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Dal consumo critico alla critica del rifiuto

di Marino Ruzzenenti - 20/10/2005

Fonte: saveriani.bs.it

 

LA FORZA DISTRUTTIVA DEL NOVECENTO

È nel corso del ‘900 che, a partire dalle grandi città, i rifiuti diventano un problema: la concentrazione abitativa, indotta dall'industrializzazione, e i ridotti spazi naturali in grado di riassorbire gli scarti determinano l'accumulo di rifiuti che devono essere espulsi fuori dal contesto urbano, collocati in buche o avvallamenti. Accanto agli scarti urbani, crescono anche le scorie industriali che seguono sostanzialmente la stessa sorte. Come è noto, questo processo si è incrementato a un ritmo impressionante fino ai giorni nostri. Si stima che oggi “in Italia la massa dei rifiuti solidi (urbani, minerari, industriali, agricoli e zootecnici) potrebbe aggirarsi intorno a 200 milioni di tonnellate/anno”. Di questi poco meno di 30 milioni di tonnellate/anno rappresentano i rifiuti urbani. Un quantitativo enorme e ingombrante che tradizionalmente è stato collocato in grandi buche, senza controlli, con grave pericolo per l'ambiente e con uno spreco di risorse.

IL PROBLEMA DEI RIFIUTI

La questione dei rifiuti urbani diventa un problema in Italia sul finire del ventennio fascista, quando per la prima volta il legislatore ne prende consapevolezza: “La raccolta, il trasporto e lo smaltimento dei rifiuti urbani assumono, nei riflessi dell'igiene, dell'economia e del decoro, carattere di interesse pubblico”, recita l'articolo 1 della legge 20 marzo 1941 n. 366, il primo provvedimento in materia.

Si dovranno attendere invece ulteriori 40 anni perché il legislatore si accorga dell'altro aspetto del problema, quello dei rifiuti industriali, i cosiddetti speciali. Basti rilevare il ritardo con cui si è affrontato (e ancor oggi tutt'altro che risolto) questo gravissimo problema destinato a produrre danni ingentissimi al patrimonio ambientale, ancora oggi poco conosciuti.

A partire dagli anni del miracolo economico era la crescente mole dell'immondizia che si riversava dalle città che impegnava gli amministratori: si trattava di trovarvi collocazioni adeguate anche facendo leva sul fatto che la gestione delle discariche comportava vantaggi economici per i privati interessati (non di rado, in certe regioni, la stessa criminalità organizzata), ma anche per gli enti locali che si disponevano ad ospitarle.

Del tutto marginale la preoccupazione che con i rifiuti si buttavano in un buco nero materie preziose e risorse non rinnovabili e anche sostanze pericolose. Erano ancora gli anni della fiducia cieca in uno sviluppo infinito e la crisi ecologica non si presentava ancora all'attenzione dell'opinione pubblica con la sufficiente evidenza.

ANNI '30: SPRECHI E RECUPERI

Anche in Italia, infatti, nella seconda metà degli anni ‘30, l'autarchia, a cui fu costretto il regime fascista dalle sanzioni seguite alla guerra d'Etiopia, ebbe alcuni sviluppi sorprendentemente innovativi, anche se più potenziali che reali a causa del successivo precipitare della situazione internazionale: riciclaggio, recupero, lotta allo spreco diventarono temi posti per la prima volta all'ordine del giorno della ricerca, dell'industria e della società italiane. Fu il caso del metodo brevettato dal dott. Enrico Gori-Carradori per la piena utilizzazione delle immondizie urbane e sperimentato, per la prima volta in Italia, a Novoli, nel cantiere della Nettezza di Firenze.

Sprechi e recuperi fu il titolo di un convegno tenuto in Torino nei giorni 23-24 e 25 giugno del 1939, promosso dall'Ente nazionale italiano per l'organizzazione scientifica del lavoro. Il convegno, il primo del genere organizzato in Italia, riunì oltre 600 tecnici industriali. Vi vennero presentate e discusse 200 relazioni all'interno di tre sezioni: 1. Aspetti generali della lotta contro gli sprechi e dell'azione per i recuperi. 2. Aspetti particolari e tecnici dei vari problemi con particolare riferimento agli sprechi e recuperi di materie prime, energia e materiali di consumo. 3. Utilizzazione razionale dei rifiuti cittadini.

Significativo, quindi, che, anche in occasione della XXVIII Riunione della Società italiana per il progresso delle scienze, tenutasi a Pisa l'11-15 ottobre 1939, si fossero discusse queste tematiche “inconsuete”. Di “recupero come mezzo autarchico” trattava la relazione di un illustre decano della chimica italiana, il prof. Livio Cambi, direttore dell'Istituto di Chimica industriale dell'Università di Milano: “Il recupero in generale di residui e rottami provenienti da manufatti che decadono dall'uso pratico. Il recupero nel ciclo di singole industrie, recante alla produzione di componenti secondari pregevoli, alla captazione ed elaborazione di sottoprodotti e residui comunque dispersi e trascurati; si considera anche il recupero dell'energia, inteso come nazionale organizzazione degli impianti termici ed elettrici delle nostre industrie”.

Ancora sui rifiuti urbani degno di nota era “il nuovo sistema biologico Bioflora, ideato dal dott. Dino Ernesto Alberizzi di Milano, nel 1940, che prevedeva l'utilizzazione dei residui di spazzature cittadine” per la produzione di quello che oggi chiameremmo il compost .

Questa cultura ispira anche la prima legge in materia, già citata, del 1941: “Tutti i rifiuti solidi urbani devono essere sottoposti, per quanto è possibile, a un trattamento tale che assicuri, nel miglior modo, ai fini dell'economia nazionale e della lotta agli sprechi, la loro utilizzazione industriale e agricola. In conseguenza può essere dispersa o distrutta soltanto quella parte dei rifiuti stessi che non costituisce, agli scopi accennati, materia recuperabile o apprezzabile. Nei Comuni aventi una popolazione non inferiore ai 50mila abitanti, è obbligatoria la cernita preventiva dei rifiuti”.

IL MODELLO DELL'OASI

E forse è anche un'eredità di questa cultura, comunque una necessità per un Paese povero di materie prime, lo sviluppo che ha avuto in Italia il riciclaggio industriale dei rottami di ferro che, in particolare nel secondo dopoguerra, con le mini acciaierie a forno elettrico, ha fatto la fortuna dei tondinari delle valli bresciane.

