La battaglia (delle idee)
di Lucia Loredana Canino* - 31/08/2006
*Articolo già pubblicato in PLATONE, La Repubblica, (traduzione e commento a cura di Mario Vegetti), Napoli 1998, pp. 209 – 222.
1. Lo scontro dialettico come battaglia
Nel I libro della Repubblica, quando Socrate giunge alla conclusione che il giusto non possa nuocere a nessuno, Polemarco, alla proposta del filosofo di battersi insieme (macoúmeqa koinØ ™gÍ te kaì sú) contro coloro che eventualmente attribuiscano il principio del “far bene agli amici e male ai nemici” a Simonide o Biante o Pittaco, risponde di essere pronto ad unirsi alla battaglia (6toim'oj e;imi koinwne^in t^hj m'achj, 335e).
“Battaglia”, dunque, com’è chiaro, che non è se non uno scontro dialettico cui Polemarco decide di prender parte offrendo la propria alleanza a Socrate.
In un altro passo dello stesso libro, dove Socrate capovolge la tesi di Trasimaco arrivando a sostenere che il vero governante è chi cerca l’utile del più debole, la disputa viene nuovamente ad assumere connotati bellici. Trasimaco finisce infatti con l’ammettere che ciascuna scienza si occupa dell’utile di chi le è sottoposto, anche se all’inizio aveva cercato, su questo punto, di battagliare (perˆ aÙtà m£cesqai, 342d).
I due passi presi in esame non sono gli unici in cui Platone ridescriva la disputa filosofica nei termini di una mache.
Un passo centrale a tale riguardo si trova infatti nel libro VII della Repubblica, dove, nell’ambito del riepilogo di tutto il problema della conoscenza e della riaffermazione della superiorità della dialettica, il logos dialektikos viene raffigurato, per bocca di Socrate, nella situazione di colui che come in battaglia (9sper ;en m'ac+), passando attraverso tutte le obiezioni (di``à p'antwn ;el'egcwn diexi'wn ), arrivi a definire con il ragionamento l’idea di Bene escludendola da tutte le altre cose.
Se il ragionamento dialettico nell’esempio considerato comporta una mache, allo stesso modo il carattere bellico di momenti fondamentali del dialeghesthai si rivela, oltre che in quelli già presi in esame, anche in molti altri passi dell’intero corpus platonico, specie nell’Eutidemo, nella stessa Repubblica, nel Teeteto, nel Sofista e nel Filebo.
Nel Teeteto, Socrate sostiene che una battaglia non da poco fosse sorta intorno alla dottrina di Eraclito, e non tra pochi uomini. Battaglia, come poi aggiunge Teodoro, tutt’altro che piccola e che si stava propagando attraverso la Ionia assai largamente (179d).
Come una battaglia si configura, dunque, nel passo citato, la disputa intorno ad una determinata teoria filosofica .
Ma più specificamente, nell’ambito della disputa, presenta carattere bellico la fase di critica delle tesi e degli argomenti avversi, nonché dei loro sostenitori: il momento confutatorio.
Dimostrare falsi i giudizi altrui, cioè confutarli, implica infatti “dar loro battaglia”. E’ quello che emerge da un passo del Teeteto in cui Socrate chiede a Teodoro se circa una sua opinione non vi siano ogni volta migliaia di persone che lo combattono (m'acontai), opponendogli opinioni contrarie, ritenendo che lui giudichi e pensi il falso .
In uguale misura un impeto bellico è implicito anche nella fase assertoria della disputa filosofica. Lo rivela infatti l’uso del verbo diamachesthai (“combattere”, “lottare”, “contendere”), la cui valenza bellica risulta assopita, ma solo in parte, nell’ambito dell’espressione diam'acesqai (t^_ l'og_) :wj , che ricorre in questi casi ed è tradotta perlopiù come “sostenere/sforzarsi di sostenere (razionalmente) che” .
Va rimarcato che il carattere bellico del ragionamento dialettico e della disputa filosofica si specifica nell’accezione concreta di mache, cioè di “battaglia”, di combattimento corpo a corpo, non in quella , più astratta, di polemos, “guerra” .
Se infatti è frequente che Platone, come in tutti gli esempi fin qui considerati, si valga, in riferimento alla disputa, di termini come mache, “battaglia”, machesthai, “combattere”, diamachesthai, “combattere con accanimento”, seppure con le accennate limitazioni, è invece assai raro che usi termini legati alla sfera di polemos .
