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Quel viadotto incompiuto in Viale Vat come un soffio di cose strane e lontane

di Francesco Lamendola - 09/06/2015

Fonte: Arianna editrice


 

 


 

Bambino nato e cresciuto in centro che più centro non si può, proprio sotto la collina del Castello, mi affascinavano gli spazi aperti della periferia, oltre i borghi, là dove la città diventa campagna, lentamente, quasi insensibilmente, lungo gli ampi viali alberati che allora erano percorsi da un traffico piuttosto modesto, per non dire sonnacchioso, e dove già si sentivano cinguettare gli uccelli e si scorgevano all’orizzonte, nette contro il cielo invernale, i bastioni delle Alpi Giulie bianche di neve, come le sentinelle indecifrabili d’un mondo remoto e fiabesco.

La periferia Nord, con l’ampio e libero panorama sulla chiostra dei monti, e le cime degli alberi profilate contro l’orizzonte, mi attirava in un modo tutto particolare: anche perché, a parte la statale Pontebbana, tutte le strade sembravano portare in nessun luogo, anche le più larghe e frequentate parevano spingersi avanti senza fretta, maestose e tranquille, come fiumi di pianura che non sono affatto impazienti di raggiungere il mare, tanto c’è sempre tempo, ma è bello godersi il sole e la pioggia e il vento e il profumo di terra bagnata, udire il richiamo dei grilli e delle cicale in estate, sentire le fronde dei platani che stormiscono al soffio della bora.

La sera, poi, alla fine dell’autunno, la luna si levava alta nel cielo, bianchissima, e brillava tra i rami dei vali d’una luce sfolgorante, quasi innaturale, accompagnando i passi del viandante, lontana eppure così vicina, infinitamente affascinante: era la regina incantata delle notti che scendevano giù dalle pieghe dei monti e da valli misteriose, portando con sé dei segreti arcani, che si sposavano con la vita di ogni giorno, vi penetravano, diventavano tutt’uno cin essa e le conferivano un profumo squisito, di cosa familiare e tuttavia enigmatica, una lampada di Aladino sempre pronta ad esaudire i desideri, a riversare l’incanto nella favola nel mondo ordinario.

E poi, dopo la natura e oltre alla natura, c’erano gli uomini. Com’era animata, la città; e come lo era anche la periferia! Quanti negozietti e bottegucce e osterie e taverne; quanto piccolo commercio, quante vetrine con la merce esposta, magari modeste, magari niente di che, però era vita, vita, vita: non c’erano case vuote, né locali abbandonati, non cartelli “vendesi” e “affittasi” ad ogni passo, come oggi; e ogni commerciante spazzava per bene il marciapiedi di fronte alla bottega, e sulla strada usciva il profumo del pane o dei dolci o dello stufato o dei fiori; o magari si spandeva l’odore della vernice fresca – un profumo, anche quello! -, e perfino i fruttivendoli esponevano qualche giocattolino di plastica, quattro soldatini, indiani e cow-boys, cosucce da pochi sold:ma che gioia per la vista, che invito, che tentazione per i bambini!

E quante voci uscivano dai bar, dalle trattorie, quanti scoppi di risate, quante imprecazioni di giocatori di carte, e la televisione con la partita di calcio; e rumor di stoviglie, di bicchieri, di bottiglie sbattute sul tavolo di legno, e il brusio della gente seduta a mangiare, a tuffare il cucchiaio nel piatto, e il profumo della minestra che si spande per l’aria, e quello della polenta abbrustolita, e quello del musetto, e quello del pesce e degli scampi e calamari, o delle cappe lunghe, un profumo da svegliare i morti.

La città era viva: ed era bello camminare per la strada, fermarsi a guardare, ad annusare, a sognare; a piedi o in bicicletta, era bello uscire dal centro e spingersi verso la periferia, sotto le chiome dei platani, passando davanti a casette modeste, di mattoni a vista, a orti, a minuscoli vigneti, a giardinetti dalla vegetazione traboccante, a cancelli e portoni di pietra, a finestre dagli scuri in legno, con le piccole teste di moro in ferro battuto che abbellivano l’asta per chiuderli, e poi la vite selvatica che s’arrampicava lungo i muri, giungeva alle finestra, entrava nei balconi, avvolgeva e circondava i cornicioni, si spingeva fino ai vetri e solo lì s’arrendeva, non riusciva a salir ancor più su, allora si espandeva ai lati, faceva presa sulle pietre sporgenti, ricominciava la scalata fino alla grondaia, fino al sottotetto.

