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L’arte europea, un’arte della rappresentazione

di Alain de Benoist - 29/04/2015

Fonte: Arianna editrice


Intervento di Alain de Benoist, filosofo, politologo e saggista, al secondo colloquio dell’Institut Iliade, Parigi, Maison de la Chimie, 25 aprile 2015.

La maggioranza delle religioni del mondo, non soltanto quelle indoeuropee o pre-indoeuropee dell’Europa antica, ma anche quelle dei Sumeri e dei Babilonesi, dell’Egitto e della Mesopotamia, dell’India, dell’Estremo Oriente, dell’Africa nera e delle Americhe, hanno manifestato nel corso della loro storia la preoccupazione di dare ai loro dei una rappresentazione figurativa. La Bibbia fa eccezione. Il divieto di produrre immagini divine costituisce, nel Decalogo, il secondo comandamento: “Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra” (Esodo 20,4, sullo stesso tema anche Deuteronomio 5,8).

Il motivo che sta dietro questo divieto, ribadito a più riprese nel testo della Torah, è quello di bandire e combattere l’idolatria. Nella Bibbia, tale proibizione di immagini fisiche è in rapporto immediato con il divieto di culto degli idoli (óved àvoda zara). Il posto occupato dal succitato comandamento nelle Tavole è a tale proposito significativo e per meglio comprenderlo serve leggere l’intero passaggio: “Non avrai altri dei di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra il suo favore fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandi” (Esodo 20, 3-6).

La prescrizione iconoclasta, una prescrizione biblica e poi islamica

 

Considerando il periodo dell’antichità, bisogna pensare a questi divieti quando si cercano le ragioni dell’indignazione suscitata, sotto Ponzio Pilato, dalla presenza in Giudea delle insegne romane recanti l’aquila imperiale e soprattutto lo scandalo provocato dall’Imperatore Caligola che avrebbe voluto innalzare una statua che lo raffigurava dentro al Tempio di Gerusalemme, decisione che sarebbe stata la scintilla per un’insurrezione generale e che solamente la morte improvvisa  del sovrano poté evitare. Tacito scrive degli Ebrei: “Essi non possono tollerare la presenza di effigi divine nelle loro città e ancora meno nei loro templi”.

Il divieto successivamente verrà interpretato talvolta in maniera estesa (interdizione da ogni tipo di immagine) e talvolta in maniera restrittiva (vengono tollerate talune raffigurazioni). Nella tradizione rabbinica questa seconda tendenza apre  la porta a numerose discussioni sulla distinzione tra ciò che è permesso e ciò che è vietato. Alcuni (Schulchan Aruch, Yoreh Deah 141, 4-7) sostengono che solo l’immagine intagliata o scolpita sia da condannare, o ancora che solo sia vietata la raffigurazione del corpo umano per intero, restando così accettabili i busti o i ritratti. Per Maimonide la scultura è l’unico tipo di raffigurazione proibita mentre la pittura è accettata. Rabénou Acher, altra voce rilevante in materia, precisa come, a suo dire, nel caso di statue anche soltanto la rappresentazione parziale del corpo umano sia illecita. Talune autorità talmudiche fanno poi una distinzione fra la rappresentazione per scopi di conoscenza (per esempio quella necessaria alla ricerca scientifica),che è autorizzata, e la rappresentazione in sé e per sé, che invece è vietata.

Questa prescrizione iconoclasta si ritrova nella religione islamica, anche se le sue basi teoriche sono più fragili. Chiaramente il Corano denuncia di frequente l’idolatria (al-âçnâm) ma è anche vero che i termini immagine (çûra) e rappresentazione (rasm) sono, si parli in via generale, assenti dal contesto. Tuttalpiù si possono riscontrare certi passaggi dove gli idoli sono assimilati a statue o steli, la cui venerazione è ovviamente proibita (XXI, 52 ; XXXIV, 13).  