Tutte queste esperienze, da quelle degli emarginati del Sud del mondo a quelle di alcune società moderne per altre ragioni costrette a un'economia relativamente “chiusa”, pur con situazioni e caratteri diversissimi, si riconoscono in una comune ispirazione: la cultura del limite, delle scarse risorse disponibili. Una cultura che in verità apparteneva a tutte le antiche civiltà agricole e che si è conservata immutata, anche qui per necessità, in quel microcosmo particolare rappresentato dall'oasi, dove non vi è fisicamente spazio né per lo spreco, di acqua innanzitutto, né per i rifiuti. L'oasi, in questo senso, è anche un deposito di sapienza e di conoscenze tecniche: sorprendente, ad esempio, è il sistema complesso di raccolta e canalizzazione sotterranea delle gocce di umidità che ricadono al suolo e che alimentano il ciclo chiuso del microclima dell'acqua permettendo all'oasi di riprodurre la vita. Avrebbero da imparare assai gli stessi padani, colpiti nelle recenti estati torride dalla siccità in una delle regioni più ricche di acqua del mondo. MARINO RUZZENENTI

LA STRATEGIA DEI MUKURU (Kenya)

Sennonché, ai margini della società industriale o in alcune congiunture straordinarie, si sviluppa un atteggiamento delle popolazioni verso i “rifiuti” istintivamente in sintonia con i comportamenti della natura. Sono le popolazioni del Sud del mondo, escluse dallo sviluppo, che nelle periferie delle megalopoli vivono dei “rifiuti” della parte ricca e opulenta. Sono i formicai umani abbarbicati attorno alle grandi discariche a cielo aperto di Manila nelle Filippine, o di Korogocho a Nairobi, dove ha condiviso per anni le loro esistenze Alex Zanotelli, o delle favelas latinoamericane attorno a Salvador de Bahia, Rio de Janeiro, San Paolo di cui ci hanno parlato Leonardo Boff e Frei Betto. Una realtà non solo fatta di disperazione e di abbrutimento, ma anche di relazioni umane significative, di saggezza tecnica, di coesione sociale sorprendente, studiata da Serge Latouche in alcune periferie africane.

Alex Zanotelli, in Korogocho. Alla scuola dei poveri (Feltrinelli 2003), ci racconta la difficile, ma anche straordinaria esperienza dei mukuru, la gente della discarica di Nairobi, “migliaia di bambini, di donne, di uomini, che raccoglievano di tutto. Qui tutto è riciclabile, è riusato, rivenduto… Osservammo che, dopo aver raccolto i rifiuti, li rivendevano a mediatori che ci guadagnavano molto, mentre a loro rimaneva ben poco. ‘Possibile che non possiate mettervi insieme per formare una cooperativa che acquisti e rivenda?' È stato difficile, ma alla fine è partito il Mukuru A, cioè la prima comunità di mukuru. Una cooperativa e, insieme, una piccola comunità cristiana che riflette sulla Parola, che cerca di ridare dignità, di rimettere insieme le persone... Il Mukuru A è stato l'esperienza pilota. Oggi la cooperativa Mukuru Recycling Centre comprende tre realtà. C'è il Mukuru B, una quindicina di famiglie che recuperano i rifiuti direttamente alla fonte… C'è poi un terzo gruppo (Borea), quello dei rifiuti organici. Nella discarica di fronte a Korogocho ne arrivano tanti ed è nata l'idea di farne concime”.

Il bisogno e la penuria obbligano, quindi, a cambiare lo sguardo: ciò che i signori vedono come oggetto “consumato”, i poveri considerano ancora “da-consumare” e lo re-inventano, come l'artista, a nuova vita. Del resto forse qualcuno di una certa età ricorda l'urlo “strassì!” (con le varianti dialettali regionali) che risuonava nelle strade dei nostri paesi e città, con cui lo stracciaiolo richiamava l'attenzione delle casalinghe per raccattare rame, ferro, stracci, carta; attività di cui viveva lui e la sua famiglia.

 

LA SVOLTA ECOLOGICA
di marino ruzzenenti

Nella seconda parte del secolo scorso una nuova scienza fa la sua comparsa, raccogliendo le intuizioni degli indigenti, attraverso una rilettura del libro della natura: l'ecologia.

I primi anni '70 vedono l'esplosione di questa nuova cultura. Il Club di Roma, animato da Aurelio Peccei, pubblica nel 1972 il cruciale rapporto sui limiti dello sviluppo. I ricercatori del Massachusetts Institute of Technology , incaricati da Peccei, posero, per la prima volta in maniera chiara e documentata, il problema dei limiti della crescita esponenziale dell'economia mondiale, sia sul versante delle risorse naturali non rinnovabili, sia dell'inquinamento indotto nell'ambiente. L'umanità veniva richiamata alla realtà di un “mondo finito” (l'oasi, per l'appunto) con cui doveva prima o poi fare i conti, cercando di ricostruire uno “stato di equilibrio globale” con il Pianeta che l'ospitava.

LA LEGGE DELL'ENTROPIA

Un'analoga riflessione era stata sviluppata dal biologo americano Barry Commoner, nel suo Il cerchio da chiudere (1971) che metteva in rilievo come le scelte produttive e di consumo della minoranza che abitava i Paesi industrializzati spezzassero i cicli chiusi in equilibrio della natura: sia sottraendo quantità eccessive di risorse che la natura non era in grado di ricostituire, sia turbando quegli equilibri immettendo in ambiente inquinanti che la natura stessa non riusciva a “digerire” e degradare. Mentre il biologo statunitense allargava il suo sguardo per valutare l'attività umana nelle sue interferenze con la biosfera, il rumeno Nicolas Georgescu-Roegen, economista, nello stesso anno si accingeva per la prima volta a considerare alla base del sistema umano di valorizzazione mercantile della materia e dell'energia i processi biofisici, in particolare i principi della termodinamica, soffermandosi soprattutto sulla legge dell'entropia.

Questa legge ci ricorda che la materia /energia va irrevocabilmente da uno stato di ordine a uno stato di disordine, per cui in un sistema (quasi) chiuso come quello terrestre, l'uso delle risorse energetiche fossili e minerarie ordinate riduce irreversibilmente le risorse disponibili per il futuro: aumenta, cioè, l'entropia del sistema. I rifiuti, insieme alle emissioni e alle scorie, in questa visione “bio-economica”, sono il simbolo più evidente della trasformazione di materia ed energia a bassa entropia (le risorse naturali, rinnovabili e non, e quelle energetiche) in materia ed energia ad alta entropia. Quindi, concludeva Georgescu-Roegen, se si vuole consegnare alle generazioni future un pianeta ancora vivibile, è necessario innanzitutto ridurre l'entropia dell'attuale sistema economico. Questo fervore di elaborazione scientifica, in quel biennio davvero cruciale per l'affermarsi di una cultura ecologica, trova eco il 6 giugno 1972 a Stoccolma nella prima Conferenza delle Nazioni Unite sull'ambiente, in cui i governi di tutti i Paesi furono invitati a cercare una nuova politica capace di soddisfare i bisogni umani nel rispetto delle leggi della natura.

