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Brest-Litowsk, 1918: l’occasione sprecata

di Francesco Lamendola - 06/05/2015

Fonte: Arianna editrice


 


 

Il 3 marzo 1918, dopo alterne e drammatiche vicende – fra cui il ritiro di Trotzskj e il suo vano appello alla rivoluzione mondiale, seguito dalla ripresa dell’offensiva tedesca -, i delegati bolscevichi si videro letteralmente costretti a firmare il trattato di Brest-Litowsk, con il quale la Russia usciva definitivamente dalla fornace della prima guerra mondiale, mediante la pace separata con gli Imperi di Germania e Austria-Ungheria e con l’Impero ottomano, loro alleato.

Le condizioni di quella pace, onerosissime per la Russia – che riconosceva la perdita della Livonia, della Curlandia, della Lituania, dell’Estonia e della Polonia e l’indipendenza della Finlandia e dell’Ucraina, e che si impegnava alla fornitura di merci alle potenze ex nemiche, erano aggravate dal fatto che un mese prima, il 9 febbraio, l’Ucraina aveva firmato, a sua volta, la cosiddetta “pace del pane”, impegnandosi a rifornire di viveri le potenze centrali, ai quali doveva una effimera indipendenza nominale; e, due mesi dopo, il 7 maggio, da un analogo trattato con la Romania, la pace di Bucarest, che chiudeva una volta per tutte  il fronte orientale e consentiva alla Germania lo sfruttamento dei pozzi petroliferi romeni.

Per rendersi conto di quel che realmente significò la pace di Brest-Litowsk per la Russia, e del perché vi furono resistenze fortissime, fra gli stessi bolscevichi, a sottoscriverlo, si consideri che, con esso, venivano sottratti a quel Paese 56 milioni di abitanti, pari al 32% della sua popolazione, nonché un terzo delle sue ferrovie, il 73% della produzione di minerali di ferro, l’89% della sua produzione di carbone e qualcosa come 5.000 stabilimenti industriali.

Esultava lo Stato Maggiore tedesco, e, con esso, esultavano i circoli nazionalisti più accesi, che, con quei trattati di pace, vedevano coronati da successo i loro sogni di espansione verso oriente, primo passo verso il raggiungimento di quel ruolo mondiale della Germania, cui da tempo aspiravano; esultava anche il governo dei Giovani Turchi, che poteva, finalmente, lanciarsi nella chimera di quell’impero pan-turanico che sognava potesse abbracciare, passando per il Caucaso, tutte le popolazioni turco-tatare dell’Asia centrale; e tirava un poco il fiato la stremata Austria-Ungheria, libera di concentrare le sue ultime risorse militari contro la sola Italia.

Intanto, l’8 gennaio 1918 il presidente statunitense Woodrow Wilson aveva resi noti i suoi “quattordici punti” che, dopo i disordinati e fallimentari tentativi di pace del 1917 (ben rappresentati dall’affare Sisto di Borbone) e dopo l’invito papale a desistere dalla “inutile strage”, sembravano aver acceso nuove speranze di pace nei popoli impegnati nel conflitto e più che mai desiderosi di vederne la fine. Proprio l’intervento americano, però – ufficializzato  con la dichiarazione di guerra alla Germania il 6 aprile 1917, e il 7 dicembre all’Austria-Ungheria – aveva impresso un carattere più ideologico alla guerra, e, quindi, per un certo verso, allontanato la possibilità di una pace di compromesso, che non risultasse esplicitamente punitiva per la parte soccombente. Ormai la guerra, dopo tre anni di stragi e privazioni, si era fatta più che mai “totale”: una guerra di usura in cui l’avversario era diventato un nemico da demonizzare e da distruggere implacabilmente, e in cui le popolazioni delle potenze centrai erano esposte ai gravissimi effetti alimentari del blocco navale imposto dall’Intesa mediante il formidabile strumento della flotta britannica.

