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Palmira

di Franco Cardini - 27/05/2015

Fonte: Franco Cardini

 

Probabilmente quelli dello “Stato islamico” di al-Baghdadi ci sopravvalutano, hanno un troppo alto concetto di noi. Nella loro barbara ma lucidissima logica e nell’intento di provocarci e d’indignarci fino al punto di farci reagire alla cieca per dimostrare al resto dell’Islam sunnita che i “crociati occidentali” li odiano, dal momento che le decapitazioni non bastano adeso provano con le distruzioni di splendide, insostituibili opere d’arte. Non riusciranno nemmeno in tale intento. Ma, in attesa che ci privino di una delle Meraviglie del Mondo, riflettiamo: che cos’è Palmira, che molti italiani conoscerebbero se non le avessero preferito le Seychelles o le Mauritius?

Semplicemente una gloria del genere umano, un città ellenistica di assoluta bellezza e molto ben conservata. In Siria, tra Eufrate e Mar di Levante, s’incrociavano fino dall’antichità remota le vie commerciali che collegavano la Cina con il Mar di Levante (la “Via della Seta”) e quelle che dai porti meridionali della penisola arabica, dove approdavano le flottiglie provenienti dalla Indie, risalivano fino a Damasco per proseguire verso l’Anatolia (la “Via delle Spezie”, o “degli Aromi”). I romani conoscevano poco del subcontinente indiano, che fino dal tempo di Alessandro Magno i geografi avevano fasciato di fantastiche leggende, mentre i Seres, i cinesi, erano per loro poco più di un puro nome. Eppure le sete, i bronzi, le gemme, gli aromi pregiati per farne profumi e unguenti arrivavano in quantità sino al Caput mundi.

E tutto passava da quei fasci di piste carovaniere che convergevano in un’area ristretta fra gli odierni Libano, Siria e Giordania. Fungevano da collettori di essi alcune città-mercato, le “città carovaniere” ch’erano altrettanti città-stato retti da un’aristocrazia di mercanti-predoni di stirpe araba, come gli idumei, i sabei, i nabatei. Queste città carovaniere, che l’opulenza dei loro padroni aveva fatto diventare degli autentici capolavori dell’eclettica arte ellenistica, si chiamavano Baalbek, Jerash, Petra: e ancor oggi le loro rovine incantano, ci lasciano senza parole.

Ma Palmira, al centro di uno sterminato oasi dal quale prendeva il nome (Tadmur, “la città dei datteri”) era senza dubbio la più splendida. Il piccolo prospero regno che essa si era costruito attorno, “cuscinetto” tra l’impero romano e quello parto-persiani, assurse nel corso del III secolo d.C. a una tale fama e a una tale potenza che i romani, suoi confinanti occidentali, si resero conto di non poter fare a meno di conquistare se volevano dominare le vie carovaniere e assicurarsi la frontiera che guardava la loro grande avversaria, la Persia.

Era allora sovrano di Palmira l’abile e colto Odenato, che morì lasciando il regno nelle mani del figlio. Ma la vera padrona del potere era una donna, la terribile e affascinante Zenobia: una di quelle inquietanti figure femminili che hanno dominato il mito e la storia orientale antica – da Hautshepet alla leggendaria regina di Saba, a Semiramide, a Pentesilea, a Sofonisba, a Tomiri, a Cleopatra, fino alla stessa Giulia Domna moglie di Settimio Severo - tutte memoria, forse, di fasi arcaiche segnate dal matriarcato regale.

Contro l’autocratica signora che trattava da pari a pari i Cesari di Roma e i Gran Re di Persepoli dovette scendere in guerra l’imperatore Aureliano, il culto monoteistico-solare promosso dal quel trionfa anche negli stessi splendidi monumenti dell’arte palmirena. Zenobia, sconfitta nel 272, venne condotta a Roma dove rifulse come la preda più splendida del trionfo imperiale.

Da allora, Palmira si avviò lentamente sul viale del tramonto: che fu tuttavia lungo, perché ancora nel XII secolo il sultano Saladino l’arricchì di una formidabile fortezza. Più tardi dimenticata e ridotta a cava di pietre come altre sue consorelle, fu riscoperta nel secolo XIX grazie a scavi soprattutto inglesi e tedeschi. Fino a ieri, costituiva uno dei siti archeologici più noti e visitati del mondo. Il governo siriano manteneva in perfetto stato la sua area archeologica e aveva dotato il territorio circostante di ottimi alberghi e di eccellenti strutture turistiche. Ma nel 2011 il presidente francese Sarkozy e il premier britannico Cameron decisero che Bashar Assad era un dittatore da abbattere e appoggiarono a tale scopo i suoi oppositori armati, tra i quali forti erano gli jihadisti. Hollande seguì la linea di Sarkozy. Adesso abbiamo dinanzi agli occhi, a Palmira, gli esiti di tale dissennata politica: che naturalmente molti media occidentali cercano di attribuire al solo fondamentalismo islamico.