RIDUZIONE E QUALIFICAZIONE DEI RIFIUTI

Ai fini della nostra trattazione, il pensiero ecologista ha dato semplicemente veste scientifica a quanto intuitivamente gli uomini avevano da tempo compreso: lo stesso concetto di rifiuto va rifiutato se si vuole “chiudere il cerchio”; i cosiddetti “rifiuti” sono materia da far rivivere e non gettare, prolungando l'esistenza delle merci con la cura e la riparazione, limitando il “consumo” delle merci a quelle veramente necessarie, riutilizzandole il più possibile e infine riciclandole.

In questo senso, il punto di vista ecologista sui rifiuti si incontrerà necessariamente con quei settori del movimento “no global” che cercano di esprimere la loro solidarietà con le popolazioni emarginate del Sud del mondo attraverso pratiche di autolimitazione selettiva dei consumi. Del resto, se si vogliono riequilibrare i rapporti diseguali tra Nord e Sud del mondo, evitando il collasso ambientale del Pianeta, non vi è altra via che quella di una severa riduzione dei “consumi” nel Nord ipersviluppato, e ovviamente a maggior ragione dei “rifiuti”.

Se è un insulto alla miseria dei “dannati della terra” la bulimia consumistica del Nord opulento, ancor più sfacciato è lo spreco dei “rifiuti”. Diventare esperti di “consumo critico” per poi buttare i rifiuti nella pattumiera, con destinazione discarica o incenerimento, è in questo senso una contraddizione. Sia sul versante della riduzione e qualificazione dei consumi che dell'azzeramento dei rifiuti, si tratta di muoversi, in concreto, nella direzione di una “società della decrescita”, all'insegna del programma delle “6R”, come sostiene Serge Latouche: Rivalutare, Ristrutturare, Ridistribuire, Ridurre, Riutilizzare, Riciclare.

MARINO RUZZENENTI

LA CONVERSIONE ECOLOGICA
Giovanni Paolo II ha dimostrato grande attenzione e amore per l'ambiente e le questioni ad esso legate. In occasione della XXII Giornata Mondiale del turismo, il 26 giugno del 2002, il papa ha affermato: “Di fronte allo sfruttamento sconsiderato della creazione, originato dall'insensibilità dell'uomo, la società odierna non troverà soluzione adeguata, se non rivedrà seriamente il suo stile di vita”. La riflessione sul creato e sull'ambiente si fa accorata preghiera, a fronte di un uso tendenzialmente “consumistico” della natura: ne usufruiamo senza preoccuparci del futuro; usiamo e gettiamo; consumiamo e non riutilizziamo. Nell'agosto 2002 il Pontificio Consiglio Iustitia et Pax, pochi giorni prima del Vertice di Johannesburg, ha redatto un contributo di documentazione e riflessione sull'argomento. “Occorre sostenere e incoraggiare una conversione ecologica. La gente sta diventando sempre più sensibile alla catastrofe, verso la quale l'umanità si sta spingendo. Con questa conversione si potrà scoprire l'armonia originale: i beni della Terra saranno disponibili per tutti e non solo per pochi privilegiati”. Attraverso scelte responsabili, ragionevoli e sostenibili, la Chiesa è convinta che la Terra potrà tornare il giardino che era, se ciascuno si sentirà chiamato alla “conversione ambientale”. Perché davvero ne va del futuro di tutti.
 

RIFIUTI, NO GRAZIE!

DI MARINO RUZZENENTI

Da decenni, in sintonia con gli esclusi dallo sviluppo del Sud del mondo, alcune componenti del movimento ambientalista lavorano per contrastare la marea montante dei rifiuti: anche nel Nord del mondo possiamo e dobbiamo trasformarci tutti in tanti mukuru.

Il pensiero ecologico è del resto avvantaggiato: apprende il da farsi dalla natura che per nostra fortuna in centinaia di milioni di anni non ha mai prodotto “rifiuti” tutto ricomprendendo nei cicli chiusi della vita, attraverso quella sapiente “araba fenice” che va sotto il nome di biodegradazione.

N on mancano a questo punto le proposte e anche le pratiche realizzate, come importante è ormai la produzione di materiali e documenti che le raccolgono, anche se la discussione è stata particolarmente vivace a metà degli anni ‘90, in occasione dell'uscita del decreto Ronchi, mentre sembra essersi assopita proprio quando negli anni recenti si fa più aggressiva l'offensiva della lobby dell'incenerimento. Potremmo qui richiamare per linee essenziali le proposte in campo e le pratiche già sperimentate.

LA LOGICA DELL'ECOLOGIA

Innanzitutto va detto che il problema non può essere affidato semplicemente ai meccanismi del libero mercato. Poiché è proprio il mercato con la sua logica consumistica a produrre “rifiuti”, solo una logica “altra”, espressa dalla partecipazione consapevole dei cittadini, può essere capace di contrastare il mercato sprecone e di far fronte efficacemente al problema agendo nell'ambito territoriale in cui i “rifiuti” si producono e nel quale quindi devono essere “biodegradati”.

L'ecologismo, quindi, ha messo il naso nella pattumiera per vedere che cosa c'è, quali sono i materiali che compongono l'immondizia casalinga, esattamente come fanno i microrganismi decompositori con gli “scarti” della natura. Da qui nasce un impegno prioritario per la riduzione della produzione dei rifiuti. E diversi possono essere gli interventi capaci di disincentivare in maniera efficace la produzione di rifiuti:

l'introduzione della tariffa rapportata alla quantità e alla qualità dei rifiuti conferiti dal singolo nucleo familiare, sostituendo inuesto modo seriamente all'attuale tassa indifferenziata una tariffa che premi il cittadino virtuoso (meno rifiuti e accuratamente selezionati) e penalizzi il cittadino sprecone e disattento (molti rifiuti e non selezionati);

l'attuazione di un sistema di raccolta domiciliare “porta a porta” è un necessario e irrinunciabile corollario di una tariffa efficace e inoltre permette una capillare informazione, educazione e controllo della qualità della differenziazione dei rifiuti operata dai cittadini;

l'attivazione di un'opera di educazione ambientale diffusa, attraverso le scuole, ma non solo, incentrata sulla riduzione e sull'arte della riparazione, del recupero e del riuso, valorizzando le esperienze di cooperative locali no-profit che in quasi tutti i territori si muovono su questo terreno (rivendita di calzature e abbigliamento usato; recupero e rivendita di “roba vecchia”), promovendo iniziative culturali (mostra d'arte Trash ; mercato di oggettistica ricavata dai rifiuti);

la stipula di convenzioni con i supermercati per ridurre e recuperare gli imballaggi, anche impegnando le Centrali del latte comunali a distribuire i prodotti in “vuoti a rendere”;

l'attiva partecipazione alle iniziative del Conai per il recupero e il riutilizzo degli imballaggi;

la sperimentazione di iniziative volte al conseguimento di performance ambientali in aree caratterizzate da elevate presenze turistiche, all'insegna dello slogan che “godere di un paesaggio significa innanzitutto rispettarlo”, assegnando agli operatori virtuosi una sorta di eco-label .

