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Oltre il lavoro

di Andrea Staid - 03/06/2015

Fonte: Comune info



Guerre, conquiste e schiavitù hanno avuto un ruolo centrale nel trasformare le economie umane in economie di mercato e nell’imposizione del dominio del lavoro sulla vita delle persone. Del resto, come ricorda Andrea Staid in “I senza Stato” (Bèbert edizioni), «in greco e in latino il termine che oggi traduciamo con “lavoro” significava semplicemente sforzo, fatica, pena, sofferenza». Guardare con occhio critico le società primitive permette di ripensare la vita di ogni giorno nelle attuali società occidentali, dal lavoro allo Stato: scoprireremo non solo che è un vero mito quello del “selvaggio” condannato a un’esistenza quasi animale, ma che è possibile costruire relazioni sociali senza mettere al centro la categoria del profitto

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di Andrea Staid*

Nell’analisi del potere gerarchico, del dominio, non può mancare uno sguardo alla sfera economica o meglio alla sfera del lavoro nelle società primitive. Nella società occidentale, e nelle società statali in generale, uno dei campi dove si manifesta in modo chiaro il potere coercitivo (comando obbedienza) è proprio il campo del lavoro salariato. La storia della modernità è la storia dell’imposizione del lavoro che ha lasciato sull’intero pianeta una lunga scia di desolazione e di orrori. Infatti la richiesta di sprecare la maggior parte dell’energia vitale per un fine tautologico, deciso da altri, non è mai stata interiorizzata tanto quanto lo è ai giorni nostri. Ci sono voluti diversi secoli di violenza aperta su larga scala per far entrare, letteralmente a forza di torture, gli uomini al servizio incondizionato dell’idolo “lavoro”.

Guerre, conquiste e schiavitù hanno avuto un ruolo centrale nel trasformare le economie umane in economie di mercato22. La maggior parte degli uomini non si è dedicata spontaneamente alla produzione per mercati anonimi, e dunque alla generale economia monetaria, ma semplicemente perché l’avidità degli Stati assolutistici monetarizzò le tasse e contemporaneamente le aumentò in maniera esorbitante. Non per se stessa la maggior parte degli uomini dovette “guadagnare soldi”, ma per lo Stato moderno militarizzato e le sue armi da fuoco, la sua logistica e la sua burocrazia. Così, e non diversamente, è venuto al mondo l’assurdo fine in sé della valorizzazione del capitale, e quindi del lavoro.

Con la formazione degli stati moderni gli amministratori del capitalismo finanziario cominciarono a far diventare gli esseri umani la materia prima di una macchina sociale che era necessaria per trasformare lavoro in denaro. Il modus vivendi delle popolazioni delle società senza Stato fu distrutto; non perché queste popolazioni si fossero spontaneamente e autonomamente “sviluppate” come ci vogliono far credere, ma perché dovevano servire da materiale umano per far funzionare la macchina della valorizzazione ormai messa in moto. Gli
uomini furono scacciati con la forza delle armi dai loro campi, per far posto alle greggi per i lanifici. Antichi diritti, come quello di cacciare, pescare e raccogliere legna nei boschi, o quello dei terreni comuni furono aboliti23.

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Cerchiamo ora, sempre grazie alle ricerche etnografiche, di indagare come viene gestita l’economia nelle società senza Stato. È doveroso rilevare che le società senza Stato sopravvissute all’avanzata della “civilizzazione” non possono essere considerate società immobili, bensì sono culture in transito che attraverso l’incontro e lo scontro con la società occidentale hanno adattato, modificato e ibridato i loro modi diversi di organizzarsi in comunità. Queste società, lungi dall’esprimere esclusivamente fissità e ripetizione, si trovano inserite nel flusso della storia e nei vortici dei mutamenti. Sono gli incontri fra differenti culture, le migrazioni e le trasformazioni storiche a modellare performance culturali che, al pari delle società, non sono mai prodotti immutabili, ma vengono piuttosto a trovarsi in cantieri sempre aperti e in transiti mai completamente compiuti24.

Mi sembra qui opportuno sfatare il mito che nelle “società primitive” vige un’economia di sussistenza che a fatica riesce ad assicurare il minimo necessario per garantire la sopravvivenza della società. Troppo spesso si parla in testi accademici di una fantomatica economia di sopravvivenza che impedisce un accumulo di scorte tali da garantire, anche solo a breve termine, la sopravvivenza del gruppo, di un’immagine di un fantomatico “selvaggio” come un uomo sopraffatto e dominato dalla natura, minacciato dalla carestia e perennemente dominato dall’angoscia di procurare a sé e ai propri figli i mezzi per sopravvivere. A partire dai lavori sul campo che studiano gli australiani aborigeni della terra di Arnhem e i Boscimani del Kalahari, Marshall Shalins nel suo Economia dell’età della pietra25, procede a una rigorosa quantificazione dei tempi di lavoro nelle società primitive. Ne emerge che lontano dal trascorrere  le loro giornate in una febbrile attività di raccolta e caccia, questi selvaggi dedicano mediamente alla produzione di cibo non più di cinque ore al giorno, il più delle volte non più di tre o quattro. Una produzione interrotta da frequenti riposi, in cui il tempo lavorativo quotidiano non coinvolge quasi mai la totalità del gruppo e dove l’apporto di bambini e giovani all’attività economica è quasi nullo.