Perciò, se da un lato i “quattordici punti” facevano appello anche all’opinione pubblica degli Imperi centrali, per l’ideologia democratica che li ispirava, dall’altro, in pratica, proclamando la restaurazione del Belgio, la “restituzione” alla Francia dell’Alsazia-Lorena, la creazione di una Polonia indipendente «con un libero e sicuro accesso al mare» e l’autodeterminazione per i popoli dell’Austria-Ungheria, in pratica fissava delle condizioni tali per cui ai governi di Berlino e di Vienna non restava altra prospettiva che quella di battersi fino alla morte o di andare incontro al suicidio politico e, probabilmente, a una rivoluzione sociale. Accettarli, infatti, avrebbe significato vanificare gli immensi sacrifici sinora sopportati e riconoscere, in pratica, una sconfitta totale.

Ebbene, alcuni storici hanno visto nella pace di Brest-Litowsk la grande occasione mancata, per la Germania e i suoi alleati, di chiudere la guerra non solo con la Russia, ma con tutta l’Intesa, sfruttando alcune circostanze particolarmente favorevoli, che non si erano presentate fino ad allora e che non sarebbero ritornate mai più.

La Germania, in quel momento, era governata, di fatto, da una sorta di dittatura militare dello Stato Maggiore, rappresentato dalla coppia Hindenburg-Ludendorff; il Kaiser Guglielmo II aveva perso ogni autonomia e ogni fiducia in se stesso; il Parlamento era più che mai impotente, invero più dal punto di vista psicologico che effettivo; mentre il cancelliere dell’Impero tedesco e primo ministro di Prussia, Georg von Hertling -, succeduto il 1° novembre 1917 a Georg Michaelis - era una figura debole e scialba, lontanissima dall’autorevolezza di un Bismarck. Hindenburg e Ludendorff, da parte loro, accecati dall’orgoglio militare, si illudevano ancora di poter giungere a una vittoria sul campo in Occidente, prima che gli Stati Uniti avessero il tempo di trasferire in Francia il grosso del loro esercito, utilizzando le divisioni rese disponibili dall’uscita della Russia dal conflitto. Il loro, però, era stato un calcolo doppiamente sbagliato: primo, perché le smodate ambizioni che avevano ispirato il trattato di Brest-Litowsk li costringevano a tenere ancora un milione di soldati nell’immenso territorio fra il Baltico e il Mar Nero, dal Golfo di Finlandia alla Penisola di Crimea; secondo, perché proprio la durezza della pace imposta alla Russia aveva permesso alla propaganda dell’Intesa di dipingere la Germania, ancora una volta, come avida di conquiste, brutale e dominata da una cricca militarista e imperialista, tale da mettere in pericolo qualunque futuro equilibrio politico sullo scacchiere mondiale.

Il momento favorevole per aprire una trattativa di pace generale, negoziando da una posizione di forza, si era presentato allorché i bolscevichi avevano proposto anche alle altre nazioni dell’Intesa di partecipare ai lavori di Brest-Litowsk, partendo da un programma basato al raggiungimento di una pace senza annessioni e senza indennità. L’appello cadde nel vuoto e la guerra, sugli altri fronti, proseguì anche durante le sedute bolscevico-tedesche per la pace separata; ma le cose avrebbero potuto andare diversamente, se a lanciare la proposta di una conferenza generale non fossero stati i rappresentanti di una Russia sconfitta e rivoluzionaria, ma quelli della stessa Germania. Allora, infatti – fra il dicembre 1917 e il gennaio 1918 – la Germania, proprio perché vittoriosa a Oriente, avrebbe potuto “barattare” con l’Intesa alcune concessioni a Occidente – restaurazione della sovranità belga e retrocessione dell’Alsazia-Lorena alla Francia -, tali da consentire l’avvio di negoziati con i governi di Londra e Parigi, e questo in cambio dell’annessione di alcuni territori russi e di una sistemazione a lei favorevole della questione polacca (vale a dire, senza lo sbocco al mare che avrebbe separato la Prussia Orientale dal resto del Reich).

