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Unicamente umano?

di Umberto Bianchi - 27/05/2015

Fonte: Arianna editrice


 

Nel mio girovagare tra librerie, mi è recentemente capitato tra le mani questo “Unicamente Umano/Storia naturale del pensiero”, scritto nientepopodimenoche dal condirettore del Max Planck Institute di Lipsia, corrispondente al nome di Michael Tomasello, antropologo e psicologo di scuola evoluzionista che, alla non facile questione della genesi del pensiero umano ha dedicato un’interessante disamina. Ad onor del vero, va detto che non è né la prima né l’ultima volta che la scienza si occupa di un problema le cui implicazioni sono enormi e spaziano da un ambito meramente scientifico ad uno più propriamente etico e filosofico, non senza, chiaramente, un risvolto religioso, poiché quella sull’origine del nostro modo di pensare costituisce l’aspetto principale, e direi quasi, assiale su cui poi va ad incardinarsi la domanda-principe riguardante l’origine dell’uomo e la sua provenienza. Un primo, istintuale impulso, ha già portato la scienza ad imprimere un approccio squisitamente fisiologico all’intera questione, andandone a ricercare la soluzione direttamente nell’ambito neurologico. Si è, per esempio, parlato dell’unicità dell’intrinseca asimmetria di funzioni, che solo il cervello umano possiederebbe, con una parte destra ed una sinistra intente a svolgere compiti differenti. Oggi sappiamo che questa asimmetria è addirittura presente nel “Caenorhabditis elegans”, un nematode vermiforme, la cui lunghezza non supera il millimetro. La questione della maggior dimensione del cervello umano, ed in particolare dei suoi lobi frontali rispetto a quella dei primati, è stata recentemente smentita da ricercatori come Robert Barton, dell’Università di Durham. La stessa scoperta di una varietà di cellule nervose dall’aspetto fusiforme, dette neuroni di Von Economo, che sarebbero presenti solo nel cervello umano, è stata smentita dal ritrovamento delle stesse nel cervello delle grandi scimmie ed in seguito, addirittura in quello di molte altre specie animali. Lo studioso Michael Tomasello si fa, invece, portatore di un’altra impostazione di matrice sicuramente più “strutturalista”. A detta di quest’ultimo, il pensiero umano assurge a quel livello di complessità e sofisticata elaborazione che gli è propria, grazie al complesso intreccio di interrelazioni con gli altri individui della propria specie che, nel corso dei millenni, partendo dalla veste di semplice relazione tra isolate individualità, passa poi  ad assumerne una di propellente, in grado di edificare e dar vita alle complesse architetture socio-economiche del genere umano. Nel fare questo, il Tomasello ci porta lungo un percorso vieppiù caratterizzato da un progressivo allargamento delle prospettive di relazione e delle modalità che ne contraddistinguono l’esistenza, declinato all’insegna di un’ottica evoluzionista, il cui comun denominatore è rappresentato da quella “intenzionalità” che, dell’intero excursus narrativo, costituisce l’elemento trainante. Quell’intenzionalità, è ciò che sovrintende ai complessi processi di ominazione e costituisce la vera chiave di volta per leggere ed interpretare un percorso che, dalla realtà di una semplice forma di percezione individuale, passa via via ad una forma di percezione duale, congiunta, sino ad allargarsi ad un’intera comunità di individui ed a creare norme, regole, convenzioni, pre-giudizi, tutti egualmente generati dal primevo ritornello logico dell’ “io so-che tu sai-che io so”, qui assurto a motivo trainante di quel percorso che fa dell’uomo uno “zoon politikòn”, in veste di vero e proprio animale sociale. E, nell’ottica del Tomasello, saranno proprio quello stare assieme, quell’agire in società, unicamente animati da ragioni legate ad un adattamento evolutivo causato da mutamenti climatici, che svilupperanno  l’umana intelligenza e null’altro. E qui possiamo ravvisare tutta la limitante portata di un’impostazione, parimenti espressione di un quanto mai