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Monsanto: go back to hell!

di Lorenzo Pennacchi - 27/05/2015

Fonte: L'intellettuale dissidente


Leggendo quest’articolo potreste credere di essere all’interno di un racconto dell’orrore. Tuttavia la vicenda, oltre ad essere reale, è anche dannatamente attuale. Nel frattempo, migliaia di persone staranno marciando in tutto il mondo contro questo diavolo della post-modernità: ognuno di noi dovrà fare presto la sua parte affinché venga ricacciato all’Inferno.
   

Il 24 maggio dello scorso anno, durante la giornata mondiale contro la Monsanto, migliaia di uomini e donne hanno marciato, in diverse parti del mondo, in segno di protesta contro questa multinazionale. A tutte quelle persone riunite in vista di un unico grande obiettivo, Vandana Shiva, una delle più significative esponenti del movimento ecologista, ha voluto mandare una lettera di solidarietà, nella quale risponde a tutti coloro i quali, ancora, si chiedono Perché Monsanto?, affermando che: «non abbiamo scelto noi di prendere di mira la Monsanto, è Monsanto che ha scelto di puntare alla nostra libertà del cibo e dei semi, alle nostre istituzioni scientifiche e democratiche, alle nostre stesse vite».

La storia di questa multinazionale iniziò nel 1901 quando John Queeny, dipendente di una casa farmaceutica, decise di fondare un’azienda chimica. La società, che prese il nome dalla moglie di Queeny, Olga Monsanto, diventò presto la prima produttrice statunitense di saccarina, instaurandosi, già negli anni Venti, tra le prime industrie chimiche americane. Dal decennio successivo, brevettò i policlorobifenili (PCB), delle sostanze tossiche per la Terra e dannose per l’uomo. I PCB, a seguito di diversi disastri verranno successivamente banditi prima negli Stati Uniti (1977) e poi in Italia (1983), ma i danni permangono tutt’ora: Brescia ed Anniston sono i due esempi maggiori in questo senso. Tra le altre cose, Monsanto fu, assieme ad altri attori (tra cui la Dow Chemical Company), la maggiore produttrice del defoliante generalmente conosciuto comeAgent Orange, causa di danni irreparabili (agli uomini e al Pianeta), che nessun risarcimento potrà mai sanare, aggravati dal fatto che le industrie in questione, pur consapevoli della pericolosità del prodotto, continuarono a rifornire l’esercito americano. Comunque, al di là di tutto e tutti, la Monsanto, dopo essersi inserita nell’universo agricolo (anni Sessanta), continuò la sua escalation, giungendo al settore delle biotecnologie applicate all’agricoltura negli anni Settanta. Oggi, con circa 18.000 dipendenti e un fatturato di 8,5 miliardi di dollari, è la più grande produttrice di sementi transgenici (OGM) al mondo.

Anche grazie alla sua storia, non certo idilliaca, la Monsanto è divenuta nell’immaginario collettivo (dei contadini e degli attivisti) una sorta di diavolo, da dover ricacciare all’Inferno. Ma, le cause di quest’opposizione non sono tanto da ricercare nel passato, ma soprattutto nel presente. Quella che Monsanto propone, infatti, è un’agricoltura del tutto innaturale, dominata dagli OGM e dalle monocolture. Si può osservare come, in un mondo sempre più globalizzato, l’omologazione avvenga anche nel settore agricolo, tanto che, secondo i recenti dati della Food and Agriculture Organization (FAO), dodici varietà di piante e cinque specie animali sono la fonte di circa il 75% del cibo nel mondo. A farne le spese, è soprattutto la biodiversità del Pianeta, la quale, sempre secondo la FAO, dal 1990 è stata ridotta di tre quarti. A fronte di false promesse, riguardo l’aumento dei raccolti (verificatisi in un primo momento, ma causa di siccità e aridità del terreno successivamente), le persone non se la cavano meglio, sia da un punto di vista salutistico (gli OGM possono provocare tumori, infertilità e difetti di nascita) che economico. Nella lettera inizialmente citata, così si esprime Vandana Shiva riguardo Monsanto: «In India controlla il 95% del mercato dei semi di cotone e ottenendo dei superprofitti attraverso le royalties ha intrappolato i nostri piccoli agricoltori in una spirale di debiti impossibile da estinguere. 284.000 contadini si sono suicidati in India a causa dei debiti legati alle sementi e ai prodotti chimici». Una situazione del genere rischia di verificarsi in Africa dove, però, la multinazionale statunitense sta trovando forti opposizioni comunitarie, sostenitrici delle coltivazioni locali e naturali, nelle quali risiedono molte speranze per la tutela della biodiversità. Negli USA, dove Monsanto controlla letteralmente il cibo, è stato introdotto al Congresso un disegno di legge chiamato The Food Labelling Act, che si è guadagnato il nome di Dark Act, data la sua segretezza, che impedisce agli americani di sapere cosa mangiano. Sempre alla ricerca di nuovi Paesi da devastare per accrescere i propri profitti, Monsanto si è vista sbattere la porta in faccia dall’Europa più volte, ma le discussioni attorno al Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP), lasciano tutt’altro che sereni i contadini ed i comuni cittadini del Vecchio Continente.

Al contrario di quello che qualcuno potrebbe banalmente credere, questa vicenda riguarda tutti, visto che il destino della Monsanto è inversamente proporzionale a quello della Terra. Come nel 2014, nella giornata di ieri ed in quella odierna, migliaia di cittadini sparsi per il mondo hanno dimostrato pubblicamente il loro dissenso verso le politiche di questa multinazionale. Ma l’opposizione, lungi da divenire un rituale secolarizzato da ripetere meccanicamente ogni anno, deve essere dinamica, consapevole e continua: la marcia fisica diviene allora una metafora di quella morale, da perseguire ogni giorno attraverso scelte di vita responsabili, verso la Natura nel suo insieme. In questo senso, acquisiscono un peso ancora maggiore, le parole usate da Vandana Shiva, in chiusura della sua lettera: «L’avidità e la violenza di una società non possono essere autorizzate a distruggere la vita sulla Terra, la vita dei nostri contadini, la vita dei nostri figli. Ecco perché marciamo contro Monsanto».