IL MUKURU POSSIBILE NEL MONDO OPULENTO

È ormai dimostrato che la raccolta differenziata perché sia efficace deve abbandonare i cassonetti collocati nelle strade e basarsi sul “porta a porta” a domicilio. Una buona raccolta differenziata non solo è capace di conseguire importanti risultati in percentuale, irraggiungibili con i cassonetti, ma soprattutto evita di trascinare con sé l'aumento della produzione dei rifiuti, come capita sempre con il sistema dei cassonetti. Anzi una raccolta differenziata efficace deve abbinare sempre, in modo sinergico, un aumento della percentuale del rifiuto conferito preselezionato con una diminuzione del tot ale dei rifiuti, e ciò è concretamente possibile solo con il “porta a porta ”.

Il cassonetto, invece, rappresenta la discarica comodissima sotto casa, in cui si può far sparire senza costi aggiuntivi (anche da parte delle imprese) tutto ciò che si ritiene non più utile.

Lo conferma l'Agenzia del ministero dell'Ambiente, in un'indagine compiuta nel 2001 sui dati del 2000, mettendo a confronto i due sistemi in cui risulta evidente come il cassonetto porti al raddoppio del rifiuto conferito, rispetto al porta a porta:

MODALITÀ DI RACCOLTA

Produzione di rifiuto indifferenziato (kg/ab anno)

Domiciliare “porta a porta” 163-54

A cassonetto stradale 423-140

Ma il cassonetto, soprattutto, non permette una raccolta differenziata di qualità, funzionale cioè a un riciclaggio effettivo e pregiudica la possibilità di introdurre un sistema tariffario reale. Il cassonetto è la disperazione di chi vuol produrre un buon compost o riciclare una buona carta senza l'uso del cloro, o un vetro di valore, perché il cittadino irresponsabile è sempre lì in agguato a buttare plastica nel cassonetto dell'organico, o l'organico e il vetro in quello della carta.

Il “porta a porta”, invece, responsabilizza il singolo cittadino, lo induce ad evitare merci inutilmente ricche di scarti, lo educa al valore del “rifiuto” in vista del riciclaggio.

Differenziare il rifiuto, riusarlo e riciclarlo è un'arte, un'attività importante di altissimo valore culturale, sociale, ambientale e infine anche economico.

Per questo richiede applicazione e sapienza, e non esistono scorciatoie tecnologiche. Gli esperimenti compiuti di vaglio meccanico del rifiuto raccolto indifferenziato, o per mandare il residuo in discarica o per produrre il cosiddetto combustibile derivato dai rifiuti per l'incenerimento dimostrano l'inefficienza del sistema, non solo sul piano quantitativo, ma soprattutto su quello qualitativo. Queste tecniche si sono rivelate tutte, comprese quelle meno rozze delle campane differenziate in strada, un insuccesso: le varie frazioni separate sono troppo contaminate da altri materiali da risultare o invendibili o di qualità scadente e quindi poco remunerative.

È ormai chiaro che il riciclo si traduce in uno smacco (totale con il cassonetto unico, parziale con le campane differenziate) se si parte dai rifiuti misti o comunque parzialmente mescolati, così come si raccolgono nelle strade delle città con il sistema meccanizzato dei cassonetti e della campane.

Le varie componenti dei rifiuti sono riutilizzabili soltanto se sono raccolte separatamente alla fonte, cioè a domicilio, e nelle isole ecologiche presidiate dagli operatori, per poi essere trattate in appositi cicli produttivi. Ci vogliono insomma la mano e la testa dell'uomo e della donna e non c'è tecnologia meccanizzata e “intelligente” che possa sostituirli.

Così, se si raccolgono insieme tutti gli scarti di verdura o di carne, le foglie e gli sfalci di potatura, questo materiale organico abbastanza omogeneo può essere trattato con adatti batteri e può trasformarsi per via microbiologica in un compost di qualità, abbastanza buono come ammendante o concime. Si ottengono così due risultati virtuosi sul piano ambientale e su quello economico: un abbattimento di circa il 30% dei rifiuti urbani da trattare e un risparmio di concimi chimici, per il nostro Paese, in buona parte di importazione.

IL VETRO E LA PLASTICA

Ma anche per il vetro la modalità di raccolta, tanto praticata da noi, dell'unica campana è del tutto dissennata. Innanzitutto occorre una politica forte di riduzione attraverso la promozione del vuoto a rendere. È noto che in Germania si fatica a comprare una cassetta di bottiglie di birra se non si restituiscono altrettanti vuoti, ma a chi scrive è capitato, con una certa vergogna, qualcosa di analogo anche in Brasile o in Croazia, dove all'ingresso dei supermercati vi è il box per la consegna dei vuoti e il ritiro del buono per i nuovi acquisti. Inoltre bisogna tener presente che se il vetro commerciale di qualità è quello bianco, verde o marrone, in relazione agli usi, è necessario che la raccolta differenziata tenga conto di questo ed eviti quel misto di cocci difficilmente ricollocabile sul mercato (ancor più bisogna vigilare perché pegnando innanzitutto la domanda pubblica nel consumo di queste merci (ad esempio, obbligando l'editoria scolastica a utilizzare carta riciclata).

