xenofobia, di antisemitismo e di bieco sessismo maschilista.
Prendiamo il caso dell’omofobia. Sostenere che essa sia una forma di disordine, sia morale che sociale; che la sua pratica ostentata, come in occasione del Gay Pride, offenda i sentimenti più profondi della stragrande maggioranza dei cittadini; che farne una bandiera di libertà e di emancipazione sia sbagliato e fuorviante, anche perché incatena le persone a un aspetto in fondo secondario della personalità, ossia l’orientamento sessuale, negando oltretutto il diritto alla riservatezza e alla discrezione (cosa che dovrebbe valere, ovviamente, per tutti, e quindi anche per gli eterosessuali), sta diventando sempre più difficile, perché scatena immediatamente e visceralmente, come un riflesso condizionato, l’accusa di “omofobia”: come se non apprezzare una certa cosa o un certo comportamento debba equivalere automaticamente a disprezzare le persone che li praticano o a nutrire ostilità preconcetta nei loro confronti.
E allora ci sembra opportuno ricordare cosa pensava di queste cose, quando ancora nemmeno si parlava di “omofobia” e quando l’Unione Europea non pretendeva ancora di imporre, al posto del “lui” e del “lei”, il pronome neutro negli asili e nelle scuole primarie per evitare la discriminazione omofobica, un noto scrittore della passata generazione: romanziere, drammaturgo, critico d’arte e critico letterario, che non è in alcun modo sospettabile, per ragioni evidenti, di nutrire una qualsivoglia forma di avversione nei confronti delle persone omosessuali.
Vale dunque la pena di rileggersi quel che diceva il cattolico Giovanni Testori, che era anche omosessuale (ma che della sua omosessualità non si è mai sognato di fare una bandiera, pur senza nasconderla), al giornalista Luca Doninelli, riguardo al fatto dell'omosessualità, di come la si possa vivere nel contesto sociale, di come la si possa rapportare al mistero dell'uomo e al mistero della vita, nella prospettiva dell'eterno dramma umano di peccato e redenzione (da: L. Doninelli, «Conversazioni con Testori», Parma, Guanda, 1993, pp.127-30):
«L. D. - Tu sei un personaggio noto, ed è inevitabile che la tua omosessualità abbia subito diverse reazioni e interpretazioni. Tra queste, quali hanno maggiormente salvaguardato la tua dignità?
G. T. - La sola interpretazione giusta e rispettosa dei segreti, dei misteri, degli affetti e dei rapporti che ho e che ho avuto, è stata quella della mia famiglia, degli amici più cari e dei giovani di Comunione e Liberazione: da tutti loro non mi sono mai sentito giudicato, ma solo accolto in virtù di un atto di carità che è anche giustizia. Tutto ciò che è in più - approvazione, giustificazione, esternazione, spettacolarizzazione dell'omosessualità - lo trovo "fuori", non necessario, non utile. Non aiuta a star meglio, ad essere più felici. E mi riferisco ai cosiddetti "movimenti di liberazione". Non parliamo, poi, di questa esecranda idea delle nozze tra ragazzi. Che senso ha questo spirito di rivalsa a tutti i costi, questa sindrome dell'ufficialità? Io capisco, e difenderei con tutte le mie forze, il terribile diritto che l'uomo ha di svolgere il proprio destino. Immaginiamo che in un paese totalitario si fucilino gli omosessuali, o si leghino e si gettino in mare. Allora sì, per un diritto TOTALE alla vita, mi batterei. Ma queste qui sono mascherate.
L. D. - ... solo mascherate? O qualcosa di peggio?
G. T. - Certo che c'è di peggio. Oggi non siamo più nell'antica Grecia, o prima di Cristo. Io trovo che questi qui facciamo tutto quello che fanno per dimostrare a se stessi di aver estirpato da sé qualunque senso di colpa o di peccato. Se potessi parlare con loro, li vorrei convincere innanzitutto della tristezza di queste loro carnevalate. Perché in questi rapporti - ma, credo, in qualunque rapporto d'amore - c'è una tristezza sconfinata. Tuttavia, se questa tristezza viene accettata e accolta con carità, in primis come parte della coscienza di sé, allora diventa dramma, e può offrire qualcosa agli altri...
L. D. - Ossia produrre atti almeno intenzionalmente morali.
G. T. - Ma se viene esternata in modo incosciente, allora diventa una tristezza lurida. Hanno un bel rinfacciarmi l'incongruenza del mio essere cristiano con il mio modo di viverre.
L. D. - Ma questa incongruenza c'è, o no?
G. T. - Quello che posso dire è che sento questo dramma, che lo vivo, e che, peccando - o, comunque, sbagliando -, cresce in me il bisogno di essere perdonato da un lato e, dall'altro, di trasformare questo stesso rapporto in un altro rapporto: di paternità, o, meglio, di paterna fraternità. Che non finisce più, tant'è che i ragazzi che ho amato, e di cui sono rimasto amico, si sono poi sposati, sono diventati padri e nonni. Comunque, non dico queste cose per giustificarmi: innanzitutto perché quello che ho detto è una cosa dura da realizzare, e in secondo luogo perché la mia prima necessità è quella di essere accolto e amato.
L. D. - Cosa intendi per "lurido"?
G. T. - Lurido è tutto ciò che si esibisce con la pretesa di essere, poi, lasciati in pace, o, per dir meglio - perché la pace è un'altra cosa - di farsi gli affari propri. Inoltre trovo che l'accentuazione autoesibita dell'elemento carnale, sensuale sia una falsità. Viene completamente eliminata la tristezza, che è connaturata all'amore. Per quanto mi riguarda, l'interesse per l'incontro con un uomo viene sempre dall'abbacinamento della bellezza, dalla commozione: qualcosa che poi, non lo nego, cerca anche la soluzione del rapporto fisico. Ma il punto della questione non è mai stato lì, per me, e credo non possa essere lì per nessuno.»
