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A quale dimensione appartiene il mondo pauroso dei ragni giganti?

di Francesco Lamendola - 03/06/2015

Fonte: Arianna editrice


 



Nel suo libro «Grandi avventure di caccia» (titolo originale: «Hunter’s Choice»; traduzione dall’inglese di Paolo Celeste Gajani, Milano, Garzanti Editore, 1959, 1974, pp. 268-275), Alexander Lake, già noto per un altro libro di analogo argomento, «Caccia grossa in Africa», racconta un episodio impressionante relativo al mondo della stregoneria.

L’autore, uno scozzese-canadese nato negli Stati Uniti, ma vissuto per molti in Africa praticando l’attività di cacciatore professionista, uomo dotato di molto spirito pratico e niente affatto incline alle fantasticherie, riferisce, in questo caso, un episodio non accaduto a lui personalmente, ma raccontatogli da un suo conoscente, il dottor Clifford Nance, un antropologo che si era recato in Africa appunto per studiare la stregoneria.

Nance aveva fatto conoscenza con uno stregone zulù di nome Sukumbana, ma che preferiva farsi chiamare Tony; questi era un uomo dall’aspetto sinistro, addirittura cadaverico, ma che aveva mostrato in diverse occasioni di saper predire il futuro con sorprendente esattezza, mediante il getto delle ossa. Interrogato su come fosse in grado di leggere nel futuro, aveva spiegato che, quando gettava le ossa, egli non vedeva più il mondo materiale, ma il suo spirito (ehlose) penetrava nel Buco e lì, in una dimensione “altra”, poteva parlare con quello di colui che gli chiedeva la previsione; in tal modo era capace di descrivere eventi non ancora accaduti.

Una volta, per scherzo, il dottore bianco gli chiese se anche il suo spirito sarebbe stato in grado di penetrare oltre il Buco. Lo stregone, serio, replicò domandandogli, a sua volta, quali cose avrebbe voluto sapere, se ciò fosse accaduto; e lui, sempre scherzando, gli rispose che avrebbe voluto  parlare con un ragno.

Lo stregone allora gettò le ossa, poi condusse il suo compagno ai piedi di un albero, dove lo invitò a respirare profondamente e a visualizzare, col pensiero, un ragno di dimensioni enormi.  Sentendosi un po’ stordito, ma, all’inizio, sempre pensando a uno scherzo, il bianco fece come gli era stato detto e, quasi subito, gli apparve l’immagine di un ragno dalle zampe lunghe trenta centimetri. Poi, su istruzioni dello stregone, riprese a respirare profondamente e a sottoporsi a una specie di auto-suggestione ipnotica, dopo di che si sentì molto stanco e venne accompagnato nella propria capanna, dove immediatamente si distese sotto le coperte. Mentre stava per addormentarsi, udì lo stregone dirgli che tra poco il suo spirito avrebbe attraversato il Buco e avrebbe incontrato la Madre di tutti i ragni, che lo stava aspettando. E così fu.

Lo stregone uscì dalla capanna, spegnendo la candela, e lo studioso si addormentò. Fu risvegliato dal fischio del vento e si trovò in una baracca di lamiera, nel deserto del Kalahari. Una forma umana vi penetrò, seguita da due ombre indistinte, simili a due macchie scure. Il visitatore misterioso era un vecchio dal corpo magrissimo, incartapecorito, con gli occhi infossati e gli abiti che gli cadevano grottescamente dalle membra; non appena entrato, si mise a cercare negli angoli della baracca e ad emettere una specie di richiamo. All’inizio, l’uomo bianco non era spaventato, tanto che fece una battuta riguardo al fatto che il vento avrebbe potuto portarsi via l’indigeno, data la sua impressionante magrezza. Ma ben presto la scena divenne simile a un incubo. Da sotto la branda emerse un ragno peloso, orribile, grande almeno il doppio del ragno più grosso esistente in natura, tanto che Nance balzò istintivamente su una sedia.

Il vecchio, allora, afferrò la bestia e se la portò alla bocca, affondandovi i denti giallastri e succhiandola avidamente, finché non l’ebbe interamente prosciugata; poi ne gettò a terra il cadavere rinsecchito. Sempre più terrorizzato, il bianco fece per prendere la maniglia della porta e fuggire, ma si sentì afferrare da una mano robusta. Il vecchio non era più tale: era un giovane uomo grande e forte, che lo rimproverava per aver voluto attraversare il Buco senza una ragione e gliene chiedeva conto. Lo studioso balbettò che aveva creduto trattarsi di uno scherzo; l’altro rispose che anche per lui era stata la stessa cosa, e adesso era costretto a vagare così, come uno spirito maligno, schiavo di Gita ed eternamente condannato a nutrirsi del sangue dei ragni giganteschi; e aggiunse che lo stesso destino attendeva anche il suo interlocutore.