ESPERIENZE REALIZZATE

Su questa strada virtuosa vi sono già esperienze consolidate anche nel nostro Paese che vedono protagonisti centinaia di migliaia di cittadini, soprattutto in Veneto. I bacini Padova4 e Treviso3 comprendono poco meno di 307mila abitanti e hanno già realizzato nel 2001 traguardi di grande interesse, attuando un rigoroso “porta a porta” con tariffa puntuale: una produzione di rifiuti pro capite solo di 1,04 kg/giorno (quasi 30% in meno della media nazionale) e una raccolta differenziata spinta al 57,1%, che ora però ha abbondantemente superato il 60%. Ma anche il consorzio Treviso2 “Priula” (201.517 abitanti), nel 2002, si è attestato su una media di differenziazione che va dal 63,68% al 66%, rispetto a una produzione pro capite di 1,02 kg/giorno. I dati del Consorzio Priula (Treviso2) stanno a dimostrare come risultati di eccellenza si possano ottenere in pochissimo tempo: “I risultati in sintesi sono i seguenti, sempre considerando i 14 Comuni (circa 125mila abitanti) con sistemi a regime, rispetto ai 22 complessivi:

produzione di rifiuto totale: abbattimento da 54mila t/anno (2000) a 48mila t/anno (2002) [pari a poco più di 1 kg/abitante/giorno, la metà di Brescia, come vedremo];

produzione pro capite annua di rifiuto secco residuo: da 321 kg/abitante per anno (2000) a 128 kg/ abitante per anno (2002) [pari a 0,350 kg/abitante/giorno];

% raccolta differenziata: da 27% (2000) a 66% (2002);

rifiuti recuperati: da 14.700 t/anno (2000) a 31.600 t/anno (2002);

la sensibilità dei cittadini verso la tutela dell'ambiente si è accresciuta, effetto che si traduce in una maggiore attenzione nella raccolta differenziata (sia in termini di quantità sia di qualità), ma soprattutto in una maggiore consapevolezza nella fase di acquisto privilegiando prodotti con meno imballaggi o contenuti in imballaggi riciclabili”.

Un sistema, quindi, in evoluzione, che si proietta concretamente nella prospettiva di “zero rifiuti”. E in effetti nel 2004 è già stato ampiamente superato il 70% di raccolta differenziata. Il rifiuto “sprecato” pro capite al giorno è meno di kg 0,300.

MARINO RUZZENENTI

PRODURRE MENO RIFIUTI

Alcune proposte molto concrete e facilmente realizzabili, e in molti Comuni realizzate, hanno conseguito un abbattimento del 30% della produzione dei rifiuti: da oltre 1,30 kg/giorno pro capite, media nazionale, a circa 1 kg/g nel bacino Padova4, Treviso2 e Treviso3, dove è consolidato il “porta a porta” . È questo un risultato che si avvicina all'obiettivo indicato dall'Europa di 300 kg/anno, ovvero di kg/giorno 0,82.

La riduzione dei rifiuti sarebbe molto più importante, se la strategia sopra delineata venisse sostenuta da politiche coerenti su scala nazionale e internazionale: forti tassazioni sugli “usa e getta” per spingere alla loro eliminazione, ecoincentivi al “vuoto a rendere” e alla vendita dei prodotti “sfusi”, sostituzione delle plastiche, laddove è possibile, con materiali biodegradabili, e comunque semplificazione dei vari tipi di plastica in modo da favorirne il riciclaggio. Un esempio a questo proposito è la tassa di 15 centesimi di euro per ogni sacchetto di plastica introdotta nel 2002 dal ministro dell'Ambiente irlandese Martin Cullen che avrebbe ridotto del 90% il consumo di questi sacchetti in favore di borse riutilizzabili.

Inoltre una forte spallata alla produzione dei rifiuti potrebbe venire dal diffondersi di pratiche di “consumo critico” attente alla “critica del rifiuto”, cioè di acquisti intelligenti, che rifuggano lo spreco (gli imballaggi di confezione appariscenti, ma inutili, ingombranti e costosi; gli oggetti superflui; le merci non biodegradabili di fronte ad alternative amiche della natura; i prodotti che comportano la dispersione di sostanze tossiche e inquinanti). In questo senso “produrre meno rifiuti” è uno slogan oggi eversivo, l'esatto opposto dello slogan “l'economia gira con me”, che quotidianamente ci ha martellato da tutte le televisioni invitando al consumo comunque, perché “sono proprio i tuoi acquisti che fanno girare l'economia e, se l'economia gira, giri anche tu”.

Ciò che conta è che l'ambientalismo realizzato già oggi dimostra la praticabilità di una riduzione significativa dei rifiuti, che domani potrebbe essere anche molto più importante, avvicinandosi all'obbiettivo europeo di kg 0.82 al giorno per abitante.

CARTA RICICLATA

Qualcosa di analogo si può dire per la carta, il cui riciclo è reso più difficile dalle modalità di raccolta con gli appositi cassonetti in strada. All'interno di questi vi finisce di tutto, insieme alla carta che può essere utilmente riciclata con processi non troppo inquinanti, evitando ad esempio l'uso del cloro come sbiancante: cartoni (che andrebbero destinati a un riciclo specifico degli imballaggi), carte patinate (troppo contaminate da rendere impraticabile il riciclaggio e che quindi andrebbero evitate alla fonte), ma anche plastiche, vetri, rifiuto indistinto, gettati dagli “sbadati”.

La conseguenza di questo modo dissennato e approssimativo di raccogliere la carta è che buona parte del contenuto degli appositi cassonetti si traduce non in carta rigenerata, ma in un rifiuto speciale, detto pulper (contaminato di vernici, metalli pesanti e soprattutto cloro), che ritorna come un boomerang carico di maggiori difficoltà di trattamento (la destinazione può essere la discarica o l'incenerimento con i relativi effetti collaterali sull'ambiente). In altri Paesi, Germania, Svezia, Svizzera, mentre si cerca di contenere l'uso del patinato, la carta viene raccolta nelle case in sacchetti, sottoposti a severi controlli a campione, distinti per quella riciclabile o per gli imballaggi di cartone.

EOLICO E SOLARE

L'industria eolica mondiale ha conosciuto uno straordinario sviluppo nell'ultimo decennio passando dai 2.500 MW installati nel 1992 agli attuali 40mila MW, con una crescita annuale di quasi il 40%. L'Europa concentra il 75% della potenza installata, ma un significativo sviluppo si registra anche negli Stati Uniti, India e Cina. In Danimarca l'eolico soddisfa circa il 20% del fabbisogno elettrico e oltre il 5% si collocano anche Germania e Spagna. In Italia la crescita dell'eolico, dopo un buon decollo, ha incontrato resistenze e ha subito rallentato.

Pur se con valori assoluti ancora limitati, anche il settore del fotovoltaico ha avuto una grande crescita a livello mondiale negli ultimi anni, soprattutto in Giappone e in Germania. In Italia il fotovoltaico ha avuto un tasso di crescita molto inferiore alla media mondiale ed europea.