«Esecranda idea delle nozze fra maschi» (o tra femmine, potremmo aggiungere): è una espressione forte, ma che rende perfettamente l’idea di ciò che ne pensava Testori; secondo lui, si trattava di uno spirito di rivalsa a tutti i costi, di una sindrome dell’ufficialità e, soprattutto, di una negazione radicale di quanto vi è di più profondo e misterioso nel fatto dell’amore (omosessuale o eterosessuale, questo è secondario), ciò che Testori chiama “tristezza” e che noi ci permettiamo di tradurre con “serietà”, una serietà pensosa e, se si vuole, malinconica, tanto è grande l’abisso al quale ci si affaccia quando si è innamorati.
La cultura radicale e pseudo-libertaria oggi dominante vorrebbe eliminare, cancellare, questo elemento di serietà dell’amore, che è parte della serietà della vita, perché vorrebbe ridurre ogni cosa sul metro edonistico del godimento e del piacere, dell’utilità e della convenienza, del “diritto” senza corrispettivo “dovere”. L’amore, in tal modo, diventa una sistematica caccia all’orgasmo, il privato diventa pubblico, il pudore si trasforma nell’esibizione, la riservatezza si rovescia in volgarità ostentata. E le cose non sono più quelle, le parole non sono più quelle: pudore e riservatezza diventano sinonimi di falsità e ipocrisia, sfrontatezza e volgarità diventano sinonimi di franchezza e autenticità.
Tutto questo è in linea con il narcisismo e con la pornografia oggi dilaganti: non si ama, né si vuol amare, in fondo, altro che se stessi; nell’altro non si cerca che uno specchio del proprio io, sempre bramoso, sempre esigente, sempre incontentabile (perché, nel meccanismo consumistico, non è prevista la pace dell’appagamento); e l’altro è ridotto a corpo, a corpo da possedere, da godere e da sfruttare, così come, del resto, a corpo è ridotto anche il proprio io, anzi, ai soli organi sessuali, eternamente turgidi ed eccitati, perennemente protesi verso lo sfogo dell’istinto di copulare (come hanno insegnato anche cattivi maestri, fra i quali lo scrittore Alberto Moravia).
Il rovesciamento semantico, del resto, è incominciato con il rovesciamento concettuale operato dall’antropologia psicanalitica: da quando Freud ha ufficializzato la cultura del sospetto e ne ha fatto il cardine della sua teoria dell’inconscio, niente è più stato come prima e tutti hanno incominciato a sospettare che dietro le parole e i comportamenti nobili e virtuosi vi sia, vi debba essere un doppio fondo, un inganno, una trappola; che i veri sentimenti nascosti dietro quelle parole e quegli atti siano di segno opposto, maligno e distruttivo; che la menzogna sia la cifra delle relazioni umane e che gli istinti più bassi e pregevoli se ne vadano in giro mascherati da parole buone e opere pie, al solo scopo di ingannare il prossimo e di nascondere l’abietta verità che si annida in fondo al cuore di ogni essere umano.
Ma Testori dice anche un’altra cosa importante, sulla quale varrebbe la pena di riflettere. afferma che, nel sentimento d’amore, è compreso un grande bisogno di essere perdonati; e, aggiungeremmo noi, di perdonare a nostra volta. Perdonare noi stessi, prima di tutto; e poi, o insieme, perdonare anche gli altri. Ma, per perdonare noi stessi, dobbiamo prima esserci fatti un bell’esame di coscienza: dobbiamo aver trovato il coraggio di guardarci a lungo e in profondità, e vederci per quelli che siamo. Non riesce a perdonarsi chi vuol rimuovere il bisogno di perdono, chi trasferisce sugli altri l’incapacità di accettare la colpa, pretendendo che un atto esterno, magari del legislatore, renda lecito e praticabile ciò che ripugna alla coscienza (lo diceva già Dante, parlando di Semiramide: «che libito fe’ licito in sua legge»).
Le leggi cambiano e cambiano i significati del linguaggio, come abbiamo visto; ma il senso fondamentale del Bene e del Male, quello non cambia. Cambia, forse, la maniera esteriore in cui viene esplicitato: ma, nella sua essenza, esso non cambia, perché è fuori del tempo: non viene dall’uomo, viene da prima dell’uomo. All’uomo sta il saperlo riconoscere; non è lui che lo inventa, non è lui che lo ha creato, per il semplice fatto che non è lui a darsi la vita, a dare l’esistenza alle cose e al mondo. Il mondo, le cose e la sua stessa esistenza, l’uomo li trova già dati: li riceve dall’Essere, non ne è lui l’artefice, dunque non ne é nemmeno il padrone. L’uomo è il semplice usufruttuario della propria vita, è un semplice inquilino del mondo, è un semplice compagno di viaggio degli altri enti.
Ogni volta che l’uomo si dimentica questa semplice verità, ogni volta che eccede la propria misura e pretende di farsi il Dio di se stesso e del mondo, egli va in guerra contro se stesso e si infligge delle terribili ferite. Non trova la pace, e tanto meno la felicità. Questa è l’ingannevole promessa dell’illuminismo e, in genere, di tutte le filosofie basate sul progresso: che l’uomo possa costruire la felicità con le sue sole mani. Funesta illusione, che ha pagato e continua a pagare a ben caro prezzo.