A proposito di questa distinzione e della scelta platonica di privilegiare mache rispetto a polemos nel metaforizzare il carattere bellico della disputa filosofica, pare opportuno citare, oltre a Roland Barthes , secondo cui sarebbe proprio il termine mache quello che meglio sintetizza la sensibilità conflittuale dei greci, anche Victor Hanson , che osserva come la battaglia fosse considerata dai greci l’essenza del conflitto militare. Egli spiega come gli opliti della falange costituiscano la chiave per comprendere la natura della guerra nell’antica Grecia.
La battaglia, intesa come scontro di fanteria, rappresentava per i greci dell’età classica, il momento della guerra di cui potevano avere diretta esperienza . Era cioè con la “battaglia”, e non con la “guerra”, che i greci dei tempi di Platone avevano un reale impatto emotivo: un breve scontro cruento e decisivo, esperienza ripetuta e cruciale nella vita di ogni cittadino adulto.
Queste sono tra le ragioni per cui la disputa filosofica e la dialettica non assumono, nel corpus platonico, i tratti indefiniti di polemos, bensì i connotati specifici della battaglia, e di una battaglia scomponibile in diverse e precise fasi caratterizzanti.
2. Le fasi della battaglia dialettica
L’analisi delle numerose situazioni di disputa-mache filosofica che attraversano l’intera opera di Platone disegna infatti il quadro di un combattimento dialettico che si articola in numerosi momenti salienti, ognuno dei quali rappresenta anche una fase precisa di quelle che dovevano essere le battaglie effettive, combattute da eserciti reali, schierati sui campi di battaglia.
Lo spoglio del corpus platonico condotto in relazione ai termini del campo semantico della mache consente infatti di individuare i momenti legati alla preparazione al combattimento, quelli legati al combattimento in atto, nonché i diversi possibili esiti della battaglia del dialeghesthai.
In particolare tra le fasi di preparazione al combattimento si distinguono:
-lo schieramento (parat'assw, “schiero”, “metto in ordine di battaglia”, in Protag. 333e, Resp. VIII 556d; t'assw, nel senso militare di “dispongo in ordine di battaglia”, “schiero”, in Apol. 28d-e; t'axij, nel senso militare di “ordinamento” o “disposizione delle schiere” e di “posto in battaglia”, in Crit. 51b),
-la preparazione alla battaglia (paraskeu'azomai, “mi preparo”, in concomitanza con altri riferimenti bellici in Phaed. 91b),
-il gioco delle alleanze (summac'ew, “sono alleato di guerra”, in Phil. 14b; s'ummacoj, “alleato”, in Phil. 31d, Resp. VI 496c; xummac'ia, “alleanza”, in Resp. V 474b; ;epikour'ew, , nel senso militare di “agisco come alleato”, in Resp. II 368a; ;ep'ikouroj, nel senso militare di “alleato”, in Leg. X 890d).
Le fasi legate al combattimento in atto risultano essere:
-le incursioni (prodrom'h, “irruzione”, “attacco improvviso”, in Alc. I 114a; katadrom'h, “incursione”, “scorreria”, in Resp. V 472a),
-l’attacco (;apant'aw, nel senso ostile di “avanzo contro”, “mi scontro”, in Phaed. 101a, Phil. 19e; ;epit'iqhmi, nel senso ostile di “attacco”, “piombo sopra”, in Soph. 242a; e%imi ;ep'i con acc., nel senso di “vado contro”, quindi “affronto”, in Soph. 242b; 1rcomai ;ep'i con acc., con lo stesso significato della precedente espressione, in Phaed. 91b; :om'ose cwr'ew, “mi scontro”, “attacco battaglia”, in Theaet. 166a),
-il ferire (titr'wskw, in Phil. 13c),
-lo scacciare il nemico (;ekb'allw, “scaccio’, “respingo”, in concomitanza con altri riferimenti bellici in Theaet. 180b),