Anche il mercato del solare termico ha ripreso a correre con una crescita annua del 25%. La Germania nel solo 2003 ha installato 750mila mq di collettori vetrati (quasi il doppio di tutto il parco operativo in Italia), la Grecia ha superato i 2.800.000 mq di pannelli installati con una media di oltre 270 mq per mille abitanti e l'Austria ha superato i 300 mq per mille abitanti. L'Italia, che negli anni ‘80 era uno dei leader europei, sconta in questo settore un incredibile e immotivato ritardo.

Tratto da Ambiente Italia 2005
(Edizioni Ambiente, Milano)

 

IL BOOMERANG DELL'INCENERITORE
DI MARNO RUZZENENTI

Chi vede nei rifiuti solo un'occasione per fare affari, spinge per altre soluzioni, diverse dal mukuru . In generale l'Italia giunge in ritardo ad affrontare una corretta gestione del problema rifiuti e le esperienze virtuose del Veneto sopra richiamate rappresentano ancora un'eccezione. Dopo decenni all'insegna del “tutto in discarica”, si sta ora prospettando in diverse parti del Paese, in verità in quasi tutte le province, la “via tecnologica” dell'incenerimento, spesso denominata con un eufemismo, la “termovalorizzazione”.

Si pretende di aver già risolto il problema: l'immondizia “sparisce” e si trasforma in energia “pulita e rinnovabile”. Ma è davvero così, o siamo di fronte all'ennesima “trappola tecnologica” che, mentre ci “libera” dall'ingombrante pattume, crea, con effetti collaterali “imprevisti”, altre problematiche sgradite, ancor più insidiose?

Lewis Mumford, un padre del pensiero ecologista, descriveva la tecnologia del ‘900, quella ad alta entropia, come paleotecnica, in quanto basata sul presupposto ingenuo ed errato della disponibilità illimitata di risorse e della possibilità altrettanto illimitata di disperdere scorie, scarti, rifiuti ed emissioni. Una tecnologia ignorante e primitiva che, tuttavia, in nome del profitto a tutti i costi, si vuol insistere a perpetuare. Mumford auspicava che si affermasse finalmente la neotecnica, cioè una tecnologia all'altezza delle conoscenze ormai acquisite e consolidate sulla finitezza del Pianeta, sul prossimo esaurimento dei combustibili fossili, sull'impossibilità dell'ecosistema di sopportare uno sviluppo che distrugga energia e risorse

e accumuli in ambiente scarti ed emissioni, destinate queste ultime a produrre imprevedibili cambiamenti climatici, insomma un sistema fortemente entropico, come spiegava Georgescu-Roegen.

L'incenerimento dei rifiuti è un esempio chiaro di paleotecnologia ad alta entropia perché spreca e distrugge grandi quantità di materia ed energia “ordinata” e ancora utilizzabile, trasformandola in ceneri e polveri irreversibilmente inutilizzabili e contaminate e in emissioni gassose anch'esse inquinanti.

DUE MODELLI A CONFRONTO

Bisogna aggiungere che gli altissimi costi di investimento spingono alla costruzione di inceneritori di grandi dimensioni per le necessarie economie di scala. Quindi, passando da un inceneritore di 150mila tonnellate annue a uno di 800mila, i costi di investimento per tonnellata di rifiuto trattato si dimezzano.

Ma inceneritori di grandi dimensioni inevitabilmente spingono nella direzione opposta della riduzione del rifiuto urbano e del mukuru. Prendiamo in considerazione il caso di Brescia perché qui si trova il più grande inceneritore di Europa, che viene proposto in tutta Italia come modello. Il caso Brescia è esemplare di come l'inceneritore, associato al cassonetto di grandi dimensioni, non sia alternativo alla discarica, ma alla riduzione del rifiuto e a una raccolta differenziata spinta. Infatti la produzione giornaliera di rifiuto per abitante a Brescia ha ormai superato i 2 Kg, un vero record a livello nazionale, il doppio dei bacini “virtuosi” del Veneto, quasi tre volte l'obiettivo europeo,

Ma si dice: a Brescia si è raggiunto nel 2003 circa il 40% di raccolta differenziata. Già, ma il meccanismo dell'inceneritore fa sì che, mentre cresce la raccolta differenziata, lievita ancor più la produzione di rifiuti, per cui il rifiuto da smaltire negli ultimi anni ha registrato comunque un continuo aumento, vanificando di fatto la raccolta differenziata. Basti di nuovo il confronto con il “modello Veneto”.

A Brescia, detratto il 40% di raccolta differenziata abbiamo ancora al giorno un rifiuto da smaltire per ogni abitante pari a kg 1,200, addirittura superiore alla produzione di rifiuti del Veneto. Sottraendo a questo quel 25% di energia elettrica che si pretende di “recuperare” con l'incenerimento, rimane una quantità di rifiuto “sprecato” pari a kg 0,900, tre volte maggiore dei kg 0,300 del modello Veneto. Senza considerare il fatto che a Brescia, essendo l'impianto sovradimensionato (almeno quattro volte il “fabbisogno” provinciale), nonostante la superproduzione di rifiuti urbani, si devono già oggi importare circa 400mila tonnellate di rifiuti speciali dal resto d'Italia. Siamo di fronte, com'è evidente, a un sistema rigido, a una sorta di gabbia che per almeno trent'anni (durata tecnologica dell'impianto) costringerà la comunità locale a produrre e importare grandi quantità di rifiuti per alimentare il megaforno.

Insomma, l'incenerimento è una colossale macchina dello spreco, produttrice di un'enorme quantità di rifiuti con le ceneri residue diversamente contaminate.

UN IMPATTO AMBIENTALE INSOSTENIBILE

Questi rifiuti emessi da un inceneritore, in termini di massa superiori agli stessi rifiuti in entrata nell'impianto, hanno due caratteristiche nefaste per l'ambiente. Da un canto si tratta di materia non più recuperabile e destinata irreversibilmente a essere perduta per gli usi delle generazioni future. Dall'altro sono emissioni che producono comunque un degrado dell'ambiente, anche se le concentrazioni degli inquinanti nelle diverse matrici sono contenute, come si dichiara, “nei limiti di legge”: i terreni che ospiteranno le ceneri nell'ordine di centinaia di migliaia di tonnellate anno, risulteranno contaminati e inadatti ad usi agricoli e residenziali; ancor più quelli che ospiteranno le polveri pericolose, nell'ordine di decine di migliaia di tonnellate anno; così l'aria emessa sarà centinaia o migliaia di volte più inquinata di quella immessa nell'impianto, nell'ordine di miliardi di metri cubi all'anno.