Bisogna arrivare alla tradizione islamica dei secoli VII e VIII, e alle raccolte di hadith codificate nella seconda metà del IX secolo, per trovare dei testi più espliciti. Al-Bukhâri, per esempio, riporta certe affermazioni del Profeta Maometto che risultano innegabilmente ostili alle rappresentazioni: “Gli Angeli non entrano in una casa in cui vi sia un cane o un'immagine (timthâl)” (34,40); “Colui che fabbrica un’immagine verrà punito da Dio fin

Fra coloro che subiranno i tormenti più strazianti, una volta arrivato il giorno del giudizio, vi saranno coloro che hanno creato rappresentazioni figurate” (78, 75). Serve a questo punto citare anche la celebre fatwa di Nawawi, risalente al XIII secolo: “Le grandi autorità della nostra scuola e di altre ritengono che la pittura dell’immagine di un qualsiasi essere vivente sia strettamente proibita e costituisca anzi uno dei peccati capitali (…) È vietato fabbricarne in qualsiasi circostanza, in quanto tale attività implica una copia dell’attività creatrice propria solo di Dio”. Su tali propositi non vi può essere ambiguità di sorta. E poiché non esiste alcuna teologia islamica dell’immagine, quest’ultima, nella tradizione mussulmana così come in quella ebraica, è quantomeno osservata con sospetto.

Un rifiuto della misura dei sensi

Il testo biblico, come già sottolineato, evidenzia un legame netto fra il divieto di immagini e la necessità di lotta all’idolatria. Questo termine polemico – nessuno mai si è definito da sé come idolatra – non si incontra a conti fatti che nel Nuovo Testamento. Nella Bibbia dei Settanta, la parola idolo (eidôlon) si usa per tradurre non meno di trenta diverse parole dall’ebraico e si deve a Tertulliano la creazione della parola latina idolatria. Tuttavia il senso assunto nel cristianesimo è diverso da quello assunto nell’ebraismo: nel linguaggio della Chiesa, l’idolatria designa qualsiasi forma di adorazione non dovuta a creature diverse dal Creatore (il “trasferimento alla creatura del rispetto dovuto al Creatore”, scrive Gregorio di Nazianzo). Negazione, cosciente o meno, del fossato che separa l’essere non creato da quello creato, viene qui rilevata una teoria della sostituzione o meglio ancora della metafora.
Nel linguaggio biblico invece per idolatria si considera qualsiasi forma di culto straniero. Ecco perché in primo luogo la lotta all’idolatria si traduce nell’imperativa distruzione fisica dei culti delle altre nazioni: “Quando il mio angelo camminerà alla tua testa e ti farà entrare presso l'Amorreo, l'Hittita, il Perizzita, il Cananeo, l'Eveo e il Gebuseo e io li distruggerò, tu non ti prostrerai davanti ai loro dei e non li servirai; tu non ti comporterai secondo le loro opere, ma dovrai demolire e dovrai frantumare le loro stele” (Esodo 23, 24) e ancora Anzi distruggerete i loro altari, spezzerete le loro stele e taglierete i loro pali sacri. Tu non devi prostrarti ad altro Dio, perché il Signore si chiama Geloso: egli è un Dio geloso”(Esodo 34, 13-14).

La proibizione dell’immagine va però messa anche in rapporto con la svalutazione di ciò che permette di ammirarla: lo sguardo. Serve qui ricordarsi che l’udito e la vista sono due modi per donare e ricevere il cui carattere è completamente diverso: mentre le parole si rivolgono all’intelletto, le immagini si volgono alla sensibilità. Nel suo modo d’essere, il Dio biblico fa appello a una facoltà dell’animo che eccede la misura dei sensi. Ecco perché la tradizione biblica tende a sminuire la vista a favore dell’udito, che regola un modo di comprendere in maniera più astratta, meno legato al sensibile e che soprattutto implica un ragionamento di tipo concettuale o analitico. L’importanza di questa nozione riguardante l’udito si rivela nello chema quotidiano, che si recita con la mano sugli occhi per meglio ascoltare e per impedire di vedere. Dal Deuteronomio 6, 4: “Chema Israël Adonaï Elohénou, Adonaï Ehad (“Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo”).
Nel suo libro su Mosé, Sigmund Freud spiegava già che “il progresso spirituale” del quale è testimonianza il monoteismo, doveva essere considerato come un “ritirarsi della percezione sensoriale a favore di una rappresentazione che conviene chiamare astratta”; ciò spingeva Freud a interpretare il culto delle immagini nei termini di “regressione culturale”, ovvero ritorno agli “dei del politeismo”, che per lui erano principalmente rappresentati dalla “Grande Dea Madre”.

