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La radicale ambiguità dell’amore nel pensiero di P. N. Evdokimov

di Francesco Lamendola - 21/04/2015

Fonte: Arianna editrice


 

 


 

Certo non è  possibile amare troppo, perché l’amore, essendo un movimento dell’essere, cioè un fatto qualitativo, non può soffrire di eccessi quantitativi; tuttavia può succedere di amare male, cioè di non dirigere il sentimento amoroso nella giusta direzione o di non riuscire a collocarlo nella giusta prospettiva.

L’amore non è rivolto nella giusta direzione o per difetto, o per eccesso: o perché rimane al di qua, o perché va troppo al di là del suo oggetto. Il primo caso si verifica quando non si ama veramente l’altro, ma solo e unicamente se stessi: allora si ama, nell’altro, ciò che è più simile a se stessi, ciò che gratifica il senso della propria individualità, e l’altro diventa un pretesto e un travestimento per coltivare illimitatamente il proprio rispecchiamento narcisistico. Il secondo caso si verifica quando non si ama l’altro per quello che è, ma lo si innalza al di sopra della realtà, lo si idolatra, ci si annulla davanti ad esso come se fosse un dio, come se fosse l’Assoluto. Nel primo caso ci si perde nel proprio io, dal quale si è incapaci di uscire; nel secondo ci si perde nell’altro, dissolvendo il proprio io e rinunciando ad essere se stessi per nullificarsi.

L’amore non viene collocato nella giusta prospettiva quando lo si distacca arbitrariamente dalla relazione totale fra l’Essere e gli enti, quando si nega o si dimentica l’Essere e ci si pone davanti al tu come se non vi fosse altro al mondo, o come se il proprio io fosse il centro e la misura di tutte le cose. Se ciò avviene, ci si aliena da se stessi e ci si estranea dalla realtà: si diventa simili a dei frammenti che vagano nel vuoto, si stravolge il senso della relazione con l’altro. Si diventa dipendenti, nel senso patologico della parola, da qualcosa che sta al di fuori di noi:  e ci si aggrappa all’altro per trovare conferma al proprio esistere. Non è più un movimento armonioso che nasce dalla sovrabbondanza del cuore, ma un afferrarsi convulso e disperato, simile a quello del naufrago che si afferra al primo relitto a portata di mano, originato dalla paura della solitudine e, in ultima analisi, dell’annientamento.

Si pensa, infatti, che una vita senza amore sia una vita vuota e inutile: ed è un pensiero giusto, purché sia chiaro che cos’è il vero amore e purché non se ne tragga la errata conclusione che qualunque amore è meglio di niente. Chi teme di non essere amato, teme l’auto-annientamento; ma l’amore non può essere il mezzo per affermare il proprio esistere e perché quest’ultimo riceva significato, bensì la conseguenza di una vita consapevole e orientata verso l’essere, cioè verso il bene, il bello e il vero, nella giustizia. La giustizia è l’adempimento del debito contratto verso l’essere, per cui nessun movimento dello spirito può compiersi legittimamente se non nel rispetto delle finalità dell’essere. Questa è la differenza che passa tra un vivere a caso, alla giornata, senza uno scopo, e vivere accogliendo la chiamata e rispondendo positivamente alla vocazione originaria, che è impegno a oltrepassare la ricerca dei beni particolari per realizzare l’unico vero bene assoluto, alla luce del quale la realtà quotidiana si illumina e si trasfigura.

L’amore rientra in questa dinamica e ne è l’espressione privilegiata. Mano a mano che l’anima diventa consapevole, incomincia a distogliersi dalla ricerca esclusiva del possesso di beni inferiori, per tendere alla contemplazione disinteressata del Bene supremo, nel quale tutti gli altri vengono non già negati e rifiutati, ma compresi e perfezionati. E in questa dinamica generale rientra anche il caso particolare dell’amore tra l’uomo e la donna. Si tratta di un duplice percorso di chiarificazione: dalla brama del possesso e dalle illusioni dell’io.

Il filosofo e teologo russo Pavel Nikolaevic Evdokimov (San Pietroburgo, 1901–Meudon, 1970) , a cui va il doppio merito di aver introdotto in Europa Occidentale il pensiero del suo connazionale P. A. Florenskij e di aver sviluppato meravigliosamente la riflessione sulla teologia della bellezza mediante l’arte dell’icona, ha anche scritto pagine importanti sul tema dell’amore, sempre considerato dal punto di vista non solo della sua realtà umana, ma anche della sua dimensione trascendente e divina.