È molto probabile che gli Alleati occidentali, anch’essi stremati dalla guerra e niente affatto convinti di poter resistere fino a tanto che gli Stati Uniti gettassero nella lotta tutto il peso del loro apparato industriale e finanziario, oltre che militare, avrebbero accolto con favore una prospettiva di questo genere, facendo così pagare ai bolscevichi - da essi giudicati traditori della causa bellica comune, nonché “pericolosi” per il bacillo rivoluzionario di cui erano portatori -, le spese di un trattato di pace generale, che del resto, Russia a parte, avrebbe sostanzialmente ripristinato lo “status quo ante”, e quasi certamente salvato dalla dissoluzione l’Impero austro-ungarico, prezioso fattore di stabilità nella delicata area carpatico-danubiana. L’errore di Hindenburg e Ludendorff, dunque, non fu solo, o non tanto, quello di avere imposto alla Russia una pace troppo dura, ma quello di non aver approfittato del momento favorevole per aprire trattative di pace generali, negoziando da una posizione di forza, con le loro truppe ovunque accampate bene addentro il territorio degli Stati dell’Intesa.

Questa tesi è stata sostenuta, fra gli altri, dal giornalista ebreo-austriaco Karl Tscuppik nella sua eccellente biografia di Ludendorff, dalla quale riportiamo questo passaggio-chiave (K. Tschuppik, «Ludendorff»; traduzione dal tedesco di Gino Capogrossi, Milano, F.lli Treves, 1934, pp. 169-71):

 

«Mai prima d’allora la mancanza di volontà del Parlamento tedesco si era così chiaramente manifestata al mondo come in questo caso. La mancanza di volontà, non la mancanza di forza.  La forza il Parlamento poteva averla: lo dimostrano innumerevoli esempi; forza anche accanto, o malgrado Ludendorff. Il Parlamento non ebbe la volontà di aver forza. Proprio nel momento in cui il Presidente Wilson formulava la domanda se il Parlamento tedesco era il rappresentante del popolo tedesco o lo strumento di una casta militare, esso non si fece vivo, Accolse con giubilo la pace dettata di Brest-Litowsk. Soltanto i socialdemocratici fecero delle obiezioni. “Noi non possiamo – dice Scheidemann – approvare il modo con il quale si ottenne questo trattato, ma poiché per mezzo di esso si è realmente posto fine alla guerra in oriente, non vogliamo nemmeno respingerlo”.

Le obiezioni socialdemocratiche furono sommerse dall’approvazione generale. Ma a Brest-Litowsk il mondo vide anche che cosa la Germania intendeva per “pace”. Le formule “incorporamento” e “garanzie” divennero armi di agitazione nelle mani dell’Intesa: Vedete? Si esclamò nel mondo, così succederà del Belgio, se la Germania vincerà! Anche all’interno di Brest-Litowsk la pace ebbe effetto disastroso. L’eliminazione della Russia sarebbe stata un grande successo come tappa per una pace d’intesa; come pace imposta, Brest-Litowsk non produsse alcun frutto. Ed il popolo tedesco, non illuminato né dal Parlamento, né dalla stampa, godette la breve gioia di aver dettato una vera pace vittoriosa. “Questa breve gioia fui l’unico risultato di Brest-Litowsk”.

I difensori della politica orientale tedesca si richiamano al fatto che l’Intesa, non rispondendo all’invito di andare a Brest-Litowsk, abbia essa chiuse le porte a una pace generale. Ma nel modo in cui mandato l’invito per Brest-Litowsk, non era possibile costituire nessun congresso per la pace generale. La proposta non doveva partire dai Russi, ma dai Tedeschi. Allora, ammette Churchill, si sarebbe presentata una favorevole occasione per le trattative di pace. La Russia crollata, l’Italia in agonia, la Francia esaurita, le armate britanniche dissanguate, i sottomarini non ancora affondati, gli Stati Uniti lontani 3.000 miglia – tutti questi fatto formavano una situazione di cui un0abile direzione politica in Germania avrebbe potuto assai bene approfittare; le immense conquiste fatte dalla Germania in Russia, l’odio ed il furore con cui gli Alleati guardavano verso la Russia, avrebbero reso possibile alla Germania, così ritiene Churchill, di fare delle concessioni territoriali alla Francia  e di offrire all’Inghilterra la completa restaurazione  del Belgio. Certo questa fu “la grosse chance” della Germania: cedere, a spese della Russia,  delle parti dell’Alsazia-Lorena alla Francia e con accordi impegnativi circa il ripristino del Belgio, rimuovere la ragione di guerra dell’Inghilterra. “Ma Ludendorff non aveva nessun desiderio di tutto ciò”, continua Churchill, e questo non è esatto.

