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La questione del “meraviglioso cristiano” ne «Les Martyrs» di Chateaubriand

di Francesco Lamendola - 06/05/2015

Fonte: Arianna editrice


 


 

È possibile, per uno scrittore moderno, evocare un “meraviglioso cristiano” (o, se si preferisce, un “fantastico cristiano”) che non sia, semplicemente – e, diciamolo pure, alquanto goffamente – un mero duplicato del “meraviglioso pagano” (o del “fantastico pagano”), ma che sia intrinsecamente vivo e artisticamente risolto e persuasivo?

La questione, come è noto, è stata al centro della riflessione di François-René de Chateaubriand allorché lo scrittore francese si accinse alla composizione di quello che, nelle sue intenzioni, doveva essere un vasto romanzo epico, celebrativo della grandezza morale dei primi cristiani e tale da oscurare l’epos pagano, facendo risaltare la superiorità etica della nuova religione e dimostrando che, anche letterariamente, una epopea cristiana non aveva nulla da invidiare, semmai qualcosa in più, rispetto a quelle proprie del mondo greco-romano.

Il romanzo, intessuto di considerazioni filosofiche e simile, nella struttura, a un poema epico in prosa, fu pubblicato nel 1809, ma già anticipa la sensibilità romantica posteriore alla Restaurazione, con la sua predilezione per la dimensione trascendente e religiosa e con la sua tendenza a dirigere l’attenzione dalla realtà umana e terrena a quella spirituale e ultraterrena, nonché per il suo frequentissimo ricorso, appunto, alla poetica del “meraviglioso” (o del “fantastico”), mutuato dalla tradizione classica ma adattato e riformato secondo le esigenze di una apologetica cristiana e cattolica, il tutto non senza una componente di primitivismo, di esotismo e quasi di “goticismo” ossianico, secondo il modello proposto dallo scozzese Macpherson fin dal 1760 (e che sarà ripreso dal pittore Jean-Auguste Dominique Ingres nel 1813, per conto di Napoleone, nel palazzo romano del Quirinale, con il famoso «Sogno di Ossian»).

La questione artistico-letteraria del “meraviglioso cristiano” è stata efficacemente sintetizzata  da André Lagarde e Laurent Michard  nel volume della loro celebre «Collection Littéraire» dedicato  all’Ottocento (in: Lagarde-Michard, «XIXe siècle», Paris, Bordas, 1969,  p. 58):

 

«LA QUESTION DU MERVEILLEUX.

Sur ce point essentiel, Chateaubriand a reconnu son échec: “Le default des ‘Martyrs’ tient au merveilleux direct que, dans le reste de mes préjugés classiques,  j’avais mal à propos employé”. Voulant prouver  la superiorité du merveilleux chrétien, il a commis l’erreur de créer à l’image de la mythologie païenne une ‘mythologie chretienne’, artificielle et ridicule, qui encombre de son fatras des livres entiers des ‘Martyrs’. Comment s’accomoder d’une RÈPRESENTATION MATERIELLE du Paradis, meme illuminé par des diamants  et des portiques de soleils, et enchancté par les cœurs des saintes et des anges qui entourent le trône de l’Éternel? Et que dire de ces Enfers chrétiens où la Mort vient à vous sous la forme d’une squelette et où se tiennent  des assemblées de demons  si agitées que Dieu lui-même  doit rétablir l’ordre?

Pourtant, comme pour nos faire regretter ces erreurs, Chateaubriand a parfois  recours à un MERVEILLEUX PLUS DISCRET et parfaitement  acceptable, comme l’intervention de ce raz de marée qui sauve les Francs, que Dieu reserve à de grandes destinées.»

 

Chateaubriand, dunque riconobbe l’errore, lo scacco, il fallimento di una poetica che aveva voluto esaltare il meraviglioso cristiano, forgiandolo come una sorta di brutta copia di quello pagano, e ne attribuì la causa alla sua sudditanza nei confronti della letteratura classica; però lo scrittore francese non era stato il primo a cimentarsi in una tale impresa, artistica e apologetica nello stesso tempo e, dunque, avrebbe potuto avvantaggiarsi dell’esperienza di quanti, prima di lui, avevano intrapreso quella strada e cercato delle soluzioni allo stesso problema. In particolare, non possiamo non ricordare la «Gerusalemme liberata» di Torquato Tasso, nella quale, quasi duecentotrenta anni prima de «I martiri» di Chateaubriand, il grande poeta italiano si era cimentato in una impresa del tutto analoga – celebrare il cattolicesimo e rivendicare la sua superiorità sullo spirito pagano – e aveva tentato di risolverla, se non in maniera originale, quanto meno in maniera poeticamente convincente e suggestiva.