Così Giancarlo Vendrame ha sintetizzato questo aspetto del pensiero di Evdokimov (in: G. Vendrame, «Dono e comunione. La meditazione sull’amore del pensatore russo P. Evdokimov», apparso in «Studia moralia», Roma, Edizioni dell’Accademia Alfonsiana, 1979):

 

«L’amore è soggetto ad un’ambiguità radicale. Esso, infatti, è caratterizzato da uno strano aspetto, in quanto designa un movimento per il quale l’essere ricerca ciò a cui si legò prima ancora di aver preso l’iniziativa della ricerca. Questo movimento, che di per se stesso è trascendimento, è continuamente esposto al pericolo di assolutizzare se stesso come movimento o di divinizzare l’essere amato. La prima situazione esprime il pericolo a cui è esposta la tensione etica dell’alterità: la radicalità dell’impegno fino al sacrificio di sé, quando diviene fine a se stesso, è il più egoista e il più crudele dei bisogni, la più raffinata forma di immanenza. Nel caso di estrema coerenza diviene auto sacrificio, autodistruzione, che è suicidio e non salvezza. Quando non arriva a questa forma di coerenza, scivola dall’autosacrificio al sacrificio imposto agli altri, al moralismo, all’imposizione. È l’ambiguità a cui è esposta anche la spiritualizzazione universalistica dell’amore, che nell’assenza di concretezza ripiega sul discorso astratto sull’amore.

L’amore può anche diventare ricerca d’identificarsi con l’essere amato, ricerca dell’anima gemella, auto rispecchiamento, narcisismo: è la tentazione gnostica dell’identificazione prematura, che calpesta l’unicità della persona, ripiegandosi sul godimento dell’altro. Nell’un caso e nell’altro ci si situa al di là del “volto”: si perde il co-centrismo con l’altro o perché non lo si raggiunge rimanendo schiavi del proprio egoismo, o perché lo si oltrepassa identificando la “pelle” del volto con il volto. Ed insieme con il rapporto all’altro si smarrisce anche la propria identità.

Il luogo, in cui l‘ambiguità dell’amore emerge in tutta la sua ampiezza e tragicità, è il rapporto uomo-donna. Esso si concretizza secondo due modalità fondamentali: si può rimanere al di qua del rapporto o andare al di là; espressione tipica del primo caso è il puritano, del secondo il libertino. Il primo, chiudendosi all’eros, non è che tensione moralistica, individualità disseccata; il secondo lascia disgregarsi la sua persona negli istinti della natura. L’opera letteraria di Dostoevskij fornisce una ricca fenomenologia di questa alienazione. Un amore puramente romantico altera la persona amata e passa accanto alla persona amata senza salvarla, mentre un amore passionale porta alla rovina, perché il libertino, incapace ormai di incontrare una persona, è ossessionato dalle forme anatomiche fino a distruggere, oltre alle persone, l’oggetto stesso della passione.

Dal fatto che in Dostoevskij l’alienazione dell’amore porta prevalentemente il segno maschile, Evdokimov deduce che l’alienazione dell’amore è sotto il segno della mascolinizzazione, anche se questo non significa che sia da attribuirsi solo all’uomo. All’origine di questa posizione c’è la già nominata priorità data al “femminino” in quanto accoglienza del trascendente, per cui il mondo demoniaco ha una caratterizzazione maschile, che si concretizza diversamente per l’uomo e per la donna. Infatti l’alienazione dell’uomo, sia nel suo rapporto con il mondo che con la donna, si esprime prevalentemente come identificazione prematura ed esclusiva con il proprio ruolo e come tendenza ad oggettivizzare e strumentalizzare gli altri e le cose. L’alienazione della donna, invece, si presenta prevalentemente come tradimento della sua identità mediante il rivestimento di maschere maschili. Infatti, se la donna si qualifica per il suo essere segno di apertura e di trascendenza, la sua auto identificazione non può concretizzarsi che come mimesi delle forme alienate dell’uomo.

La radice di questa ambiguità sta nella tentazione di voler trovare la propria identità da soli, al di fuori o prima del rapporto con l’altro sesso, e di progettare la realtà dell’altro sesso a partire dalla propria coscienza. La priorità dell’immagine dell’altro rispetto alla sua vivente presenza introduce una “distanza” che rompe la situazione originaria del faccia-faccia. Questa “distanza”, costituita dall’immagine che la coscienza ha dell’altro, risponde all’esigenza dell’immediatezza, realizzata attraverso la caduta della mediazione dell’alterità. L’altro, ridotto a idea o a rappresentazione di forme e ruoli, è “troppo vicino” all’io. Perduta la trascendenza, l’altro, anche se esposto alle manipolazioni dell’io, diviene persecutore: è l’origine della polarizzazione antagonistica e della “guerra dei sessi”.