Ciò detto, l’indigeno gli ordinò di seguirlo e lo condusse fuori, tra le dune sabbiose. Il vento era cessato; il bianco si dava degli schiaffi e dei pizzicotti per tentare di svegliarsi e avvertiva il dolore sulla pelle, ma non si svegliava e ne dedusse che non stava dormendo, ma stava vivendo una esperienza assolutamente reale. Era notte e la luna appariva e scompariva fra le nuvole. A rendere la situazione ancora più angosciosa, la seconda ombra che era penetrata nella baracca, ossia un altro ragno gigante, seguiva i due uomini come un fedele accompagnatore.

A un certo punto, l’africano costrinse l’altro a entrare in una buia caverna, ove stagna un pesante odore di acque marce e vegetazione putrefatta. Infine i due giunsero in un immenso salone naturale, rischiarato da una luce fosforescente e popolato di serpenti e di lucertole; e il bianco fu abbastanza lucido da riconoscere le specie cui appartenevano e da comprendere che, adesso, dovevano trovarsi nella regione dei monti Bambuto, nel Camerun (ma Alexander Lake dice, erroneamente, «in Nigeria», a meno che si tratti di un errore dello stesso Clifford Nance), ossia ad una distanza di molte migliaia di chilometri dal Kalahari.

Topi, rospi e altri animali ributtanti erano acquattati ovunque; ma soprattutto c’era un pauroso formicolare di ragni giganteschi. L’accompagnatore del dottore ricominciò a trasformarsi, il suo corpo a rinsecchirsi e a tornare quello di un vecchio esangue, con i vestiti che gli si afflosciavano sul busto e sulle gambe scheletrici. Allora afferrò il ragno che lo seguiva, se lo portò alle labbra e lo succhiò avidamente, per recuperare la forza e la giovinezza.

Altri esseri umani, o tali almeno all’apparenza, si aggiravano nella penombra e, di tanto in tanto, afferravano dei ragni, per succhiare loro il sangue. Quando i due uomini giunsero davanti a un ragno enorme, dalle zampe lunghe più di un metro, che all’inizio il bianco aveva scambiato per una roccia, si fermarono e la sua guida se ne andò, dicendogli di averlo condotto alla presenza di Gita. Il mostro lo fissò negli occhi, respirando; l’uomo, da parte sua, si percosse e si graffiò con tutte le sue forze, sino a far sprizzare il sangue dal naso e macchiarsene la camicia, ma senza ottenere l’effetto sperato di svegliarsi.

A questo punto avvenne la scena più impressionante, anche per il valore precognitivo che, in seguito, avrebbe mostrato di possedere. Alcuni demoni in forma umana si fecero avanti, portando il cadavere di un indigeno, con il volto nascosto da una maschera di tela verde. Lo deposero ai piedi di Gita e questi si avvicinò, come per squarciarlo con il suo becco. Allora l’uomo, inorridito, urlò che voleva vedere la faccia del morto; e Gita fece un balzo indietro, restando poi come in attesa di qualcosa, forse in ascolto di un suono che si rivelò, infine, il clangore di un esercito di granchi di terra corazzati, che avanzavano a migliaia.

Tutti quei granchi si accostarono al cadavere, con le chele protese, poi iniziarono l’orrendo banchetto, ciascuno strappando un pezzo di carne e portandoselo via per divorarlo con comodo; Gita, spaventata, era fuggita. L’uomo si ritrovò solo con il cadavere smembrato, disteso sulla sabbia, e con i granchi. Di nuovo egli gridò che voleva vedere la faccia del morto, perché gli sembrava di averlo riconosciuto e voleva averne la certezza.

Fu allora che l’uomo si risvegliò dal suo incubo - se di un incubo si era trattato - e vide la candela ancora accesa: ma era solo nella capanna, lo stregone non c’era più.

Passarono tre mesi e il dottore ricevette una lettera  da un amico, proveniente dal Camerun francese, che aveva organizzato una spedizione di cui faceva parte un giovane ottentotto chiamato Jim, che era il loro preferito come aiutante nelle battute di caccia. La spedizione si era inoltrata nella regione dei monti Bambuto, nel Camerun occidentale, non lontano dal confine con la Nigeria, ossia proprio quella “vista” da Nance nella grotta di Gita.

Mentre giaceva ammalato per le febbri, Jim era stato morsicato da un ragno gigante e, colto dal delirio, si era inoltrato sconsideratamente in una palude. Più tardi il suo corpo era stato ritrovato senza vita, quasi del tutto scarnificato dai granchi di terra. Confrontando le date, Nance si rese conto che la morte di Jim, da lui vista in sogno, era avvenuta esattamente ventotto giorni dopo la sua straordinaria esperienza onirica.