datato pensiero evoluzionista e di un frettoloso e superficiale strutturalismo. Non è certo una novità che lo stare assieme, l’agire sinergicamente, nella specie umana, possa costituire un potente stimolo allo sviluppo delle capacità cognitive. Ma è altrettanto vero che, il ridurre l’intera vicenda della nascita del pensiero umano ad un fattore di pura meccanica sociale è quanto di più riduttivo si possa fare. E questo, perché a voler prendere per buona l’equazione del Tomasello e degli altri suoi accoliti neo evoluzionisti, la razza umana dovrebbe a pari merito dividere il dominio dell’orbe terracqueo con formiche, termiti, api, topi, castori, marmotte e simili, in quanto specie dotate di altrettante capacità di interazione sociale e comunicativa. Invece, guarda caso, a dominare il mondo, nel bene e nel male, con quella “Techne”, frutto di una plurimillenaria sedimentazione del proprio pensiero, è, in via del tutto esclusiva, il genere umano, senza se e senza ma. Come si può ben vedere, il problema non è di facile soluzione, né possono esser sufficienti risposte all’insegna di una fin troppo scontata e schematica unilinearità, così come accaduto nell’infinita querelle tra Evoluzionisti e Creazionisti, tanto per fare un esempio. Ad offrire un contributo decisivo all’inquadramento dell’intera “vexata quaestio”, è quella “teoria della complessità” che, assurta a nuova modalità di interpretazione della realtà ha fatto della interdisciplinarietà e della non linearità i propri assi portanti,  proprio in omaggio alle teorie di fine Ottocento, del fisico-matematico Henri Poincaré, seguito da una nutrita schiera di pensatori per lo più inizialmente provenienti dall’ambito della fisica e della matematica, tra cui, per citarne alcuni, P.W. Anderson, con il quale la fisica si affrancherà dal riduzionismo, Bertalanffy, per quel che attiene la sistemistica transdisciplinare, Kolmogorov  per la complessità algoritmica, sino ad arrivare ad Ilya Prigogine per quanto riguarda  i sistemi lontani dall’equilibrio ed all’arcinoto Edgar Morin che tenterà di operare una sistematizzazione razionale dell’intero sistema-pensiero “complesso”. Il termine "complesso", è lì a sottolinearci la completa insufficienza dell’ approccio analitico, di cui viene auspicata l'integrazione con un approccio sistemico. L’idea che un sistema “complesso” non possa essere compreso mediante la semplice analisi delle sue singole componenti richiede, pertanto, l'interazione tra quella stessa singola componente ed una visione d'insieme. È questo il senso compiuto di quella “epistemologia della complessità”,  teorizzata ed elaborata  da Edgar Morin a partire dai primi anni '70 del Novecento, da cui muoveranno tutti quegli studi scientifici che non vorranno prescindere da questa categoria e le cui applicazioni spazieranno dalla fisica all’economia, sino agli studi di “sociologia evolutiva” sui fenomeni di auto organizzazione nel rapporto tra i singoli organismi ed un insieme organico, supportati  da tutte quelle ricerche (come quelle di John Conway) tendenti a dimostrare come, poche regole fissate per un ridotto numero di individui, possano condurre a complesse evoluzioni, avvalendosi dell’informatica, attraverso la creazione e l’elaborazione di ambienti artificiali, quali i cosiddetti automi cellulari ed i sistemi adattivi complessi o CAS (complex adaptive systems), attraverso i quali studiare il comportamento di sistemi più vasti ed articolati, quali, nella fattispecie, quelli viventi. Questo filone di ricerca, ha dato un suo deciso contributo alla declinazione di concetti quali “auto-organizzazione”, “non linearità”, “eco-organizzazione” (termine caro a Bateson e Morin) e “comportamento emergente”, anche in alcuni ambiti della psicologia e della psicoanalisi. Di non secondaria importanza, il fatto che, da tutto ciò si vada prospettando una ricerca più approfondita sui meccanismi e sulle cause del passaggio dalla materia fisica inerte agli organismi viventi, prospettando, pertanto, una interdisciplinarietà, che non può