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Se non ora, quando?

di Fabrizio Marchi - 14/04/2015

Fonte: L'interferenza

Avevo deciso che questa mattina mi sarei occupato di tutt’altro ma non appena ho aperto il pc mi sono ritrovato  davanti agli occhi questo articolo di Lea Melandri pubblicato sul Manifesto di oggi http://ilmanifesto.info/il-genere-della-violenza-gli-orrori-hanno-un-sesso/ e segnalatomi da un amico che evidentemente, birichino, aveva deciso di mettermi di malumore.

Il titolo e il sottotitolo parlano da soli:”Il genere della violenza. Gli orrori hanno un sesso”. Sottotitolo:”Guerre, devastazioni, stupri privati e pubblici di interi popoli li ha fatti il sesso maschile. Dagli uomini che ne sono lontani ci si aspetterebbe che almeno si ponessero il problema”.

Confesso che ho grande difficoltà a commentarlo. In genere per uno abbastanza “navigato” come il sottoscritto la penna corre spesso veloce e spontanea, ma non in questo caso dal momento che non so veramente da che parte cominciare e che l’articolo in oggetto ha suscitato in me un sentimento di vero e proprio sgomento.

Del resto  non siamo di fronte ad un articolo ma ad una sentenza di condanna senza appello, peraltro già emessa da tempo (e soltanto riconfermata per l’ennesima volta), contro il genere maschile nella sua interezza, accusato di essere responsabile di ogni nefandezza e di ogni genere di orrore compiuto nella storia fin dalla notte dei tempi.  Nessuno, infatti, viene salvato. L’invito della Melandri “agli uomini che non si riconoscono in tutta questa brutalità a porsi quanto meno il problema e a riflettere” è totalmente falso. In realtà ciò che si chiede non è certo l’apertura di una riflessione ma un’autocritica forzata, pubblica e privata, un pentimento di massa e naturalmente riconoscere di appartenere al genere colpevole di millenni di orrori e di brutalità.

La premessa è evidente: la violenza, da che mondo è mondo, è maschile, per natura o per cultura. Poco importa – spiega infatti la Melandri – che “se (le donne) avessero avuto fin dall’inizio della storia umana la forza fisica, il possesso delle armi e tutto il potere che si è arrogato l’uomo, non è da escludere che avrebbero potuto farne un uso altrettanto selvaggio”.  “Sta di fatto – prosegue – che non è andata così e, che piaccia o meno, le guerre, le devastazioni, gli stupri privati e pubblici, gli stermini di interi popoli li ha fatti il sesso maschile”.

”Voi tutti (maschi) – ci dice in buona sostanza – anche quelli che non si riconoscono in questa sorta di museo degli orrori, fate parte del genere colpevole e quindi non vi resta altro che riconoscerlo, fare pubblica e privata ammenda e cercare di capire come sia possibile evitare tutto ciò da ora in avanti, perché il problema è vostro, il gene del male è in voi. Questa è la sola possibilità che avete di emendarvi e chi non lo fa è complice (questo non lo dice espressamente ma è implicito nelle sue parole)”

Qui ci sono due osservazioni importanti da fare. La prima. L’autrice fa esplicito riferimento alla maggior forza fisica maschile come a una delle componenti che hanno determinato quella storia di violenza, orrori e brutalità. Dimentica ovviamente di dire che quella stessa forza fisica (che ha comportato nei millenni e continua in parte a comportare fatica disumana, dolore, morte, malattie e sofferenze di ogni genere) è ciò che ha costruito il mondo così come lo conosciamo e che ha permesso anche alle donne di sopravviverci al meglio delle umane possibilità (fermo restando, ovviamente, la diversa e diseguale distribuzione sociale della ricchezza prodotta da quello stesso lavoro e da quella stessa fatica). Tutto ciò che ci circonda, infatti, case, palazzi, ospedali, fabbriche, strade, ferrovie, ponti, metropolitane, porti, aeroporti, utensili, strumenti e impianti di ogni genere, treni, aerei, navi, astronavi, elettrodomestici e via discorrendo è stato reso possibile proprio grazie alla fatica dei soli uomini (non di tutti, ovviamente, vale anche in questo caso il concetto di cui sopra: diversa distribuzione della ricchezza dovuta ad una determinata divisione sociale, cioè di classe, del lavoro…). E questo è un fatto che, come dicevo, l’autrice omette di ricordare o finge di non ricordare (ma lei lo sa bene…). Del resto, se l’obiettivo è criminalizzare e colpevolizzare un intero genere, certe cose non possono essere ricordate .