Palmira è stata difesa dalle milizie irakene sciita non governative di Muktada al-Sadr, capo del Hashd al-Shaabi, affiancato dai miliziani sciiti addestarti dall’Iran guidati dai generali Hadi al-Amiri e Falih al-Fayyadh nonché da Qassem Suleimani, leader delle forze sciite filoiraniane del cosiddetto “Asse della resistenza”, mentre l’esercito regolare siriano è ormai alle corde. Partita da Dair as Zur in Siria, l’armata del califfo al Baghdadi punta a sudovest verso Damasco, sulla via della quale si è ormai impadronita di Palmira, e a sudovest verso Baghdad, sulla via della quale si è impadronita di Ramadi a poco più di un centinaio di chilometri dalla capitale.

A Tadmur c’era un famoso carcere aperto da Hafez Assad, padre di Bashar: vi erano accadute cose orribili e Bashar l’aveva chiuso per riaprirlo però di nuovo. Ora, i miliziani dell’IS hanno liberato tutti i detenuti di quel luogo da incubo e stanno cercando i veri o presunti partigiani di Assad casa per casa.

E l’incubo avanza. Pare proprio che i finanziatori e sostenitori “occulti” (?!) del califfo al-Baghdadi siano ben decisi a consentirgli di prendere Damasco e Baghdad, nonostante si continui a blaterare che egli sia il nemico pubblico n.1 da battere. Perché a Damasco c’è ancora Assad, che almeno i francesi si ostinano a voler rovesciare in quanto filoiraniano, e a Baghdad c’è un governo sciita che senza dubbio guarda a sua volta a Teheran. Al vertice europeo di Riga si è parlato della necessità di reagire e si è rimandato il tutto al prossimo vertice di Parigi che sarà presieduto dal ministro degli esteri francese Fabius e dal segretario si stato statunitense Kerry. Si dice che perfino il presidente Hollande abbia cominciato a intuire quanto dissennata fosse la sua politica di appoggio indiscriminato ai ribelli nemici di Assad e intenda adesso favorire un colloquio tra le parti contendenti in Siria in vista del nuovo più terribile nemico. Intanto, pare che l’IS abbia cominciato a colpire i centri di culto sciiti nella stessa Arabia saudita. Ma Hollande, che continua a individuare un pericolo in quell’Iran con il quale il presidente Obama ha avviato trattative proficue, continua a mostrarsi orientato all’appoggio del fronte sunnita costituito da Arabia saudita, Qatar ed Egitto: il che significa in ultima analisi che egli preferisce appoggiare la fitna antisciita piuttosto che qualunque seria iniziativa volta contro l’IS. La voce di Obama è ragionevole ma debole, l’Inghilterra latita. Se il re dell’Arabia saudita, che ha sempre condotto nel suo paese una politica repressiva nei confronti della minoranza sciita, lascia ora che al-Baghdadi bombardi quei suoi già bistrattati sudditi senza reagire, che cosa si deve pensare? E quale potrebb’essere il quadro di un futuro Vicino Oriente caratterizzato da un IS che avesse occupato per intero Siria e Iraq? Chi sta colpendo il califfo con la sua avanzata, se non l’Iran e la potenze statunitense che su un accordo con l’Iran stava contando nel quadro di una pacificazione del Vicino Oriente? E quali conclusioni potremmo trarre da tutto ciò se non che è in atto una grave offensiva condotta dai paesi arabi sunniti che vogliono la fitna antisciita in funzione antiraniana, con il benevolo appoggio di Francia e Inghilterra e magari di Turchia e Israele, nonché ovviamente del congresso degli Stati Uniti egemonizzato dai repubblicani neobushisti?

Alla fine di questo tunnel, c’è una prospettiva agghiacciante. Si sta preparando, nonostante Obama, un’offensiva contro l’Iran. Lo jihadismo è un falso nemico del cosiddetto Occidente; anzi, ne è un alleato. A questo punto non c’è che da sperare in una mossa di Putin. O da temerla, se egli ne sbaglierà intensità e carattere.