Gli studi etnologici e le ricerche sul campo condotte da decine di antropologi nel XX secolo su cacciatori e raccoglitori, specialmente quelli che vivono in ambienti marginali, indicano una media di trecinque ore giornaliere di produzione alimentare per lavoratore adulto. I cacciatori si attengono a un orario di lavoro notevolmente inferiore a quello dei moderni lavoratori dell’industria (sindacalizzati), che sarebbero ben felici di una settimana lavorativa di ventunotrentacinque ore. Tra gli Hanunoo delle Filippine, ad esempio, le donne e gli uomini dedicano in media 1.200 ore annue alla coltura itinerante, cioè una media di tre ore e venti minuti al giorno26. È un vero e proprio mito quello del “selvaggio” condannato a un’esistenza quasi animale. Dall’analisi di Marshall Shalins emerge infatti che l’economia dei primitivi non è un’economia della miseria ma, al contrario, le società primitive sono le prime vere società dell’abbondanza. È la società occidentale contemporanea quella delle carestie e della povertà diffusa su larga scala; da un terzo a metà dell’umanità, si dice, si corica ogni sera affamata. Nella vecchia Età della pietra, la percentuale deve essere stata molto inferiore. Questa è l’epoca della fame senza precedenti. Oggigiorno, nell’era delle massime conquiste tecniche, la carestia è un’istituzione27.

Secondo Pierre Clastres la società “primitiva” è una struttura che funziona sempre al di sotto delle proprie possibilità, e che potrebbe, se lo volesse, produrre rapidamente un surplus. Se questo non accade, è perché le società primitive non lo vogliono. Australiani e Boscimani, un popolo quest’ultimo che vive nel Kalahari (tra Sudafrica, Namibia e Botswana), raggiunto l’obiettivo alimentare che si erano proposti, cessano di cacciare e raccogliere, poiché sanno che le scorte di riserve alimentari sono inglobate in permanenza dalla natura. Sempre Marshall Sahlins demistifica nel suo testo quel pensiero che assume il produttivismo contemporaneo a misura di tutte le cose. Nelle società primitive, al contrario, il processo lavorativo è sensibile a interferenze di vario tipo, soggetto a interrompersi a beneficio di altre attività importanti come un rituale propiziatorio o frivole come il riposo.

La tradizionale giornata lavorativa è spesso breve e se si protrae più del previsto, subisce frequenti interruzioni. Abbiamo la dimostrazione che, se l’uomo primitivo è alieno allo spirito imprenditoriale e alle logiche del lavoro salariato, è perché la categoria profitto non lo interessa: se non reinveste, non è perché ignora il fatto, ma perché non rientra tra gli obiettivi che persegue. Nelle comunità nomadi, ma anche in quelle sedentarie, dagli amerindiani alle tribù della Melanesia si cerca di produrre il minimo necessario a soddisfare tutti i bisogni, una tipologia di lavoro ostile alla formazione di un surplus, una struttura che impedisce che una parte del la produzione ricada all’esterno dell’ambito territoriale controllato direttamente dal gruppo produttore. A differenza delle società statali occidentali, in queste società non si vive per produrre ma si produce per vivere. Il modo di produzione domestico delle società primitive è produzione per il consumo, nello svolgersi del quale si pone un costante freno all’accumulo  di surplus e si tende a mantenere il complesso degli immobilizzi a un livello relativamente basso28. Se la produzione è esattamente commisurata ai bisogni immediati della famiglia, la legge che governa il sistema contiene un principio antisurplus, adeguato alla produzione per la sussistenza non legata a una retribuzione.

Superata la produzione necessaria si tende dunque all’arresto del lavoroproduzione. Il fatto etnograficamente documentato è che le economie primitive sono sottoproduttive,  che solo una parte della collettività lavora, su tempi brevi e a bassa intensità, imponendo così di fatto che le società primitive siano società  dell’abbondanza. Pierre Clastres nel suo Archeologia della violenza afferma che le società “primitive” sono società “contro l’economia” intendendo con questo che la socialità primitiva assegna alla produzione un compito ben preciso e determinato, impedendole di andare oltre:

Là dove così non è, l’economia si sottrae al controllo della società, la disgrega introducendo la separazione tra ricchi e poveri: l’alienazione degli uni dagli altri29.

Nelle “società contro l’economia” non solo le forze produttive non tendono a svilupparsi autonomamente, ma nel modo di produrre è deliberatamente affermata una volontà esplicita di sottoproduzione. Nelle società “primitive” è ormai chiaro che non poteva esistere un concetto di lavoro con il significato che oggi si dà a questo termine: l’attività di produzione coincideva del tutto con quella di riproduzione dell’individuo e della specie ed il tempo di lavoro era quindi immediatamente tempo di vita. Il numero degli uomini su di un territorio era regolato da un equilibrio naturale, perciò essi disponevano dell’occorrente secondo i bisogni di quel tipo di
società.