Più avanti, nel cristianesimo, l’apparenza sensibile – e in primis quella della carne, fonte di voluttà – sarà considerata come la fonte stessa della concupiscenza e del peccato. La forma sensibile è tentatrice; è il male travestito da bellezza e da ciò ne deriva che la bellezza è sempre passibile di corruzione morale. La tematica della “femme fatale”o della “bellezza diabolica”, ha trovato terreno fertile nell’idea che la donna fosse prima di tutto tentazione in quanto ella, più dell’uomo, rappresenta qualcosa di sensibile, qualcosa che suscita desiderio già solo al mostrarsi. Si tenga a mente questo legame tra la femminilità, la vista e la forma sensibile. Lo si ritroverà ogni qualvolta il culto delle immagini verrà ritenuto un abbandono alla seduzione carnale, ovverosia un ritorno al primato del materiale sul concettuale o l’astratto. Calvino nel suo Institutio christianae religionis scriverà: “Giammai l’uomo si spinge ad adorare immagini se non quando ha concepito una qualche fantasia carnale e perversa”.

Per il monoteismo, riassume Régis Debray, “solamente la parola può essere verità, la visione è il mezzo attraverso il quale il falso può esprimere la sua potenza. L’occhio greco è gioioso, quello giudeo non è altro che un organo infausto, portatore di sventura e che non augura nulla di buono. Un cieco nel deserto dei monoteisti può essere re, ma un re greco che perda la vista perde anche la propria corona. L’occhio è, biblicamente, l’organo dell’inganno e della falsa certezza; per mezzo degli errori a cui porta si arriva ad adorare una creatura invece che il Creatore”.

L’immagine come riflesso dell’armonia cosmica

Leggiamo intanto che cosa ne è dell’immagine presso i greci. “La religione greca è la religione stessa dell’arte”, scriveva nostalgico Hegel. È proprio in Grecia che l’una e l’altra hanno conosciuto il loro picco assoluto, con la creazione di immagini dotate di un sottotesto al tempo stesso collegato al culto religioso e al culto della città. “Non utilizzare immagini per il proprio culto, significa comportarsi come dei barbari” precisa Alain Schnapp, che aggiunge anche: “l’uso di statue, agalmata, è una tradizione tanto peculiare della città greca quanto quello del sacrificio […] Nessuno mai in maniera più chiara di Massimo di Tiro ha espresso la via greca alle immagini. L’iconismo, la creazione di immagini, è per i greci la base stessa della pratica religiosa, e questo bisogno appare a un retore del II secolo della nostra era come la caratteristica stessa della religione. Coloro che rifiutano tale caratteristica, persiani, sciiti ed ebrei appaiono o come dei primitivi o come dei pazzi che, in qualche maniera, cercano di estraniarsi dall’umanità”. Mentre nella concezione biblica la parola è, in ultima analisi, la garante dell’ordine simbolico, presso i greci è l’immagine, riflesso dell’armonia cosmica, che costituisce la dimensione visibile dell’invisibile; non vi è possibilità di accedere alla Verità se non per ciò che si offre prima di tutto allo sguardo, ciò che viene messo alla prova dall’occhio.
Come il mito, la vista della statua introietta nell’animo, con l’impeto d’una folgore, “il frammento dell’immediato, segno distintivo dell’autenticità” (Jean Jacques Wunenburger); in un solo colpo penetra nell’istante ciò che si conserva al di fuori del tempo.