Ebbene, se guardiamo alle caratteristiche dell'Italia, ciò che si sta proponendo con la diffusione in ogni provincia di grandi impianti di incenerimento è doppiamente insensato: non si tengono in alcun conto le peculiarità di un Paese, strutturalmente povero di materie prime e di risorse, che non può permettersi questo colossale spreco, e con un ecosistema fragile fatto di zone montuose paesaggistiche da proteggere, di poche aree pianeggianti destinate a colture agricole di pregio incompatibili con quegli impianti e da zone altamente urbanizzate e congestionate con tassi di inquinamento da record mondiale. Come si può pensare di collocare in questo contesto decine di grandi impianti di incenerimento dei rifiuti?

LA PARTITA È ANCORA APERTA

Infine alcune considerazioni sul terreno puramente economico. Gli inceneritori sono impianti di grandi dimensioni a tecnologia complessa che richiedono una concentrazione in poche grandi imprese di notevoli investimenti di capitale e quindi dei conseguenti utili, ma anche uno scarso impiego delle risorse umane. Invece, la filiera della riduzione, del riuso, della raccolta differenziata e del riciclaggio mette in moto innanzitutto i cittadini, quindi numerosi operatori, con importanti ricadute occupazionali, e una miriade di piccole-medie imprese impegnate nel riuso e nel riciclaggio delle diverse frazioni.

Insomma da un canto abbiamo la grande impresa tecnologicamente avanzata, ma anche con pochi addetti , con una forte intensità di capitale e la conseguente capacità lobbystica, interessata solo a “colonizzare” il territorio per trarvi profitti; dall'altro un'economia partecipata, diffusa, ad alta intensità di lavoro (si stimano più di 20mila occupati), capace di attivare iniziative diversificate e innovative, che premia insomma le comunità locali sul piano della qualità dello sviluppo. Se la pressione della lobby dell'incenerimento è forte, non mancano le proteste, le mobilitazioni dei cittadini che ad essa si oppongono. Al loro fianco sono schierate le più importanti organizzazioni ecologiste internazionali, Greenpeace e Wwf, e diverse associazioni a livello nazionale, da Medicina democratica, all'Ecoistituto del Veneto “Alex Langer”, dal Forum ambientalista alla Rete nazionale per la lotta contro gli inceneritori (ReNaI). Con questo vasto movimento, costituito anche da tanti comitati spontanei locali, come Nimby trentino, sono impegnati alcuni dei padri illustri dell'ambientalismo scientifico, come il professor Giorgio Nebbia. Lo stesso Alex Zanotelli, reso esperto dalla “scuola dei poveri”, ha partecipato direttamente allo sciopero della fame collettivo contro l'inceneritore che si vuole costruire a Trento, dal 19 al 23 settembre 2004.

Un movimento lungimirante che fa tesoro anche della lezione di un Paese, da questo punto di vista, ben più avanzato come la Germania. Qui la corsa all'incenerimento è partita 30 anni fa, ma da ormai 10 anni, come ci informa un'ampia inchiesta del Der Spiegel del settembre 1996 intitolata Si contendono ogni bidone , ci si è accorti dell'errore strategico commesso. Innanzitutto si è scoperta la nocività ambientale di questi impianti, con il conseguente venir meno degli incentivi pubblici. Inoltre, il deciso orientamento delle comunità verso il “non rifiuto”, con il riuso degli imballaggi e la raccolta differenziata di qualità, ha determinato una situazione paradossale: i gestori degli inceneritori sono disperati perché non sanno come far fronte ai costi elevati di impianti che “funzionano a vuoto” per mancanza di rifiuti, costretti ad un'accanita concorrenza per “contendersi” quella poca immondizia rimasta.

In conclusione, tenendo conto delle forti resistenze che si manifestano in ogni parte del Paese, forse la partita è ancora aperta e certo la soluzione virtuosa per l'economia, l'ambiente e la salute sarebbe facilitata se in Parlamento si formasse finalmente uno schieramento che, invece di regalare soldi pubblici all'incenerimento, destinasse queste risorse ad incentivare i Comuni, i cittadini e le imprese che riducono alla fonte i rifiuti e che li recuperano come materia nella prospettiva di “zero rifiuti”. Purtroppo la lobby della salute e dell'ambiente spesso sembra non avere la forza di persuasione di quella affaristica dell'incenerimento.

Tuttavia, se l'Italia intenderà rimanere in Europa, prima o poi dovrà dare risposte sensate anche ai bisogni di un ambiente sano che, pur a fatica, sembrano emergenti anche fra i cittadini del Belpaese. E una corretta gestione dei rifiuti, secondo la linea del mukuru, che escluda, oltre alla discarica, l'incenerimento, rappresenta una sfida essenziale in questa direzione.

MARINO RUZZENENTI

Perché dall'incenerimento dei rifiuti in Italia si può guadagnare tanto?

Ma se così stanno le cose, se gli inceneritori producono soprattutto sprechi e danni per l'ambiente, se sono inefficienti per l'entità ridotta di energia ricavabile rispetto agli alti costi impiantistici, perché assistiamo a questa corsa sfrenata agli inceneritori, saltando a piè pari una corretta gestione del problema rifiuti, cioè la strategia del mukuru? Si pensi che in Campania, si sta imponendo questa soluzione dell'incenerimento dopo 10 anni di emergenza rifiuti in cui gli enti locali sono riusciti a raggiungere un misero 13% di raccolta differenziata. In Sicilia il passaggio dal “tutto in discarica”, al “tutto all'incenerimento” è ancor più clamoroso: con una raccolta differenziata inferiore al 2% sono stati programmati dalla Regione ben quattro grandi inceneritori. A dimostrazione ulteriore che gli inceneritori non sono alternativi alla discarica, ma alla riduzione del rifiuto e alla raccolta differenziata.

Ma allora perché conviene economicamente installare un inceneritore? Innanzitutto perché in Italia i rifiuti destinati all'incenerimento vengono considerati “energia rinnovabile”, e questo in contrasto con le direttive europee e con il buon senso. Su questa base il provvedimento 6/92 del Comitato interministeriale prezzi (il cosiddetto Cip6, trasformato ora nei “certificati verdi”) prevede che l'energia elettrica prodotta dai rifiuti venga pagata, attraverso un sovrapprezzo a carico dei cittadini, tre volte il valore di mercato. Si tratta, per fare l'esempio di un inceneritore di 800mila tonnellate l'anno di rifiuti, di circa 40 milioni di euro all'anno versati dallo Stato (ovvero dai cittadini), una cifra davvero enorme che dà l'idea del business che la lobby dell'incenerimento, con i necessari appoggi politici, è riuscita a mettere in piedi. Ma va considerata anche un'altra anomalia di cui gode il sistema dell'incenerimento dei rifiuti: le ex aziende municipalizzate sono diventate pressoché tutte aziende private, spesso quotate in borsa, ai cui utili partecipano azionisti non pubblici, che però godono ancora di un regime di assoluto monopolio per quanto riguarda il trattamento dei rifiuti: questi, che con l'inceneritore sono stati trasformati in combustibile e quindi in una risorsa, possono essere ancora imputati ai cittadini dai Comuni, proprietari delle aziende di gestione, come un costo, alla stregua di quelli destinati alla discarica.