-l’avanzare (pro"i'enai e;ij t`o pr'osqen, “andare avanti”, “avanzare”, usato in opposizione all’espressione e;ij to5pisqen ;aposq^hnai in un contesto ricco di riferimenti bellici, in Soph. 261b),
-l’assedio (poliork'ew, in Resp. V 453a),
-la presa del muro (a:ire^in t`o te'icoj in Soph. 261b,c),
-la difesa (;am'unw, “difendo”, “combatto in difesa”, in contesti in cui vengono utilizzati anche altri termini legati all’ambito semantico bellico, in Phil. 13d, 38a, Resp. V 473e, 474a; ;epam'unw, “soccorro”, “difendo” in senso militare, in Theaet. 165d; pr'oblhma, come “riparo”, “difesa” in senso militare, inSoph. 261a),
-la resistenza (;andrik^wj :upom'enein, “resistere coraggiosamente” in opposizione ad ;an'andrwj fe'ugein, “fuggire vigliaccamente”, in Theaet. 177b),
-l’essere respinti indietro (e;ij to5pisqen ;aposq^hnai, in Soph. 261b),
-la ritirata (:upocwr'ew, “mi ritiro”, “retrocedo”, in concomitanza con altri riferimenti bellici, in Soph. 240a; ;af'istamai , “mi allontano”, nel senso di “cedo”, “desisto”, in Euthyd. 303a, Theaet. 169b,c),
-l’abbandono delle armi (inteso come precisa volontà di non imbracciarle nell’espressione o;u t'iqesqai tà 8pla, in Phil. 58a,b),
-il tradimento (prod'idwmi, in Resp. V 474a, Theaet. 203e),
-la fuga (in relazione a questa fase ricorrono in contesti di disputa-mache dialettica i verbi: fe'ugw, in Euthyd. 297b, Theaet. 177b, 181a; diafe'ugw, “mi sottraggo”, “scampo”, “sfuggo”, in Hipp. ma. 294e; ;ekfe'ugw, “fuggo fuori, via”, “sfuggo”, “scampo”, in Resp. V 474a-b, Theaet. 181a; katafe'ugw, “fuggo dentro”, “prendo rifugio”, “mi rifugio”, in Soph. 260c),
-la disfatta (;ap'ollumai, “vado in rovina”, “vengo distrutto”, in Euthyd.300e),
-i caduti (p'iptw, nel senso di “soccombo”, in Phil. 22e).
Tra gli esiti possibili del combattimento dialettico vi sono:
-la vittoria (nik'aw, in Symp. 213e, Phil. 14b),
-l’innalzamento del trofeo (tr'opaion :istànai, in Criti. 108c),
-la sopraffazione (bi'azw, nel senso di “faccio violenza”, “assoggetto”, “sopraffaccio”, in Resp. I 341b, Soph. 241d; ceir'ow, “sottometto”, “sopraffaccio”, “riduco in mio potere”, in Hipp. ma. 287a),
-gli ostaggi (8meroi, in Theaet. 202e),
-la sconfitta (:htt'aomai, “sono vinto, abbattuto”, in Charm. 175b, Euthyd. 300d).
3. La disputa come combattimento oplitico
Come si è messo in luce nel precedente paragrafo, il combattimento dialettico può essere “ricostruito” a partire dalla sua preparazione fino ai suoi esiti, dopo essere stato “decostruito” attraverso uno spoglio del corpus platonico che rivela come il filosofo, nel dare carattere guerresco alla disputa, abbia privilegiato, nell’ambito di quelli che, secondo Yvon Garlan , erano per gli antichi i tre modi fondamentali del combattere, lo scontro oplitico di fanteria, cioè la battaglia in campo aperto, rispetto a quella attorno ai bastioni ed a quella sul mare .
Se, da una parte, la poliorcetica non poteva per ragioni storiche fornire a Platone un adeguato modello di ridescrizione bellica della disputa filosofica, dato che, come scrive Garlan, essa “raggiunse l’apogeo al tempo di Alessandro e dei diadochi, durante i conflitti accaniti che accompagnarono la nascita degli imperi”, ed “il suo sviluppo avvenne a seguito della scomparsa del soldato-cittadino e del fallimento del modo di combattere oplitico” , è probabile invece che il modello della battaglia sul mare sia stato da Platone rifiutato per un altro ordine di motivi, da lui stesso esposti nelle Leggi, di cui, come osserva Arnaldo Momigliano , la messa sotto accusa della navigazione è tratto peculiare.