Fra un portone e l’altro, s’intravedevano i cortili, questi santuari della vita familiare, mezzi segreti e mezzi pubblici: occhieggiavano oltre il buio dell’andito, si aprivano nel sole dietro le facciate delle case, si stringevano ad accogliere le gabbiette degli uccelli, le conigliere, il razzolare delle galline, il guaire del cane legato alla catena, poi si allargavano, miracolosamente, per fare posto al tavolo per le sere d’estate, quando si stava seduti al fresco, o perché i bambini ci potessero giocare, saltare, sognare: per loro diventavano grandi, sconfinati, eppure non erano che pochi metri quadrati, non servivano per parcheggiare l’automobile, erano vivi anch’essi, come le case, come le strade, come le piazze, i borghi, i quartieri. C’erano i panni stesi ad asciugare, c’erano perfino un minuscolo orticello, un poco d’insalata, quattro pomodori, quattro patate, e il rosmarino, naturalmente, o la lavanda, o il prezzemolo; c’era persino qualche pianta di limone, che d’inverno veniva tirata dentro, e che faceva tanta allegria col suo giallo sgargiante e col suo inconfondibile profumo.

Ecco: percorrevo il lungo viale che usciva dalla porta settentrionale, tenendomi di preferenza sul lato sopraelevato, sulla destra, dove scorreva la roggia e si poteva ancora ammirare un vecchio mulino ad acqua che, benché non più funzionante, era ancora in buone condizioni e parlava di un’epoca non troppo lontana, in cu aveva continuato a macinare il grano e a servire gli uomini con costanza e fedeltà. La sua vista era come un preannuncio della campagna; ma bisognava arrivare fino al grande piazzale di Chiavris, nome dalla etimologia misteriosa, che evocava, anch’esso, visioni remote e campestri, e dove propriamente la città finiva. Sempre sulla destra, c’era una casa che pareva una di quelle grandi case coloniche d’un tempo; esiste ancora, è un locale pubblico molto frequentato ed è stata ristrutturata e ridipinta: ma pare adesso un po’ spaesata, così sola in mezzo al traffico, ora che il piazzale ha fatto luogo a una rotonda e che tutto intorno è un continuo carosello di automezzi.

Attraversata la strada, ecco il viale alberato che conduceva verso Nord-Est: con la roggia, ch’era passata sul lato sinistro (ovviamente, era la strada che aveva cambiato direzione) e che seguitava ad accompagnare i miei passi stando un poco in alto, all’ombra dei platani. Dietro di essa, una lunga serie di casette modestissime, alcune decisamente fatiscenti, ma che avevano, per me, un fascino tutto particolare; alcune rivolgevano verso il viale i giardinetti interni, altre la facciata, e queste scavalcavano la roggia per mezzo di minuscoli ponticelli privati, ogni casetta ilo suo ponticello, era una prospettiva affascinante, che si prolungava sino all’ampia curva del viale, ed oltre. Ed ecco, proprio all’altezza della curva, la riggia veniva scavalcata da un manufatto enorme, incongruo, e tuttavia accettato come un elemento qualsiasi del paesaggio, almeno da me che, bambino, non facevo troppi ragionamenti; un viadotto, un’arcata colossale rimasta a mezz’aria, una specie di ponte pietrificato prima che avesse potuto completare la propria campata e raggiungere l’altro lato del viale. Una cosa strana, rimasta a metà, con le grosse pietre squadrate a vista, quasi un punto interrogativo che sfidava le leggi della statica.

Ci passavo davanti senza farci troppo caso, o meglio, senza chiedermi cos’era e cosa ci faceva: così grande, così solenne, così possente, pareva un generale in pensione dimenticato lì per qualche ragione, che nessuno ha osato mandar via, che nessuno ha avuto il coraggio di pregarlo d’andarsene, e che perciò è rimasto, forse in attesa di tempi migliori, forse sperando che qualcuno si ricordasse di lui, lo terminasse, gli desse un senso compiuto, una prospettiva definitiva. Era un elemento del paesaggio; c’era: se c’era, una ragione doveva ben esserci anche per lui. Pure, oltrepassandolo per andare ancora più avanti, verso Paderno, qualcosa s’insinuava inavvertita nella mente: come quando si passa accanto a qualcosa che non dovrebbe star lì, che è fuori posto, ma non si sa cosa, non si comprende quale sia l’oggetto sbagliato: si registra una sensazione di perplessità, ma intanto si va innanzi, perché non è una cosa che disturba, anzi non è neanche un ragionamento, solo una sensazione, no, nemmeno, diciamo un’intuizione, ma vaga e sbiadita, come un sogno interrotto a metà e di cui si stenta a ricordare il contenuto, dopo il risveglio.