A PROPOSITO DEL TRICOLORE. LETTERA APERTA AI SUDTIROLESI

“Evviva il Tirolo – potenza del mondo Francesco II – vogliamo seguire; per mare e per terra – faremo la guerra la nostra bandiera – l’è gialla l’è nera; il vostro reuccio – alto un metro e trentotto lo giocheremo al lotto – farem terno secco” (canzone popolare dei tirolesi italofoni durante le guerre antinapoleoniche)

Non me ne vogliano i miei carissimi amici altoatesini d’origine austrotedesca - che io preferisco chiamare, com’essi stessi si definiscono, sudtirolesi - se nell’attuale Fahnenstreit a proposito della bandiera dello stato cui essi stessi a torto o a ragione appartengono (e che non è la loro bandiera nazionale) io mi schiero, com’è mio dovere di cittadino italiano e di funzionario statale fedele al mio giuramento, a fianco delle autorità della repubblica italiana.

Che non lo faccia volentieri, è un fatto che chi mi segue ben conosce e che non ho mai nascosto. Ritengo la stolida filastrocca “E la bandiera dei tre colori – l’è sempre stata la più bella - noi vogliamo sempre quella” con quel che segue esteticamente parlando bugiarda, storicamente parlando ingiusta e sbagliata, concettualmente parlando antipatica. Da buon toscano autentico, sono e resto un fedele suddito asburgo-lorenese: nel mio cuore sventolano i vessilli bianco-rosso e nero-oro. Non amo d’altronde le bandiere d’origine giacobina, quale appunto è quella verde-bianco-rossa; ed è noto che da parte mia avrei preferito che quella delicata questione storica che è il Risorgimento italiano si fosse risolta a metà Ottocento grazie a un più oculato e sistematico uso dei fucilieri di Boemia, con relativo differente esito delle battaglie di Solferino e di San Martino e infine la vittoria di un’Italia unita sì, ma secondo il modello federale suggerito dal grande Cattaneo ch’era certo meno comodo per gli interessi francesi prima e inglesi poi al servizio dei quali si pose la compagine savoiardo-garibaldina, ma ben più fedele alla storia policentristica della penisola. Quanto alla prima guerra mondiale, la ritengo una sciagura per il mondo in generale, per l’Europa in particolare: ma sono convinto che, una volta purtroppo scoppiata, il giusto posto dell’Italia sarebbe stato l’allinearsi a fianco degli imperi centrali, nel fedele rispetto del patto della Triplice Alleanza. E so benissimo che all’atto della cattiva pace di Versailles vi è stato fatto un torto per compiacere al senso di rivalsa di “vincitori” – gli italiani – a loro volta poco stimati e considerati, ai quali si negavano terre davvero italiane in Istria e in Dalmazia per remunerare i serbi, meritevoli di aver sia pure indirettamente provocato il conflitto. Così, contro il “principio di nazionalità” pur affermato dal presidente Wilson, vi vendettero a un paese che non vi voleva e che non vi apprezzava. Si può ammettere che il Tirolo meridionale sia “Italia” dal punto di vista orografico e idrografico: non lo è da quello geostorico-etnografico. A ciò va aggiunto che quell’angolo di mondo tra Bolzano e Salisburgo è uno di quelli ai quali io sono più affezionato al mondo; che Innsbruck è una delle mie città preferite dove, se potessi, abiterei tanto volentieri; e che mi piace l’indole tirolese, riservata e allegra, austera e gentile, “germanica” con quel tanto di mediterranea Schlamperei che i viennesi magari non apprezzano, ma che a me pare adorabile.

Hanno inoltre molta ragione, a mio avviso, quanti hanno osservato che sarebbe ora di farla finita con al lettura conformistica e patriottarda del Ventiquattro Maggio: che non fu per nulla un giorno da ricordare festosamente. L’Italia entrò, calpestando le alleanze che si era scelta –e che ne avesse qualche formale motivo cambia poco -, in una guerra tragica e scellerata, la vera tomba d’Europa. In un giorno come quello, ci si dovrebbe limitare all’austero ricordo di tutti i caduti. E aggiungo che personalmente abolirei qualunque celebrazione della “Vittoria”, sostituendola semmai con quella per la pace faticosamente riconquistata nel 1918 dopo quattro anni d’infame massacro. Le guerre le perdono tutti: salvo i profittatori.

Ciò premesso, cari amici, a proposito dell’esposizione della bandiera il 24 maggio c’è una disposizione dello stato. E, in quanto cittadini dello stato italiano, la bandiera tricolore è il mio come il vostro emblema: quello che rappresenta la nostra identità istituzionale e i nostri diritti civili. Potete anche non amarlo, potete anche giudicarne inopportuna l’esposizione in determinate circostanze : ma qui non si tratta né di radici storiche, né di opzioni etico-culturali e tanto meno sentimentali.