Il risultato è che i cittadini pagano l'energia elettrica prodotta con i rifiuti, ma anche i rifiuti conferiti nonostante questi rappresentino un valore positivo come combustibile e non più una semplice perdita come quelli destinati alla discarica: si realizza così il paradosso, che il combustibile per l'inceneritore non solo è senza costi per l'azienda che gestisce l'impianto, ma addirittura le viene pagato coattivamente dai cittadini, sottoposti ad una “tassa” rifiuti maggiorata dell'obolo per l'inceneritore, mentre in questo contesto sarebbe giustificata solo per la parte relativa ai costi della raccolta. Anche in questo caso un contributo aggiuntivo e indebito da parte dei cittadini pari a circa 40 milioni di euro l'anno, per un inceneritore da 800mila tonnellate. Si capisce che con 80 milioni di euro di entrate garantite all'anno, senza alcun rischio concorrenziale, tutti siano invogliati a costruire inceneritori e di grandi dimensioni. Se ipotizzassimo di togliere all'inceneritore i vantaggi protezionistici pubblici (Cip6 e parte della tassa rifiuti “ingiustificata”), il bilancio economico di questi impianti sarebbe ampiamente in rosso, e nessuno si sognerebbe di costruire inceneritori, perché ciò che si può ricavare vendendo energia elettrica al valore di mercato sarebbe pari ad un terzo circa dei costi di investimento e di esercizio”.

CONVIENE RICAVARE ENERGIA DAI RIFIUTI, DAL PUNTO DI VISTA ECOLOGICO?

Ma, si dice da parte dei sostenitori dell'incenerimento, gli attuali impianti prevedono un “recupero energetico” e quindi non è vero che si tratta di puro spreco. Un moderno inceneritore è in grado di “recuperare” sotto forma di energia elettrica dal 20 al 25% dell'energia contenuta nei rifiuti, una macchina dunque inefficiente se si pensa che una moderna centrale termoelettrica turbogas a ciclo combinato supera abbondantemente il 50% di resa, cioè più del doppio.. E poiché nei rifiuti vi sono anche molti materiali non combustibili, per ottenere una piccolissima potenza elettrica di 80 MW (un decimo di una media centrale turbogas) è necessario installare il più grande inceneritore d'Europa, da 800.000 tonnellate annue di rifiuti.

Per completare però queste considerazioni, bisognerebbe tener conto che l'efficienza energetica considerata non corrisponde al bilancio netto di energia ricavabile dal sistema, perché non sottrae le perdite che potremmo esemplificare nei consumi energetici per la gestione di un'impiantistica tecnologicamente complessa. Perdite che riguardano in altra misura anche il sistema del riciclaggio. L'opzione che può dare un bilancio energetico ottimale è solo il non rifiuto, cioè la non produzione di rifiuti, come dimostra la seguente tabella elaborata dal Wwf.

Del resto va anche considerato che il contributo dell'energia ricavata dai rifiuti alla produzione nazionale di energia elettrica è pressoché irrilevante, meno dello 0,5%, e anche nel caso si diffondesse su tutto il territorio la pratica dell'incenerimento si potrebbe al massimo ipotizzare una produzione del 2% circa.

Una potenza davvero esigua, se paragonata all'investimento per un singolo impianto (dai 100 ai 250 milioni di euro) e all'impatto ambientale di un inceneritore e della sua gestione, che potrebbe essere facilmente sostituita da fonti alternative: nelle regioni alpine e prealpine vi è una secolare tradizione dell'idroelettrico e ultimamente stanno proliferando le minicentrali con potenza inferiore ai 3 MW (oggi già circa 90, solo nel bresciano) che utilizzano piccoli salti d'acqua di cui le Alpi e Prealpi sono ricche; la diffusione del fotovoltaico in una media città potrebbe in pochi anni da sola raggiungere una potenza equivalente a quella dell'inceneritore; addirittura anche solo utilizzando il contributo che lo Stato, e quindi la collettività, versa oggi ai singoli gestori di inceneritori per la produzione di energia cosiddetta “rinnovabile” da rifiuti si potrebbero finanziare pannelli fotovoltaici per un equivalente di 4 MW all'anno, per ogni impianto; oppure, in alternativa, le stesse risorse potrebbero essere investite per diffondere le centraline termoelettriche di cogenerazione che stanno sorgendo nelle valli alimentate dalle vere biomasse, cioè il taglio del bosco e la legna che altrimenti sarebbe abbandonata a marcire, con potenze elettriche di circa 2 MW ciascuna.

Ma si potrebbero ottenere risultati di straordinaria eccellenza con il solo risparmio energetico, decine di volte superiori all'incenerimento dei rifiuti: rispetto a una possibile produzione di energia da rifiuti, anche incrementando in modo consistente l'incenerimento fino a produrre 4-5mila GWh, si potrebbe ottenere nel 2015 un risparmio, secondo stime Anpa (ministero dell'Ambiente), di 85mila GWh, corrispondente a quanto prodotto da 15 centrali a ciclo combinato da 800 MW cadauna, o da circa 200 inceneritori.

L'IMPRONTA ECOLOGICA

Di quanta terra ho bisogno per vivere nel 2004? per sostenere la mia vita? Non ci pensiamo come entità ecologiche. Invece William Ress e Mathis Wackernagel dell'Università della British Columbia (Canada) hanno definito “l'impronta ecologica” di ciascun essere umano come la quantità di terra necessaria per sostenere il suo stile di vita, cioè, la terra che produce ciò di cui abbiamo bisogno per sopravvivere e quella usata per disporre di tutti i rifiuti che produciamo.

Nel 2004 gli Stati Uniti hanno avuto bisogno di 9.57 ettari per persona (per un futuro sostenibile avrebbero bisogno soltanto di 1.88 ettari). In coda ci sarebbero Paesi come il Bangladesh e il Mozambico con un'impronta ecologica di 0.53 di ettaro per persona.

Ciascun italiano invece ha avuto bisogno di 3.9 ettari (invece di 1.2) per sostenere il suo stile di vita.

Tratto da Living Planet Report