Solo un genio politico della misura di Bismarck avrebbe allora potuti far accettare questo programma minimo. Benché una pace simile sarebbe stata, rispetto alla situazione mondiale,  una formidabile vittoria della Germania, nessuno pensava di fare delle concessioni quali le immaginava Churchill. Nemmeno i socialdemocratici. Il 24 gennaio 1918 Scheidemann dichiarava in Parlamento, riferendosi all’Alsazia-Lorena: “Su questo punto c’è da chiarire al signor Wilson che non c’è nulla da riparare. L’AlsaziaLorena è una terra tedesca e lo rimarrà. Ciò che è tedesco resta in possesso tedesco. Questa è una cosa che si comprende naturalmente”. Bethmann Hollweg fu l’unico e l’ultimo statista tedesco disposto a correzioni di frontiera nel territorio dell’Impero; ne parlò col nunzio Pacelli in occasione del tentativo di pace del papa. Il conte Hertling si era non solo allontanato dalla mozione per la pace del Parlamento tedesco, ma nel comportamento  negativo dell’Intesa riguardo a Brest-Litowsk trova a il diritto di sentirsi oramai completamente libero di fronte alle potenze occidentali e di tentare  di ottenere una pace che,m anche se non corrispondente  ai futuri piani militari di Ludendorff, era anche più lontana da un programma minimo. Quel che sarebbe forse stato possibile nella primavera del 1918, cioè una pace d’intesa sulla base di un programma  minimo tedesco, era in realtà impossibile. Non perché “Ludendorff non ne avesse nessun desiderio”; ma perché nessuno in Germania avrebbe dato il suo consenso  a questo programma minimo. Oggi, dopo la guerra, è facile riconoscere che  quella è stata l’unica e l’ultima “grosse chance” della Germania.»

 

Quest’ultima considerazione è certamente vera: l’esaltazione nazionalista, alimentata da una stampa a senso unico e non controbilanciata da un Parlamento vigile e attivo, insomma la mancanza di un clima politico democratico favorevole alla libertà d’informazione, rese l’opinione pubblica tedesca cieca quasi quanto lo furono i suoi capi, e la incoraggiò a coltivare sogni di vittoria, o comunque di una pace non sfavorevole, quando ormai la partita era sostanzialmente perduta. E che la partita fosse perduta, avrebbe dovuto essere chiaro non già nel 1917 o nel 1918, con il fallimento della campagna sottomarina che avrebbe dovuto mettere in ginocchio la Gran Bretagna, ma fin dal settembre 1914, con la battaglia della Marna e l’inizio della guerra d’usura, in cui le Potenze centrali, con meno abitanti, meno industrie e meno risorse finanziarie dell’Intesa, e tagliate fuori dal commercio marittimo, non avevano più alcuna possibilità di vittoria.

È pur vero che, nel clima prodottosi con la guerra, nemmeno nei Paesi democratici vigeva, di fatto,  una libera informazione, né un completo controllo parlamentare sull’operato degli Stati Maggiori; in nessun caso, però, si giunse a una dittatura militare, come di fatto accadde in Germania. Questo non toglie che, nei Paesi alleati, l’opinione pubblica potesse venire tranquillamente manipolata o ignorata, secondo le circostanze. Sia l’Italia, sia gli Stati Uniti, per esempio, erano entrati in guerra a dispetto di una opinione pubblica sostanzialmente contraria; e né in Gran Bretagna, né in Francia, i governi erano stati sinceri nel dichiarare ai propri popoli gli obiettivi finali per cui essi stavano combattendo e sopportando tanti lutti e sacrifici.