E’ vero: lo stato al quale appartenete è collegato a una nazione che non è la vostra. Il progetto di ricondurre tutti gli stati allo stato-nazione, per quanto in teoria sia trionfato nel 1918, è immediatamente fallito: e non c’è stato attuale che non abbia “minoranze allogene”. Si sono fatti molti tentativi, sempre ingiusti e sbagliati, per correggere questa realtà obiettiva perseguendo progetti forzosi di “assimilazione” o di “integrazione”: e sono sempre falliti. Voi conoscete meglio di me gli esiti dell’arroganza fascista, che obbligava da voi gli Schneider a scegliere tra il cognome “Sarti” e il cognome “Snaidero”, e che negava perfino il diritto d’incidere in tedesco le lapidi funerarie: il risultato fu che molti dei vostri padri e nonni preferirono finire in bocca a Hitler.

Eppure, cari amici, oggi questo stato si è dimostrato vostro amico. Il vostro statuto di regione autonoma è obiettivamente il più avanzato e generoso d’Europa: ed è anche grazie ad esso se voi abitate in una felice, prospera regione; se disponete di un contributo perfino per i gerani rossi ai vostri bei balconi di legno che piacciono tanto anche a me. La Spagna è stata molto meno generosa con baschi e catalani; l’Inghilterra ben più dura con scozzesi, irlandesi e gallesi; per non parlare della Francia, la peggiore di tutti con provenzali, bretoni e còrsi. O della Turchia rispetto ad armeni e curdi.

E allora, cari amici, custodite pure fedelmente nel cuore la vostra aquila nera, il vostro vessillo bianco-rosso, le insegne gloriose del libero Tirolo, la memoria di Andreas Hofer e i ritratti del Kaiser Franz Josef (ne ho uno anch’io, sulla mia scrivania). In passato, al tempo delle insorgenze antigiacobine, c’erano anche italiani che lottavano con voi e che in italiano accompagnavano le note dell’Inno imperiale, le belle note di Haydn (“Serbi Dio l’austriaco regno…”: per noi italiani fedeli all’impero, Serbidiola è restata a lungo una parola magica, un nome carissimo che impartivamo alle case, alle ville, alle barche e talvolta anche alle figlie). E magari lottate pure, con i mezzi democratici dei quali disponete, per l’indipendenza: per far sì che un giorno nel quadro dell’Europa unita voi possiate riunirvi alla madrepatria. Quel giorno, vi prometto che verrò a festeggiare con voi e con la mia cara amica Eva Klotz.

Ma fino ad allora, voi siete cittadini dello stato italiano: che non è un ente né nazionale né culturale, bensì politico, istituzionale, amministrativo. Il presidente della vostra regione è un funzionario dello stato italiano e ne ha tutti i doveri: incluso quello del leale rispetto dovuto alle insegne dello stato. I vostri splendidi atleti, quando trionfano sui campi innevati, lo fanno nel nome del tricolore che rappresenta lo stato del quale sono cittadini. La vostra bellissima regione è così prospera anche grazie al trattamento privilegiato che lo stato italiano le riserva: e, se ne accettate i privilegi economici e amministrativi, non potete poi voltar la schiena ai relativi doveri.

E’ uno stato, il nostro, che non mi soddisfa: ma che, dopo molte lotte e molti errori (e al tempo degli attentati ai tralicci io, giovane dirigente del MSI, litigavo ferocemente con chiunque definisse “terroristi” i vostri patrioti combattenti e invitavo i loro detrattori a spiegarmi la differenza tra loro e i partigiani del ’43-’45 che essi osannavano), da decenni riconosce pienamente i vostri diritti, la vostra cultura, la vostra autonomia. Voi non amate l’Arco della Vittoria di Bolzano, e sta bene: ma quello è un segno della storia, e la storia non si cancella (per la stessa ragione noi toscani abbiamo conservato i monumenti dei nostri granduchi asburgo-lorenesi). La fedeltà al vostro stato, che è quello italiano del quale il tricolore è simbolo, è un vostro dovere.

Voi non siete miei compatrioti, carissimi: ma siete miei concittadini e temo per voi che continuerete ad esserlo vi piaccia o no a lungo. Siatelo lealmente.

Del resto un comune Grossvaterland ce l’avremmo: l’Europa. Peccato che per il momento essa sia solo l’Eurolandia, questa miserabile caricatura che non è degna dei nostri sogni e dei nostri ideali (e l’ha dimostrato anche recentissimamente, palesandosi impotente a fornire una soluzione decorosa al problema dei migranti e lasciando praticamente sola l’Italia). Comunque, per quanto vi riguarda, che la vostra Heimat sia il Tirolo e il vostro Vaterland l’Austria, è vero: ma siete con noi, nostri concittadini, all’interno del Grossvaterland europeo. Ne condividete i doveri, ne avete largamente goduto i vantaggi. Questo, noi non vogliamo e voi non potete dimenticarlo.