Sicché l’iconoclastia manifesta il desiderio di accedere a un’essenza unitaria attraverso la moltitudine di forme sensibili, l’immagine divina implica l’unità del mondo e la molteplicità delle forme attraverso le quali essa si offre alla percezione. Nota a tale proposito Michel Maffesoli “La forma è una maniera di prendere atto della pluralità del mondo, tanto al livello di macrocosmo generale quanto a livello di cosmo sociale o di microcosmo individuale e tutto questo mantenendo la coesione necessaria alla vita. In tal modo senza ridurre tutto all’unicità, atteggiamento proprio del razionalismo, essa favorisce l’unicità, tenendo strette insieme cose di diversa natura. Per dirlo con altri termini, in un mondo di contrasti essa permette di avere un’idea di insieme, quella dell’organicità che unisce, in maniera nascosta, tutti i frammenti dell’eterogeneo”.

Maffesoli altrettanto giustamente constata che “la reversibilità fra l’essere e l’apparire è il fondamento stesso del miracolo greco”. Ma l’apparire del quale si tratta qui non rientra nell’ordine dell’apparenza ma bensì in quello dell’apparizione. Non vi sarebbe niente di più falso che storpiare l’opera d’arte o l’immagine divina dell’antichità greca ponendola a confronto con la realtà della quale essa non sarebbe altro che una copia. L’immagine non riproduce il fenomeno ma invece lo raccoglie. Non rappresenta ma personifica. Fa apparire il fenomeno e lo offre alla vista di tutti, ponendoli di fronte ad una presenza. Come tale l’immagine è indissociabile da ciò che essa presenta, senza pur tuttavia bisogno di identificarsi con quello che rappresenta. L’immagine non è che ciò che presenta – nessuno ha mai pensato di trovarsi di fronte ad Apollo, alla vista di una sua statua – ma è solamente attraverso l’immagine che ciò che essa stessa presenta, può essere effettivamente presente.

Vedere, e al tempo stesso sapere…

L’idolo (eidôlon, termine derivante dalla radice indoeuropea wei che esprime la nozione del vedere) a conti fatti non è nient’altro che ciò che si offre alla vista e al tempo stesso al sapere, al conoscere. Con ciò l’idolo si accosta naturalmente all’eidos ovvero alla forma che, per sua essenza qualitativa, equivale nell’ordine del sensibile a ciò che la verità è nell’ordine delle cose intellettuali.

Ma l’arte greca è altrettanto direttamente legata al mito; dal mito, come racconto figurato, viene recepita la forza. Dal punto di vista proprio del mito, la parola senza ricorso alle immagini è arida – non può trasmettere, non può mettere in movimento l’immaginario. Ma il mito non può esprimersi per immagini se non si inserisce in quella sfera ontologica alla quale appartengono insieme gli uomini e gli dei. Walter F. Otto sottolinea con forza questo aspetto: la religione greca non spinge l’uomo verso il proprio foro interiore ma all’esperienza nel mondo. La divinità non si manifesta da un aldilà distinto nettamente dal cosmo, ma essa “si presenta all’uomo originata dalle cose del mondo, incrociandone il cammino e prendendo parte alla danza che è la vita del mondo”. Il mito esprime allora la dimensione invisibile del visibile con l’atto stesso del vivere.
È la grande meraviglia, eterna e indimenticabile, dell’antica religione greca: coloro che, per loro fortuna, sono più in disparte sono anche i più vicini agli dei e sempre costoro sono fortunati nella loro lontananza. Non vi è un senso senza l’altro. È il lontano e l’inaccessibile che danno vita alla vicinanza e all’incontro”. Si ritrova qui il tema heideggeriano della presenza e della ritirata dell’Essere. E si capisce perché, agli occhi dei greci, il bene morale e il bello, l’etico e l’estetico (kalos kagathos) si identifichino l’uno con l’altro – e il male si definisca prima di tutto come il non-essere. “Il pieno riconoscimento della composizione mitica dello spirito” scrive Jean-Jacques Wunenburger “costituisce una ragione sufficiente per restaurare pienamente i diritti di una metafisica dell’immagine”.