Il fatto è che la tesi di Churchill, esposta nel suo libro - smaccatamente auto-celebrativo - «La crisi mondiale» (e riportata da Tschuppik), sia pretestuosa e insincera. Egli finge di credere che lo scopo di guerra della sua patria, la Gran Bretagna, fosse, semplicemente, il ripristino dell’indipendenza belga: ma questa è una grossolana mistificazione. L’invasione tedesca del Belgio, nell’agosto 1914, aveva fornito semplicemente il pretesto per la dichiarazione di guerra della Gran Bretagna alla Germania; le ragioni vere erano ben altre. La Gran Bretagna temeva di essere completamente surclassata dall’espansione finanziaria, industriale e commerciale tedesca; e temeva, più ancora, di perdere il dominio dei mari, assicurato dalla sua incontrastata superiorità navale, a causa della costruzione della flotta d’alto mare tedesca, voluta dall’ammiraglio von Tirpitz.

Un discorso simili si può fare per la Francia. Essa non aveva come unico obiettivo di guerra la “liberazione” dell’Alsazia-Lorena: bensì sognava il ripristino della propria egemonia continentale, perduta nel 1870-71, e, quindi, perseguiva un sostanziale e duraturo indebolimento, se non addirittura uno smembramento, della Germania. Voleva la sicurezza completa sul Reno: e, per ottenerla, avrebbe voluto, se possibile, un ritorno alla pace di Westfalia del 1648, con la Germania debole, divisa, impotente. Non avrebbe accettato una pace che non le assicurasse almeno la smilitarizzazione della Renania o che non le permettesse di recuperare una certa influenza politica nell’Europa orientale, a danno della Germania, specialmente ora che la Russia era uscita di scena ed era caduta in mano ai bolscevichi. Essa voleva la “revanche”, cioè, in pratica, la vendetta.

Però, nel clima drammatico dei primi mesi del 1918, i governi alleati avrebbero avuto notevoli difficoltà a far accettare ai rispettivi popoli questi obiettivi di guerra, miranti una “vittoria cartaginese”. Gli ammutinamenti nell’esercito francese del 1917; quel grande “sciopero militare” che fu, in sostanza, la battaglia di Caporetto, preceduto dai fatti insurrezionali di Torino; la scomparsa del fronte orientale, l’esito incerto della battaglia dell’Atlantico e il timore che l’esercito americano potesse non giungere in tempo: tutto questo avrebbe costretto i governi dell’Intesa, molto probabilmente, a non lasciar cadere nel vuoto la proposta tedesca di una conferenza generale per la pace.

Tuttavia, per fare un simile passo, sarebbe stato necessario che la Germania avesse un governo civile pienamente responsabile ed autorevole; e che, alle sue spalle, vi fosse un’opinione pubblica sufficientemente informata sul reale andamento della guerra. Queste condizioni non esistevano, visto che - come osserva Tschuppik – perfino i socialdemocratici non erano disposti a un passo “minimo”, come la cessione dell’Alsazia-Lorena. Si può, allora, fare carico al Comando Supremo di non aver compreso che quella era l’unica ed ultima occasione di giungere a una pace di compromesso, che la Germania avrebbe comunque vissuto come una sconfitta?

La guerra del 1914 era nata da un vuoto della politica e da uno strapotere delle alte sfere militari – non solo in Germania e non solo in Austria-Ungheria, ma anche, in diversa misura, nei Paesi dell’Intesa. Il vero ostacolo al raggiungimento di una pace moderata, pertanto, consisteva nel fatto che quel vuoto esisteva tuttora, anzi, si era allargato nel corso della guerra, proprio mentre lo strapotere dei militari era cresciuto ulteriormente. E solo dei governi civili responsabili ed autorevoli avrebbero potuto, forse, aprire delle trattative per il raggiungimento di una pace moderata, dato che i militari non avrebbero mai accettato una conclusione della guerra che non equivalesse a una vittoria netta e indiscutibile. Ecco perché la pace generale, quando infine venne ratificata - quella di Versailles -, non scaturì dalla volontà della classe politica, ma semplicemente dall’esaurimento delle risorse militari di uno dei due schieramenti.

Con tutte le inevitabili conseguenze del caso.