Questa “distanza” è condizione e insieme conseguenza di un’altra distanza: la rottura della trascendenza religiosa. Anche a questo livello si verifica che il desiderio dell’unione immediata con la trascendenza si concretizzi come IDOLATRIA, sostituzione del volto inaccessibile di Dio con qualche prodotto della coscienza o della attività umana.»

 

Per Evdokimov, dunque, l’uomo e la donna non sono veramente tali anteriormente al rapporto reciproco; non esiste una specifica identità maschile avulsa dalla dialettica con il femminile, e viceversa. In altre parole, uomini e donne si diventa, mano a mano che ci si scopre, ci si rivela l’una all’altra, ci si incontra, ci si ama, ci si completa a vicenda.

Per lui, avere una idea astratta e precostituita del maschile o del femminile, che non tenga conto della reciproca dialettica, equivale a voler imporre all’altro la propria progettualità, dunque a una forma di manipolazione, a una imposizione della propria volontà e a una proiezione delle proprie aspettative, ignorando l’autonomia dell’altro e astraendo dal contributo che l’altro, appunto per il fatto di esserci, dà al proprio io, alla propria coscienza, alla propria identità. In altre parole, siamo esseri relazionanti, non monadi chiuse in se stesse: la nostra vocazione e il nostro destino si compiono nell’incontro reciproco e non nella costruzione di una orgogliosa identità auto-referenziale, chiusa e autosufficiente in se stessa.

Quando si cerca di imporre all’altro un ruolo precostituito, se ne ignora l’essenza e ci si smarrisce nella vana ricerca di fantasmi: fantasmi creati dalla nostra mente, vaneggiamenti dell’io che riproduce ovunque la propria immagine riflessa, come in un indecifrabile e ossessionante gioco di specchi; e questo avviene anche nel caso dell’idolatria dell’altro, che è pur sempre una forma di manipolazione e di non rispetto della sua essenza, della sua forma.

Qui potrebbe sembrare che vi sia una contraddizione, o quanto meno una ambiguità, nel pensiero di Evdokimov, poiché egli ha sostenuto che non esiste una forma assoluta originaria, non esiste una specifica identità maschile o femminile anteriormente alla dialettica reciproca; ma non è così. Nella sua concezione, una cosa è l’autonomia e un’altra cosa, ben diversa, l’autosufficienza. Ogni essere umano è autonomo rispetto agli altri, perché possiede una propria specifica individualità, ma non è auto-sufficiente, se con ciò si intende che possa vivere per se stesso e che trovi in se stesso la norma del proprio definirsi in quanto essere umano. L’apparente contraddizione si supera tenendo conto che, nella dialettica fra l’io e il tu, vi è sempre un terzo che li trascende entrambi, che li giustifica, che li invera, che rende fecondo il loro incontrarsi, il loro aprirsi, il loro amarsi: e questo terzo è l’Essere, origine e meta finale di tutti gli enti.

Ecco perché i discorsi sull’amore che ignorano questa dimensione trascendente finiscono per diventare stucchevoli o inconcludenti, o entrambe le cose insieme; ecco perché, così spesso, vanno a chiudersi nel vicolo cieco di un relativismo e di un pessimismo radicali. Dalla constatazione che non esiste mediazione possibile fra due io desideranti, perché non esiste mediazione possibile fra la necessità dell’autonomia e il desiderio dell’annientamento nell’altro, si deduce, frettolosamente, che l’amore è impossibile, che è destinato fatalmente a trasformarsi in una trappola, in un circolo vizioso, in un delirio, in una sorgente d’infinita amarezza e di tremenda delusione. Ma tutto questo è vero solo se si considera l’amore fra uomo e donna, e l’amore in generale, come una relazione a due, nella quale non esiste un punto di mediazione fra le diverse volontà e i diversi bisogni di realizzazione e di appagamento.

La cosa prende tutto un altro aspetto se si colloca la relazione a due in una prospettiva più ampia, in una dinamica trinitaria. Allora si vede come l’amore non è possesso, ma dono reciproco, che sgorga gratuitamente dall’Essere e all’Essere ritorna, attraverso l’incontro felice e pieno di sollecitudine di due creature umane che cercano l’una nell’altra non l’assoluto, ma la via per contemplare l’assoluto.