L’arte europea, attraverso la rappresentazione figurata, appare anche come il senso emergente dal sensibile nella sua forma più elevata – rendendo percepibile la presenza non soltanto di ciò che costituisce la nostra propria presenza, ma anche di coloro che sono nascosti e misteriosi.

L’eccezione cristiana

Il fiorire dei capolavori dell’arte cristiana, che tutti conosciamo bene, può far pensare che il cristianesimo abbia cercato di allontanarsi dalle concezioni avverse alle raffigurazioni. È errato, ciò non è avvenuto. Gli splendori dell’arte cristiana sono progressivamente sbocciati solo in maniera tardiva. L’arte paleocristiana, per esempio, è caratterizzata da una povertà estrema. Due ragioni principali per ciò: l’eredità pesante dell’iconoclastia biblica e la volontà dei primi cristiani di distinguersi nettamente dai pagani che, come sappiamo, davano alla rappresentazione figurata un’importanza fondamentale; per le strade della città come nei luoghi di culto, ovunque vi erano innumerevoli statue fatte a immagine delle divinità.

Che il cristianesimo abbia finito per diventare l’unico monoteismo favorevole alle icone, o iconudolico, lo si potrebbe spiegare per il ruolo giocato nella fede cristiana dal motivo dell’Incarnazione. Considerato che Gesù ha  potuto essere guardato nello stesso momento come vero Dio e vero uomo, questo ha reso possibile una speculazione dalla quale risultante è una “vittoria delle immagini”. Questa formulazione contiene senza dubbi una parte di verità ma non elimina gli equivoci; lascia infatti intendere che l’Occidente abbia acquisito il “genio dell’immagine” solo una volta venuto a contatto col cristianesimo e, soprattutto, che quest’ultimo abbia fin da subito, appoggiandosi all’idea dell’Incarnazione, sostenuto un discorso favorevole alla rappresentazione. Ora, come già visto, è vero il contrario; è l’Europa precristiana che ha esaltato fino all’assoluto la presenza che si mostra nella rappresentazione. È quindi più logico pensare che l’arte cristiana si sia sviluppata nel senso precedentemente analizzato per soddisfare l’inarrestabile bisogno di immagini che albergava nei popoli europei. Per quanto riguarda l’Incarnazione è sì innegabile che essa abbia giocato un ruolo importantissimo nella storia del rapporto fra fede cristiana e immagine, ma la sua apparizione in scena avviene solamente molto tardi. Essa arriva quando ormai l’arte cristiana ha spiccato il volo; non arriva prima per spiegarla e giustificarla. Costituisce piuttosto quella che potremmo chiamare una giustificazione secondaria, e a posteriori, di un’evoluzione già avvenuta nel frattempo.

È in questo contesto che si situa la celebre lotta sulle immagini che, nella Bisanzio del secolo VII fino al IX, oppose gli iconoclasti e gli iconoduli. I primi rappresentavano l’antica proscrizione biblica riguardo le immagini, mentre i secondi, e con loro gli gnostici, sostenevano che rifiutarsi di rappresentare Cristo significasse negare la verità dell’Incarnazione. Per Giovanni il Damasceno, l’Incarnazione è il fatto nuovo che permette di abolire la tradizionale legge biblica. Sottolinea anche che l’icona non rappresenta la natura umana del Cristo ma bensì l’ipostasi del Verbo. Ipato, arcivescovo di Efeso nel VI secolo, riprende l’argomentazione di Prudenzio e di Gregorio di Nissa, secondo i quali l’immagine è un supporto pedagogico, un sostengo emotivo per le Scritture che può tornare particolarmente utile alla catechesi degli illetterati.