“Noi” occidentali, capitalisti, non riusciamo a concepire la preistoria umana come un’era di abbondanza e,  confrontando il nostro modello di vita con quello di esseri ritenuti poco più che bestie, ci è utile vederli come abbruttiti dalla privazione, dediti alla ricerca continua di che sfamarsi. Ovviamente l’uomo primitivo non aveva la nostra percezione del tempo. Alcune decine di millenni più vicino a noi, anche gli uomini delle società preclassiche, già arrivate ad un alto grado di urbanizzazione e di suddivisione in gerarchie sociali, non avevano una concezione del tempo che dividesse nettamente vita e lavoro, per loro infatti non aveva nessun senso né la parola “lavoro” nell’accezione moderna, né tanto meno la frase “tempo libero”. In seguito, in una società ormai divisa in classi e basata sullo sfruttamento di masse di schiavi, il lavoro coincise con l’attività normale di chi si dedicava ad attività manuali in genere, tant’è vero che in greco (ponos) e in latino (labor) il termine che oggi traduciamo con “lavoro” significava semplicemente sforzo, fatica, pena, sofferenza.

Esistono molti esempi etnograficamente interessanti per capire il tempo del lavoro nelle culture “altre”, per esempio i Tikopia abitanti delle isole melanesiane hanno una concezione del lavoro molto diversa dalla nostra:

(…) seguiamo un gruppo di lavoratori Tikopia che escono da casa in una bella mattinata diretti ai campi. Vanno a scavare radici di curcuma, perché è agosto, la stagione in cui si prepara questa pregiata tintura sacra. Il gruppo parte dal villaggio di Matautu, costeggia la spiaggia in direzione di Rofaea e poi penetrando all’interno, comincia a risalire il sentiero (…) Il gruppo è formato da Pa Nukunefu e sua moglie, la loro figlioletta, e tre ragazze più grandi. (…) Il lavoro è semplicissimo Pa Nukunefu e le donne si dividono equamente il lavoro; lui si occupa della maggior parte del lavoro di rimozione della vegetazione e di scavo, loro di parte dello scavo e della piantagione e di quasi tutta la pulitura e la cernita… il lavoro è lento. Di tanto in tanto i membri del gruppo si ritirano in disparte a riposare e a masticare Betel (…). L’intera atmosfera è di lavoro inframezzato a svago a volontà30.

Tikopia

Altro interessante esempio di gestione del lavoro lo danno gli abitanti Kapauku della Nuova Guinea:

Avendo i Kapauku una concezione equilibrata della vita, pensano di dover lavorare soltanto a giorni alterni. Una giornata di lavoro è seguita da una di riposo allo scopo di riacquistare la forza e la salute perdute. Questo monotono alternarsi di lavoro e svago è reso più piacevole dall’inserimento nel loro calendario di periodi di vacanze più lunghi, trascorsi danzando, facendo visite, pescando o cacciando. Di conseguenza, generalmente si notano soltanto alcune persone avviarsi verso gli orti, le altre si prendono il loro giorno di riposo31.

Elizabeth Marshall Thomas scrive che il Boscimane non possedeva nulla e regalava tutto ciò che gli passava per le mani32. Nella vita del primitivo è prassi regalare, “dare via”, e questo vale per ogni bene. Nella vita sociale degli Hazda o Hadzabe’e (un gruppo etnico della Tanzania che vive attorno al lago Eyasi), la carne viene divisa fra tutte le persone di un accampamento indipendentemente dalle relazioni di parentela. Non si tratta di un sistema basato sullo scambio e la reciprocità del tipo: ti do della carne oggi, per poterla poi richiedere domani. Sono pochi i cacciatori di successo in una comunità, eppure anche coloro che non abbattono mai grosse prede, e perciò non procurano mai carne hanno diritto alla spartizione di qualsiasi tipo di cacciagione che arrivi all’accampamento. Il desiderio di dare qualcosa a qualcuno non richiede necessariamente reciprocità, nella vita degli individui delle società primitive l’enfasi è posta sulla spartizione piuttosto che sullo scambio33.

L’Andamane34 che sia pigro o indifeso riceve comunque del cibo, nonostante l’eventualità o la certezza di una mancata contropartita, lo confermano nei loro scritti sia Radcliffe Brown che Edward H. Man. Fra gli Arunta (gruppo di tribù australiane stanziato nella regione a Nord Ovest dei monti MacDonnel), nella stagione magra, ognuno spartiva le provviste disponibili, a prescindere dalle normali considerazioni di generazione, sesso e status parentale.

 

I-senza-stato-Staid-copertina* docente di antropologia culturale presso la Naba (Nuova Accademia di Belle Arti) di Milano, editor della casa editrice Elèuthera. È autore de “Gli arditi del popolo” (Edizioni La Fiaccola, 2007), “Le nostre braccia. Meticciato e antropologia della nuova schiavitù” (Agenzia X, 2011), “I dannati della metropoli. Etnografia dei migranti ai confini della legalità” (Milieu Edizioni, 2014).
** Tratto da I senza Stato. Potere, economia e debito nelle società primitive (Bèbert edizioni)