Questo episodio, che si inserisce nel contesto di una ricca letteratura relativa ai poteri straordinari degli stregoni africani, così come di quelli di altri luoghi remoti, quali la Nuova Guinea, o alle facoltà degli sciamani siberiani o amerindiani, è stato raccontato in maniera molto dettagliata, si badi, non da un turista inesperto dell’Africa o da un qualsiasi credulone, ma da uno studioso, che si rivolgeva, a sua volta, a un uomo che in Africa era vissuto per molti anni e che, in qualità di cacciatore, la conosceva molto bene, specie nei sue pieghe più lontane dalla “civiltà”.

La prima cosa che colpisce è il fatto che non sembra essersi trattato di un sogno, almeno nel senso comune del termine. In un sogno, per quanto realistico, il protagonista non cerca di svegliarsi, non si graffia e non si procura sangue dal naso, sporcandosi anche la camicia: questi sono gesti che si fanno quando si cerca di rimanere svegli e di non cadere addormentati, perché presuppongono una lucidità e una volontà di essere padroni di se stessi che è propria dello stato di veglia e non di quello di sonno. Inoltre sappiamo che la sonnolenza dello studioso non era naturale, ma indotta da una particolare tecnica di suggestione messa in atto dallo stregone.

Non sappiamo quanto tempo sia passato fra il momento in cui egli si è addormentato (usiamo questo termine per semplicità, ma probabilmente dovremmo dire: in cui è caduto in trance) e quello in cui si è “risvegliato” nella baracca di lamiera fra le sabbie del Kalahari. Il particolare della candela, che era stata spenta dallo stregone prima che questi uscisse dalla capanna, ma che era ancora accesa quando si è conclusa la “visione” notturna, potrebbe essere significativo: potrebbe indicare, per esempio, che vi è stata una discontinuità percettiva, nel soggetto, fra l’inizio e la fine della sua straordinaria esperienza.

Non è facile dire che ruolo abbia svolto il lancio delle ossa, da parte dello stregone, nell’insieme di quella che sembra essere stata una operazione di magia nera. Il protagonista era “aspettato” da Gita, il mostro, la Madre di tutti i ragni: questo gli era stato detto dal sinistro personaggio che lo accompagnava, lo spirito maligno costretto a cibarsi continuamente del sangue dei ragni per mantenersi in vita. Inoltre, lo stregone aveva accompagnato Nance ai piedi dell’albero e poi nella sua capanna, guidandolo in una serie di esercizi di respirazione e di auto-suggestione, assicurandolo che il suo viaggio oltre il Buco era stato accuratamente preordinato.

Si può pensare, quindi, che lo spirito maligno che ha guidato il protagonista nella caverna di Gita obbedisse a un ordine, o ad una invocazione, pronunciati dallo stregone stesso; e il ricorso all’ausilio degli spiriti maligni, è proprio della magia nera, una forma di magia che fa appello ai poteri delle tenebre e non a quelli della luce. Anche i luoghi attraversati nel corso del viaggio, e specialmente la caverna popolata da piante putrefatte e maleodoranti, nonché il pullulare di animali ripugnanti e il vagare di altri spiriti maligni assetati del sangue dei ragni (si tratta propriamente di sangue blu, o emolinfa) mostra essersi trattato di una esperienza infernale.

Gita, comunque, nel momento in cui stava per divorare il cadavere dell’indigeno Jim, mostrò un evidente terrore all’apparire dei granchi e si diede a fuga precipitosa: dunque non si trattava di un essere superiore e tanto meno soprannaturale, ma di una creatura soggetta alla paura, come lo sono le creature terrestri. La demonologia insegna che i demoni hanno paura delle forze divine: per esempio, nel libro deuterocanonico di Tobia, il diavolo Asmodeo, che insidia i mariti di Sara, fugge davanti al fumo del pesce e viene inseguito dall’arcangelo Raffaele, che lo incatena nel deserto dell’Egitto affinché non possa tornare indietro e nuocere ancora.

Gita, però, non fugge davanti alle forze del bene, ma davanti a dei semplici granchi, per quanto numerosissimi: ciò starebbe a indicare che l’ambito dei suoi poteri è molto limitato, se pure non si tratta di una semplice creazione mentale del dottore, rafforzata dalle onde mentali dello stregone: una di quelle proiezioni che in Tibet, come riferisce la viaggiatrice Alexandra David-Neel, vengono chiamate “tulpa”.