Nel 681, gli iconoduli vincono una prima battaglia; il concilio di Costantinopoli decreta come accettati i ritratti di Cristo. Ma nel 730, l’imperatore Leone III contrattacca e ordina che tutti i luoghi di culto vengano ripuliti dalle immagini e dalle icone; la sua azione va a buon fine, le immagini condannate vengono distrutte a migliaia. Nel  766, per ordine  dell’imperatore vengono decapitati i principali capi del movimento iconodulo, numerosi monaci sono torturati in pubblico come monito, il patriarca di Costantinopoli è condannato a morte: a fronte di questa repressione i partigiani dell’iconodulia partono in esilio verso l’Egitto, la Siria, la Crimea,l’Italia. È solo nel 787 che l’Imperatrice Irene ristabilisce come legale il culto delle immagini. Inizialmente gli iconoclasti fanno resistenza e proseguono nella loro persecuzione nelle province orientali dell’Impero, ma si tratta solo di una questione di tempo; il vento ha definitivamente cambiato direzione.
Nell’843, la reggente Teodora mette la parola fine a quello che era stato iniziato con il Concilio di Nicea e l’iconoclastia viene definitivamente battuta. La rappresentazione delle figure divine e dei santi con fini di venerazione, finisce per imporsi come vincente.

Le tracce di antiche pratiche di culto pagane

Hans Belting sottolinea come le icone siano divenute frequenti a partire dal VI secolo, salvo ricevere una vera giustificazione dottrinale solamente due secoli più tardi. Belting mette in luce l’esistenza di una potente continuità fra le pratiche pagane e quelle legate alle prime forme di culto dell’immagine: votate alla nuova fede, è vero, ma le popolazioni d’Europa restano nell’intimo pagane e non gli riesce l’impresa di separare il concetto di divino dal concetto di bello. Ecco perché le prime rappresentazioni della Vergine Maria sono sovente ispirate dalle madri degli dei dei culti precristiani. Nello stesso modo, non si possono comprendere le prime raffigurazioni di santi se non facendo riferimento nell’analizzarle ai ritratti funerari romani.

Dal 1200, Oriente e Occidente prendono due strade diferenti. Nella cristianità orientale, l’immagine si orienta verso il modello dell’icona; nell’arte dell’Europa occidentale l’arte religiosa ha una vera e propria esplosione in ogni forma possibile. L’immagine perde il suo carattere puramente sacro, anche quando continua a raffigurare soggetti religiosi. Con il Rinascimento poi, scrive ancora Hans Belting, “una tela non è più comprensibile solamente analizzandone il tema, ma anche ragionando sul suo contributo allo sviluppo delle arti”. L’alta arte cristiana pone davanti a tutto l’estetica, mentre il culto delle immagini alla vecchia maniera si perpetua negli ex-voto, nelle immagini votive,nei dipinti delle missioni o delle confraternite.

Un’arte (ri)divenuta iconoclasta?

Farò, per concludere, una breve allusione all’arte (o alla non-arte) contemporanea. Jean Baudrillard, per definire la nostra epoca, parla di “inutile perfezione dell’immagine”. Con questa espressione vuole far arrivare la sconfitta di tutto ciò che nell’immagine rilevava prima della fantasia, dell’illusione, dell’enigma. L’illusione qui non si intende certo come certe favole delle quali parla Platone per mettere in guardia contro le seduzioni dell’arte e del mito. Trattasi piuttosto di una illusione, perfettamente compatibile con la verità, e della quale parla Nietzsche proprio quando, scagliandosi esattamente contro Platone, sostiene che l’artista renda il mondo vivibile trasfigurandolo e intoducendovi la bellezza. Gli artisti contemporanei diffondono certamente un’illusione quando affermano di fare dell’arte, e in questo senso la loro arte è assai illusoria; ma nello stesso tempo la loro arte illusoria è ben priva di illusione. Le immagini che propongono non sono altro che riflessi senza la minima deformazione della banalità circostante.

Ancora Baudrillard dice che “L’arte è diventata iconoclasta perché l’iconoclastia moderna non consiste più nel distruggere le immagini ma nel fabbricarne, nel fabbricarne una profusione nelle quali non vi è nulla da vedere”. Nel medesimo modo che l’eccesso di informazioni equivale a un’assenza di informazioni, la sovrabbondanza e l’onnipresenza di immagini equivale alla loro soppressione; non vi è più raffigurazione se tutto è raffigurazione.