Il meraviglioso elaborato da Tasso nella «Gerusalemme liberata» vuole essere un meraviglioso verosimile – se ci si perdona l’ossimoro – e, pertanto, credibile, del tutto diverso da quello “fiabesco” dei romanzi cavallereschi, contraddistinto da spade magiche, fontane incantate e da cavalli alati che se ne volano fin sulla Luna: un fiabesco “disimpegnato” e di puro intrattenimento, che si potrebbe anche definire, parafrasando Croce, un fiabesco senza problema storico (o piuttosto ideologico). Per questo esso attinge direttamente al repertorio del meraviglioso cristiano, ma, ove ciò avviene – e come sperimenterà anche John Milton nel «Paradise Lost» (e, più tardi, lo stesso Goethe nel «Faust»), con esiti artistici alquanto controversi: come si vede nelle scene in cui il Cielo, coi suoi angeli, parteggia per le schiere dei crociati, mentre l’Inferno, coi suoi diavoli, sostiene e aiuta in ogni modo, anche mediante la magia nera del mago Ismeno, i musulmani che si oppongono alla conquista del Santo Sepolcro (mentre la magia bianca del mago di Ascalona è al servizio della causa cristiana).

L’intuizione artistica del Tasso è potente ed efficace, invece, là dove egli si svincola dall’iconografia tradizionale del meraviglioso cristiano e, sviluppando alcune intuizioni dantesche, elabora una poetica nuova, più introspettiva che epica, più malinconica che tragica, per esempio nell’episodio della selva incantata in cui Tancredi, eroe inadeguato, soccombe davanti all’albero sanguinante che rappresenta la morta Clorinda - da lui involontariamente uccisa - e, più ancora, il fantasma personificato dei suoi rimpianti e dei suoi amari rimorsi, che ne fanno un eroe straordinariamente moderno, nel senso quasi psicanalitico del termine (e Freud, infatti, apprezzò molto proprio quella particolare invenzione tassiana). I “mostri” che si oppongono alla missione di Tancredi nella selva sono, in fondo, quelli della sua coscienza atterrita e dolente; sorgono, dostoevskianamente, dal “sottosuolo” della sua coscienza, là dove invano egli si era sforzato di ricacciarli, ma senza aver avuto il coraggio di guardarli sino in fondo e di affrontarli per ciò che erano e per ciò che implicavano.

E adesso torniamo a Chateaubriand. Egli vuole creare un nuovo epos, che gareggi con quello classico-mitologico e che faccia rifulgere la grandezza della concezione cristiana della vita e della lotta fra il Bene e il Male, dopo una lunga fase di cultura agnostica e implicitamente irreligiosa o, almeno, a-religiosa (esattamente come Tasso); e, come il nostro poeta cinquecentesco, mette in scena paesaggi ampi e stralunati, vividi e crepuscolari, pervasi di un arcano orrore, frementi di inafferrabili e inquietanti presenze. La scena dei Franchi che scampano a una paurosa onda di marea sulle coste del Mare del Nord (desunta da Tacito) è grandiosa e altamente drammatica, ma non propriamente “meravigliosa”, poiché conserva elementi di verosimiglianza; per certi aspetti, ricorda le sculture della Colonna Antonina, ad esempio la scena del cosiddetto “miracolo della pioggia”, di cui Chateaubriand può aver avuto conoscenza, diretta o indiretta.

Da Tasso, comunque, lo scrittore francese sembra aver preso almeno un tratto importante, non esplicitamente collegato alla questione del meraviglioso: l’attrazione sensuale scaturente con forza raddoppiata, proprio perché repressa (ancora un tema da “sottosuolo”!), verso l’amore proibito e impossibile, un po’ come quello di Tancredi e Clorinda, ma a parti rovesciate, perché qui la pagana Velleda, sacerdotessa druida, innamorata perdutamente del soldato romano Eudore, che si è convertito al cristianesimo, viene da lui liberata, ma non ricambiata nei suoi sentimenti e finisce addirittura per suicidarsi, durante una crisi di disperazione, tagliandosi la gola (e qui il modello può essere stato anche quello, fondamentale nell’epica classica, della Didone di Virgilio abbandonata dall’ingrato Enea).