Ora so di cosa si tratta; ma sono passati moltissimi anni ed è tanto, tantissimo che non ritorno nella mia città, che non rivedo il bel viale alberato e non odo il lieto rumore della roggia che scorre, mentre fiancheggia la strada come un’amica fedele. Ora so che quell’arcata sospesa, quel viadotto rimasto incompiuto, è parte di un’opera assai più ambiziosa, una linea ferroviaria che doveva entrare in esercizio negli anni ’30 del Novecento e che era stata già in gran parte realizzata, ma poi rimase incompiuta, chi sa perché; anche allora si sprecava denaro pubblico per opere imponenti destinate a non giungere al termine. Ne restano alcuni tratti della massicciata, perfino una stazione abbandonata in mezzo agli alberi, e l’arco di Viale Vat: testimonianza perenne di archeologia industriale che ormai fa parte del paesaggio e che, ci scommetto, persino molti abitanti del quartiere hanno accettato così com’è, senza fargli troppe domande, senza chiedergli il biglietto da visita, il perché ed il percome della sua presenza muta ed enigmatica.

Ecco: la differenza fondamentale tra il mondo del bambino e quello dell’adulto è che nel primo non si chiede continuamente il perché ed il percome delle cose: le si accetta, con stupore, con fede, come un atto di accoglienza radicale della vita; nel secondo ogni cosa deve avere la sua brava spiegazione, ogni cosa deve essere incasellata e catalogata, e guai se ce n’è qualcuna fuori posto, o che non si lascia interrogare e ridurre alla misura delle nostre domande. L’adulto non si sorprende più di nulla, perché non crede se non a ciò che ha spiegato, o creduto di spiegare; mentre il bambino si stupisce di tutto perché non c’è niente che gli appaia impossibile, niente che recalcitri alla sua logica, niente che non sia come dovrebbe essere. Per lui, non c’è iato fra le cose come sono e le cose è giusto che siano: la realtà è un tutto, coesa, armoniosa, infinitamente affascinante, sempre vergine e fresca, sempre varia e capace di sorprendere: il bambino è una creatura che vive nella pace, che trova naturale anche il bizzarro e che accetta incondizionatamente il principio di realtà: salvo interpretarlo alla sua maniera, cioè con la più totale libertà immaginativa, con la più sfrenata licenza poetica. Perché il bambino è naturalmente poeta, lo aveva compreso Pascoli e nella sua intuizione non vi è nulla di sdolcinato, nulla di artificioso, è tutta sacrosanta verità.

Così, almeno, era per me. Arrivavo in  Viale Vati da piazzale Chiavris, a piedi, camminando di buon passo, come un piccolo esploratore, e ad ogni passo che mi allontanava dal centro e mi avvicinava all’amata campagna, sentivo l’anima farsi più leggere e gli occhi, gli orecchi, tutto il mio essere che si apriva ad accogliere i suoni, i profumi, le sensazioni di quel mondo così aperto e affascinante, per me che venivo da una stretta via del centro, proprio ai piedi del Castello, e la mattina non sentivo il gallo cantare, non sentivo le galline razzolare o i cani abbaiare, però ne portavo la nostalgia nel cuore, come se in campagna fossi sempre nato e vissuto.

Qualche altra volta, invece, arrivavo lassù in bicicletta, facendo un’altra strada: imboccavo il Viale Tricesimo e quasi subito, sulla destra, mi gettavo per una stradina solitaria in mezzo agli alberi e ai campi, una stradina che più non esiste - so che l’hanno sostituita con una strada stretta e tutta fiancheggiata da villette a schiera, non voglio vederla -, ed era come uscire di colpo dall’ambiente ben noto della città e affacciarsi in un mondo del tutto diverso, quasi in un’altra dimensione; tanto che la sera, quando faceva buio, era un po’ inquietante pedalare lungo quella via,  non c’erano luci e neanche una casa, solo alberi alti, mi pare che fossero pioppi e ricordo come stormivano nel vento – e poi, improvvisamente, si sbucava fuori presso un ponticello e una piccola chiusa della roggia, di fronte a uno slargo, c’erano alcune case basse, modeste, e di fronte un’osteria, e una fontana di ghisa, di quelle grigio scuro, che facevano la festa dei ciclisti e dei viandanti assetati. E di lì si proseguiva dritti, in direzione di Godia (un paese sperduto, con un altro bel mulino, il cui nome ricorda proprio i Goti di Teodorico); oppure si girava a destra e si tornava giù lungo il Viale Vat e s’incontrava il viadotto sospeso, questa volta sulla destra, acquattato sopra la roggia, con la sua aria impettita e silenziosa, come un invalido di guerra che non si vergogna del proprio braccio amputato; come un alpino congelato in Russia, che ha salvato la pelle, ma non gli arti e che adesso è lì, guarda il sole e la pioggia e attende che qualcuno lo prenda e lo porti dentro, perché non ce la fa più a muoversi da solo, non è più padrone di se stesso, lui che prima era così giovane e forte.

Mi accade, anche oggi, di sentire che qualcosa non è al suo posto; di avvertire una esitazione, un interrogativo, davanti a certe cose. Come il viadotto sospeso, la vita ci avverte: sta a noi farci caso...