Giungiamo così all’aspetto più sorprendente dell’esperienza vissuta da Nance, ossia la visione del corpo di Jim divorato dai granchi, evento che è realmente accaduto, ma quasi un mese più tardi. Anche i ragni c’entrano con la morte di Jim, perché il delirio in cui egli cadde, precipitandosi nella palude in cui avrebbe trovato una tragica morte, era stato dovuto al morso di un ragno gigante; e Jim, prima di essere spolpato dai granchi, era stato condotto alla presenza di Gita, una specie di genitore o prototipo ideale di tutti i ragni realmente esistenti.

Le barriere del tempo e dello spazio sono dunque cadute, per mostrare un evento che non si era ancora verificato e che avrebbe avuto luogo a una immensa distanza dal luogo in cui il soggetto si trovava; peraltro, la baracca in mezzo al deserto del Kalahari era anch’essa lontana dal villaggio dello stregone, anche se molto meno dei monti Bambuto. Sembra, pertanto, che lo spirito del soggetto, il suo “ehlose”, si sia trovato in condizioni di poter vagare liberamente fuori dei limiti del mondo fisico; anche se i suoi ripetuti tentativi di “svegliarsi”, graffiandosi a sangue, starebbero a indicare una esperienza vissuta anche con il corpo e, perciò, anche sul piano fisico; peraltro sarebbe interessante sapere se il dottore, al risveglio, aveva effettivamente la camicia sporca del proprio sangue, così come l’aveva vista nella caverna di Gita.

Ora, noi sappiamo - e anche gli studi e le teorie più recenti della fisica tendono a confermarlo - che il passato e il futuro non sono dei “tempi” reali in se stessi, ma sono piuttosto quella porzione del tempo che sfugge alla nostra visuale, o perché “indietro”, o perché “avanti” rispetto ad essa; non è pertanto impossibile, teoricamente, averne contezza, purché si trovi il modo di uscire dal limitato angolo visuale del qui ed ora e ci si innalzi ad una visione superiore, capace di abbracciare tutti gli eventi in un unico presente.

È quello che fanno i mistici, i veggenti e le persone dotate di facoltà medianiche ed è quello che fanno gli stregoni e gli sciamani, mediante precise tecniche di preparazione spirituale e di concentrazione mentale. I nostri bravi seguaci dello scientismo e del neopositivismo credono, erroneamente, che a tale sfera di esperienze corrisponda una sorta di tuffo nell’irrazionalità, mentre esistono delle modalità ben precise e sperimentate per accedere agli stati supernaturali di coscienza, tecniche le quali, a loro modo, costituiscono una forma di scienza.

Naturalmente, ciascuno di quanti riescono ad accedere alla sfera del superconscio, lo fa secondo il proprio livello di consapevolezza e di maturità spirituale. Al gradino più basso si colloca il praticante della magia nera, che si serve di tecniche e rituali, facendo ricorso alle forze infere; al di sopra di lui, ma sempre a un livello alquanto basso, ci sono i fachiri e tutti quelli che si servono di tecniche particolari, ma senza spiritualità, mossi dal desiderio di esercitare un potere, di conquistarsi un nome, di guadagnare denaro.

Poi ci sono i medium naturali, taluni dei quali si prestano alle sedute spiritiche e ad altre forme di esercizio malsano e imprudente di una vana curiosità: perché si evocano entità delle quali poco si conosce, ma che, se si prestano a rispondere alle evocazioni di simili interpellanti, certamente non appartengono ad un genere evoluto e benevolo, ma, per usare un eufemismo, non solo quel che dicono di essere. Anche i praticanti del cosiddetto “chanelling” (o canalizzazione), credendo di affidarsi all’azione benefica di supposti “spiriti-guida”, aprono le porte a una forma di possessione, che possono dirsi fortunati se non si rivela di natura minacciosa e durevole.

Gli studiosi che fanno esperimenti con animo puro, mossi unicamente dal desiderio della conoscenza disinteressata e, nello stesso tempo, sorretti da un alto senso morale, si collocano un gradino più in alto; mentre di gran lunga al di sopra di tutti vi sono i mistici veri e propri, i quali, pur se abituati a lunghe veglie, preghiere e meditazioni, non mettono in opera delle tecniche, ma accedono ai livelli superiori della realtà per mezzo della fede e dell’abbandono al divino: cioè, per adottare il loro punto di vista e il loro modo di esprimersi, come un dono che ricevono dall’alto e non come il risultato di una loro azione autonoma e indipendente.

Ora, la filosofia del mago è basata proprio sulla convinzione che sia possibile accedere ai livelli superiori mediante la propria volontà, la propria conoscenza, la propria audacia intellettuale e per mezzo di tecniche appropriate, di origine umana e non soprannaturale, ma, semmai, preternaturale. Ed è quello che sembra aver fatto lo stregone degli zulù, nella storia riferita da Alexander Lake.