assolutamente escludere l’antropologia e la questione-cardine dell’ominazione. Ed anche qui, in ossequio ad una sempre più presente linea di tendenza, ci si va rifacendo ad una tendenza “deviazionista” rispetto al tram-tram evoluzionista e neo evoluzionista. Partendo dalle riflessioni dell’anatomo patologo olandese del primo Novecento, Louis Bolk, su “fetalizzazione” e “neotenia” (frutto dei suoi studi sull’anatomia dei Primati e sull’osservazione della salamandra-girino messicana “axolotl”), vanno innestandosi tutta una serie di riflessioni di tipo antropologico e filosofico che, in autori come Scheler, Plessner, Gehlen, Heidegger, Solterdjik ed altri ancora, trovano i principali interpreti, partendo e sviluppando le primeve intuizioni  del pensiero irrazionalista e vitalista, sviluppate da autori come Herder, Schopenauer e Nietzsche. In questi ultimi due autori, in particolar modo, la riflessione è incentrata su una straripante volontà di vita che sovrintende all’agire dell’essere umano. A farla da padrona, è l’idea di un mondo come “Chaòs”, all’interno del quale solo volontà e capacità di adattamento la fanno da padrone, determinando una complessa relazione tra Essere ed Io, tutta incentrata sulla capacità di sopportare, ma anche di vivere appieno l’irrefrenabile ciclo degli eventi che, di questo “Chaòs-Mondo”, costituiscono lo svolgimento. Da questa iniziale visione, si passa, da parte di tutti i rappresentanti dell’antropologia filosofica, all’immagine di un uomo quale essere carente rispetto agli altri appartenenti al mondo animale, la cui infanzia prolungata, da conclamata debolezza finisce per farsi punto di forza estremo, stravolgendo il paradigma evoluzionista incentrato sull’idea di un progressivo adattamento e miglioramento delle specie viventi, unicamente determinato da stimoli ambientali. Quella stessa energia vitale che, di un essere indifeso, in veste di vera e propria “scimmia nuda”, fa un qualcuno in grado di rapportarsi in posizione dominante nei riguardi della realtà esterna, arriva a disvelarne i più oscuri recessi dell’anima, facendone in tal modo un vaso comunicante, aperto in egual modo su ambedue le dimensioni del microcosmo e del macrocosmo. L’uomo si fa così, “animal simbolicum”, in grado di sintetizzare e di rappresentare a sé stesso ed agli altri la realtà, così come essa si palesa in tutti i suoi aspetti e, pertanto, di modificarne risolutamente i parametri. Questo fa, tra l’altro dell’uomo l’unico essere vivente, in grado di possedere una spiccata coscienza del “sé”, e della propria, umana limitatezza. Un fatto questo, a cui fa da contraltare la coscienza dell’esistenza di un onnipresente non-limite, che tutto e nulla sembra permeare di sé. Sin dagli albori della propria apparizione, la specie umana nasce dotata di una doppia percezione dell’essere: una rivolta alla dimensione del “sé”; l’altra verso l’infinito. Ne sono testimoni sia i manufatti delle varie civiltà succedutesi nel corso della storia più antica, istoriati con fregi e simboli che riportano costantemente alla rappresentazione esteriore dei cosiddetti archetipi dell’inconscio che, addirittura, i ritrovamenti di micro-tumuli litici a fini prettamente cultuali, in certi casi risalenti a ben ottantamila anni fa, a distanza siderale, quindi, dalla nascita ufficiale della cosiddetta “civiltà”. E così, a dispetto delle facilonerie e delle frettolose generalizzazioni di una scienza troppe volte superficiale e mediatizzata, a trionfare è una visione “altra” del problema antropologico e delle sue implicazioni. All’insegna della oscura dimensione della “complessità”, si fa di nuovo strada un pensiero, la cui vicenda si credeva accantonata da consolatori ed illusori “soli dell’avvenire”. E’ la silenziosa rivincita dei pensatori vitalisti alla Vico, Goethe, Herder, Nietzsche, Schopenauer, Dilthey, Simmel, Bergson, Spengler, Husserl, Jung, Heidegger e di tanti altri ancora, che qualcuno si illudeva di relegare ai margini della storia e che, invece, sembra oggidì ritornare prepotentemente alla ribalta.