Ma il punto è anche e soprattutto un altro. L’origine della violenza (e quindi del male) viene individuata nella ontologia stessa del genere maschile, cioè la forza fisica, un dato naturale che appartiene a quest’ultimo. E’ a partire quindi da questa condizione naturale (di maggior forza fisica) che il genere maschile avrebbe imposto il proprio dominio brutale. Quindi il seme del male è lì, ed è lì che deve essere eradicato. Come? Non essendo possibile eliminare il genere maschile, lo si deve mettere nella condizione di non nuocere, lo si deve paralizzare psicologicamente. In che modo? Con il senso di colpa scientemente instillato che naturalmente, per definizione, finisce sempre per colpire gli innocenti, non certo i colpevoli; i colpevoli (tranne rari casi di sincero pentimento) se ne fottono né potrebbe essere altrimenti. Ai maschi “innocenti” (ma potenzialmente colpevoli perché è la loro stessa condizione ontologica che potrebbe renderli tali in qualsiasi momento…) non resta quindi che sottoporsi ad una sorta di rieducazione forzata (millantata dall’autrice come l’apertura di una riflessione…) che deve condurre ad una sorta di autodenuncia (con relativa condanna). Il che, metaforicamente parlando, é più o meno ciò che avveniva nelle aule dei tribunali stalinisti (o di tantissimi altri tribunali che si sono avvicendati nel corso della storia…) in cui, fra gli altri, decine se non centinaia di migliaia di sinceri comunisti furono costretti a confessare di essere dei controrivoluzionari al servizio dell’imperialismo (come ripeto, è solo un esempio fra i tanti che si potrebbero portare; ho scelto però questo per evitare che i soliti buontemponi mi accusino di parzialità…).

E’ evidente pertanto il carattere sessista (e quindi razzista) ma anche profondamente interclassista di una simile concezione.

E qui giungiamo ad un altro nodo importante. Nel momento infatti in cui è il genere maschile nella sua totalità ad essere individuato come origine e causa di ogni forma di oppressione, è ovvio che il concetto di classe (ma anche qualsiasi altro approccio interpretativo del mondo e della realtà) se ne va a farsi benedire. Il femminismo si sforza di spiegare (per non incappare nell’accusa di sessismo) che il dominio maschile e quello di classe si sarebbero sviluppati ed alimentati assieme (né potrebbe fare altrimenti…) ma questa è soltanto una gigantesca arrampicata sugli specchi che potrebbe essere smentita con migliaia di esempi. Basti pensare che a crepare sul lavoro continuano ancora oggi ad essere pressoché soltanto gli uomini, cioè gli “oppressori” e i “privilegiati”, secondo la versione femminista della storia che estende il dominio maschilista e patriarcale a tutti gli uomini, nessuno escluso (il che è come dire che nell’Alabama o nel Mississippi dei secoli scorsi, a prendersi le frustate sulla schiena e a crepare nelle piantagioni di cotone non erano gli schiavi neri ma i padroni bianchi…). Basterebbe ricordare che nella prima guerra mondiale (e in tante altre guerre) a condividere con i topi il fango, la merda, le budella straziate dalle bombe, il sangue e l’orrore della trincea erano solo uomini (ma in questo caso la risposta è semplice: la guerra è un prodotto maschile, essendo la violenza, maschile…). Oppure ancora che il più grande impero della storia, per lo meno per estensione, cioè quello britannico, è stato guidato nei momenti del suo massimo “splendore” (cioè di dominio sul mondo…) da due donne. Ma anche in questo caso la risposta è scontata ed è già stata data nell’articolo: si tratta di donne complici del dominio maschilista oppure che lo hanno interiorizzato. Il paradigma vale naturalmente anche per tutte quelle donne che agiscono la violenza. In questo modo il genere femminile viene sollevato da ogni responsabilità, viene “innocentizzato” mentre contestualmente quello maschile viene responsabilizzato e criminalizzato.

Cosa abbia a che vedere e come possa sposarsi questa ideologia fondata sull’appartenenza sessuale come prius, sulla dialettica uomini=oppressori donne=oppresse e sulla divisione dicotomica e manichea (perché di fatto è così…) male=uomini-bene=donne con una concezione di classe della storia, con il movimento operaio, con il conflitto di classe e con il socialismo, personalmente faccio fatica a capirlo.

In tutta franchezza, ero indeciso se pubblicare questo articolo su questo giornale e non altrove. Poi ho optato per pubblicarlo qui. Perché penso che questa tematica abbia un risvolto politico fondamentale e che se la sinistra è ridotta come è ridotta, è anche a causa di queste ideologie abilmente camuffate come “progressiste e di sinistra” che hanno contribuito a spappolarla, a minarla alle fondamenta, a trasformarla in un’altra cosa che nulla ha a che vedere con le ragioni storiche per cui è nata e per cui, a mio parere, dovrebbe continuare ad esistere.

Sono consapevole che articoli come questo sono destinati a seminare il panico proprio fra gli uomini e soprattutto fra le donne di sinistra e a gettare un’ombra inquietante (secondo il punto di vista dei nostri avversari…) sul sottoscritto, ma non è possibile fare altrimenti. E’ crollato tutto quello che poteva crollare ed è giunto il momento di sgomberare le macerie, di mettere mano a tutto, di affrontare senza veli e senza timori anche i temi più scabrosi e più scomodi, soprattutto per chi ha l’ambizione di voler dare un contributo alla ricostruzione di un nuovo punto di vista critico e di classe della realtà.

Se non ora, quando?