Anche la tragica morte di Eudore, insieme alla sua amata Cymodocea, nell’arena, sotto le zanne di una tigre ferocissima, richiama la scena del supplizio di Olindo e Sofronia, il quale, benché evitato all’ultimo momento dal generoso intervento di Clorinda, presenta il tema conturbante dei due amanti che vanno insieme incontro alla morte, pur di non separarsi (ma anche qui può esservi stata una reminiscenza virgiliana del famoso episodio di Eurialo e Niso, quest’ultimo in una chiave di erotismo implicitamente omofilo). Ma i due martiri cristiani, appunto in quanto tali, appartengono alla stessa cultura, mentre Velleda ed Eudore, proprio come Clorinda e Tancredi (ma a differenza di Olindo e Sofronia) sono figli di due culture diverse e contrapposte e, quindi, il loro amore appare tanto più impossibile, patetico e disperato.

La difficoltà principale, per uno scrittore moderno che voglia mettere in scena il meraviglioso, e, in particolare, il meraviglioso cristiano, che ha un carattere completamente diverso – come si è visto – dal meraviglioso fiabesco, consiste nel fatto che la cultura moderna, essenzialmente, non crede più nel soprannaturale e, quindi, non crede più nel meraviglioso, a meno che esso sia, appunto, di tipo fiabesco, nel qual caso non ci crede nel vero senso della parola, quanto piuttosto fa finta di crederci, per puro e semplice desiderio di evasione. Ma il meraviglioso cristiano discende dalla ferma credenza nel soprannaturale: è figlio della Bibbia e della teologia patristica e scolastica, espressione di una civiltà che crede all’invisibile e che lo pone a fondamento della realtà visibile. La civiltà moderna, materialista e secolarizzata, non crede più alla metafisica e quindi nemmeno al soprannaturale; semmai al preternaturale, ma come espressione di quelle forze infere le quali, cacciate dalla porta per opera della ragione illuminista, sono rientrate dalla finestra in virtù del principio, bene espresso da G. K. Chesterton, secondo il quale una società che non crede più in Dio non diventa incredula, bensì disposta ad abbracciare qualsiasi credenza, anche la più assurda. Di qui il proliferare di tutta una letteratura (e un cinema) di argomento gotico, macabro, orrorifico, satanico, in cui il meraviglioso è sostituito dal diabolico e la credenza nel Bene si distorce in un parossistico compiacimento del Nulla. L’uomo moderno ha voltato le spalle a Dio, ma, quasi per una punizione del suo cieco orgoglio, è angosciato da mille mostri e fantasmi, senza capire bene se provengano da dentro di lui oppure dal di fuori.

Dante, sul limitare estremo della civiltà medievale, riesce ancora a costruire un epos del meraviglioso cristiano, perfettamente concluso e coerente, architettonicamente strutturato e bilanciato in tutti i suoi aspetti, da quelli infernali a quelli paradisiaci, la cui poesia, come bene aveva visto il Vico, scaturisce da un mondo “primitivo” che non è ancora passato per le forche caudine di un Logos strumentale e calcolante deciso a farsi misura di tutte le cose e a sottomettere al proprio imperio sia la ragione che la volontà, imponendo la sua visione totalitaria del reale. Appena una generazione dopo Dante, proseguire sulla stessa linea diviene pressoché impossibile: Petrarca e Boccaccio, quando ci provano, scivolano nell’inverosimile o in un pesante didascalismo e, quel che è peggio, nel pretenzioso o nell’involontariamente caricaturale (si veda, ad esempio, la novella di Nastagio degli Onesti con l’episodio della caccia infernale, tema trattato anche da Vincenzo de Beauvais e da Jacopo Passavanti). Chateaubriand compone «I martiri» una ventina d’anni dopo la Rivoluzione francese e agli albori della Rivoluzione industriale, in un mondo che non crede più all’invisibile, se non – qualche decennio più tardi - nelle forme grossolane dello spiritismo e di altre pratiche di negromanzia: con la pretesa, cioè, di portarlo al livello del visibile e di esercitare su di esso una qualche forma di controllo o di potere magico. Né i fatti di Lourdes, né i prodigi del curato d’Ars hanno ancora risvegliato l’idea del soprannaturale nelle pieghe profonde della Francia rurale: troppo recenti e ancora sanguinanti sono le piaghe della scristianizzazione operata dagli Enragés nel periodo della dittatura giacobina e sanculotta. Chateaubriand si trova in una specie di terra di nessuno, attraversata da una cesura storica epocale, nella quale è impresa quasi impossibile quella di fondare un epos sulla base della tradizione scossa e indebolita.

In ultima analisi, il tentativo di Chateaubriand di dar vita ad un epos del meraviglioso cristiano è fallito, perché ormai estraneo al paradigma culturale dominante. Ci sarebbe voluta, semmai, la penna di una suor Faustina Kowalska o di un san Pio da Pietrelcina, che hanno “visto” molte cose appartenenti all’invisibile. Ma sarebbe ancora possibile fare della poesia sulla base di simili visioni?