Nel IV libro delle Leggi Platone fa dire all’Ateniese che il mare vicino alla regione abitata è cosa piacevole nella vita di tutti i giorni, ma, a lungo andare, si rivela come una vicinanza veramente salata ed amara. Infatti, riempiendo lo stato di traffici e di piccoli affari commerciali, e suscitando nelle anime dei suoi cittadini costumi di incostanza e falsità, lo rende infido e conflittuale, tanto nel suo interno, quanto nei rapporti con gli altri popoli (705a). L’Ateniese fa poi riferimento al mito di Minosse e del Minotauro, che avrebbe determinato, per gli abitanti dell’Attica, la sconveniente necessità di lasciare le abitudini dei fanti e dei solidi opliti e di improvvisarsi marinai, abituandosi a rifugiarsi di corsa e in fretta sulle navi con frequenti ritirate, nonché a ritenere che non vi sia alcun disonore nel non affrontare la morte resistendo sul posto ai nemici, ed infine imparando ad essere sempre pronti ad accampare scuse fittizie per giustificare l’abbandono delle armi e le fughe, spacciandole per azioni non vili (706b-c). Inoltre, citando i versi dell’Iliade (XV 96-102) in cui Ulisse biasima Agamennone perché ordina di calare in mare le navi quando i Troiani incalzano, nel vivo della battaglia, gli Achei (706d), l'Ateniese sottolinea come per Omero non fosse bene porre triremi pronte in mare accanto agli opliti in battaglia, perché, addestrati a questi costumi, anche i leoni finirebbero per darsi alla fuga di fronte ai cervi (707a).
Combattere sul mare incoraggia così, per Platone, la codardia.
Infine, contro il parere del cretese Clinia, che rispecchia l’opinione dominante sia fra i Greci sia fra i barbari, l’Ateniese e lo spartano Megillo sostengono che non la battaglia navale di Salamina, bensì le battaglie campali di Maratona e Platea costituirono rispettivamente il principio ed il compimento della salvezza dei Greci (707c).
Emerge, dunque, da questo pur sommario quadro di citazioni, un parere di netta ostilità nei confronti della potenza navale. Ostilità che non era solo platonica, ma, come nota Momigliano , anche propria di tanta parte del pensiero politico greco. A questo proposito egli cita per esempio il giudizio che l’autore della pseudo-senofontea Costituzione di Atene esprime riguardo alla talassocrazia ateniese. Vi é una stretta relazione tra potenza navale e democrazia: dato che la potenza di Atene dipende dal mare, è inevitabile che i marinai siano i signori di Atene. E prosperando la gente del popolo, cioè appunto coloro che fanno muovere le navi, si rafforza la democrazia (1.2-4). Parere di Momigliano è che l’autore, il quale ovviamente considera il potere navale incompatibile con un governo rispettabile, sia un oligarca pessimista che disprezza la democrazia ateniese pur riconoscendone la solidità e la forza .
Le ragioni più profonde di questa ostilità devono, secondo Momigliano, essere rintracciate nei pregiudizi antibanausici ed antidemocratici. Essa, infatti, rivela in larga misura l’influenza della concezione epica del valore individuale che solo il combattimento a terra può mettere in mostra .
Se dunque il valore sta dalla parte delle battaglie di fanteria e non di quelle sul mare, risulta spiegabile il fatto che nel corpus platonico la disputa dialettica si uniformi, nella sua natura bellica, al modello di combattimento oplitico secondo le precise fasi che lo caratterizzavano. Modello di combattimento, tra l’altro, che nella pratica effettiva, una volta rotte le file dello schieramento, si risolveva in una somma di scontri corpo a corpo, cui, anche al di là delle motivazioni politico-morali, è comprensibile potesse essere assimilata la situazione dialogico-bellica della disputa dialettica, che comportava un confronto-scontro diretto tra gli interlocutori-contendenti.
Occorre poi notare che lo scontro oplitico, come sostiene Jean-Pierre Vernant , prevedeva che le città in conflitto non cercassero tanto di annientare l’avversario o di distruggere il suo esercito, ma di fargli riconoscere, nel corso di una prova regolata come un torneo, la superiorità della loro forza. Per vincere in questo genere di combattimenti era sufficiente che, nella pianura su cui si venivano ad affrontare le due avverse falangi di fanti pesantemente armati, una avesse il sopravvento sull’altra rompendone la linea di schieramento e rimanendo così padrona del terreno.
Come nel modello di combattimento oplitico descritto da Vernant, anche nella disputa filosofica platonica la vittoria non consisteva, com’è ovvio, nell’annientare il nemico, ma nel costringerlo a retrocedere dalle sue posizioni, in questo caso teoriche, attraverso il buon uso delle “armi” costituite, naturalmente, dalle argomentazioni della ragione dialettica.
Sulla base dell’assimilazione platonica della disputa e dell’indagine filosofica alla battaglia, la filosofia viene così a collocarsi nell’ambito di una più ampia concezione agonistica dell’uomo, tipica, per Vernant, della Grecia classica, e dominante nei rapporti tra gli individui e le famiglie come fra le città-stato, e nei concorsi dei giochi, nei processi del tribunale, nei dibattiti dell’Assemblea, come sul campo di battaglia.
A questo proposito va infine notato che, sempre secondo Vernant, la forza delle armi ed il peso degli argomenti erano potenze dello stesso tipo che miravano a contraddire e dominare l’altro. Ed era proprio su queste basi che probabilmente poggiava la ridescrizione della dialettica in termini di battaglia oplitica, cioè del modello di battaglia “politico” per eccellenza.
4. Le armi di Trasimaco
Nel I libro della Repubblica, oltre a presentare Trasimaco come un combattente, Platone dà anche indizio di quali dovessero essere le sue armi. Dopo che il sofista è giunto a radicalizzare la propria tesi sostenendo che l’assoluta ingiustizia del tiranno corrisponde alla perfetta felicità, Socrate, infatti, gli si rivolge chiedendogli se intenda andarsene senza dare spiegazioni, dopo aver scagliato (;embal'wn ) un simile discorso addosso a lui ed ai presenti.
Il discorso di Trasimaco si configura, così, come un proiettile che viene appunto “scagliato addosso” per colpire da lontano. Potrebbe trattarsi di una pietra, di un giavellotto o di una freccia. In ogni caso, di un’arma facente parte dell’equipaggiamento delle truppe leggere, non certamente della valorosa panoplia oplitica.
Un’arma da lancio, dunque, che viene ad identificare Trasimaco come appartenente a quella fanteria leggera decisamente discreditata presso i Greci a causa dei suoi modi di combattere e della sua inferiore provenienza sociale. Essa, infatti, come fa notare Hanson , adottava la tattica del colpire e fuggire attraverso scaramucce ed imboscate. Il suo modello di combattimento, visto come barbarico, era ben diverso dalla battaglia frontale e concentrata in un unico episodio combattuta dalla fanteria pesante secondo la tattica dell’assalto diretto. Non comportando uno scontro tra due falangi compatte alla luce del giorno, dunque, quello delle truppe leggere, oltre a non essere considerato leale, non era neppure ritenuto un combattimento vero e proprio, per quanto potesse risultare decisivo.
Testimonianza del disprezzo riservato dai Greci alle armi da lancio dà ad esempio Tucidide nel riferire dei fatti di Sfacteria. Qui Cleone, mantenendo le proprie promesse (4.39.3), realizza una vittoria “democratica” contro l’oligarchia oplitica spartana. Ma è la vittoria di arcieri e frombolieri contro la forza della falange. Avviene così che, all’indomani della sconfitta lacedemone, un alleato degli Ateniesi chieda per dispetto ad un prigioniero se quelli che tra loro erano stati uccisi fossero valorosi. La risposta è che il fuso, cioè la freccia, sarebbe validissimo se fosse in grado di distinguere i valorosi, dando prova con ciò che dalle pietre e dalle frecce veniva ucciso chi capitava (4.40.2).
Altro parere interessante a tale riguardo è quello di Polibio che nelle Storie (13.3) scrive che i Greci del passato non avevano desiderio di vincere con l’inganno. Perciò convennero di non valersi delle incerte frecce, poiché ritenevano che solo la battaglia corpo a corpo desse un esito chiaro .
Avviene così che quando Platone usa immagini legate all'arco, inteso nella sua natura bellica, lo fa in modo che il richiamo a tale strumento esprima sempre una connotazione di velato dispregio.
Nel Teeteto si dice che i filosofi della scuola di Efeso estraggono parolette enigmatiche come da una faretra (9sper ;ek far'etraj) e le scoccano come frecce (;apotoxe'uousin, 180a).
Eraclito, come è noto, si era valso dell'immagine dell'arco per esprimere concetti basilari della sua teoria filosofica . Platone gli farebbe dunque eco con un tono quasi da parodia, sottolineato anche dalla particolare cura che riserva a questa ridescrizione bellica dei filosofi del divenire. E' questo infatti l'unico passo dell'intero corpus in cui venga fatto riferimento alla faretra .
Va infine sottolineato come le armi da lancio, quando non divengano strumento di parodia ed ironia, siano sempre, comunque, nell'intero corpus platonico, attribuite agli interlocutori e nemici del filosofo, mai a quest'ultimo .
Il sofista Trasimaco, dunque, col suo "scagliare" il proprio discorso contro Socrate ed i presenti, viene immediatamente individuato come combattente di seconda zona. Ed il suo combattimento dialettico non può che risultare, fin dall'inizio, proprio per questo, condannato a non conoscere il vero valore: quello oplitico-filosofico. Anche se per Socrate, come per gli opliti Spartani a Sfacteria, è difficile difendersi dai suoi proiettili.