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E ancora, nel sole, lungo l’amato Viale Vat

di Francesco Lamendola - 09/06/2015

Fonte: Arianna editrice


 

 


 

Tutte le stagioni erano buone per le scorribande solitarie verso la campagna, ma la stagione più propizia era, per me, l’invero: con il freddo intenso e il cielo terso, limpidissimo la chiostra ei monti innevati pareva più vicina che mai e i raggi del sole bassi cadevano con una dolcezza particolare sui muri delle case, quasi accarezzandoli, e brillavano sui vetri delle finestre come per accendervi delle scintille di vita e di poesia.

Quando uscivo da porta Gemona e, passando accanto al salto della roggia, un salto di qualche metro, che produceva un notevole fragore, per poi proseguire lungo l’argine della roggia e arrivare, infine, al mitico piazzale Chiavris, avevo già un buon paio di chilometri nelle gambe, ma neppure li sentivo, anzi, il mio vigore cresceva di metro in metro, mano a mano che mi lasciavo alle spalle il centro cittadino e mi si apriva innanzi il vasto paesaggio della periferia, con gli alti alberi, le cssette di mattoni, gli orti, le aie, i giardini, qualche locale sparso, qualche osteria da cui usciva il fumo del tabacco e il vociare degli avventori, come se forze nuove venissero a sorreggermi al momento di ritrovare i miei cari amici di lassù: i campi di granturco, le risaie, le case dagli usci socchiusi e dai balconi di legno verde, le pareti incorniciate d’edera, le galline razzolanti nei cortili e che si spingevano, curiose, fino ai bordi della strada.

Tenendomi sempre a lato della roggia, che adesso era passata sul lato sinistro del viale, giungevo all’altezza del viadotto incompiuto, con le sue pietre irregolari rimaste in bella vista, simili a una ferita mai rimarginata, come congelato dalla magia d’un incantesimo, e proseguivo, sempre di buon passo, in direzione dello slargo al’altezza di Via Montello, dove la roggia faceva un piccolo salto, e poi ancora avanti, qualche volta a sinistra, verso la chiesa di Paderno, più spesso a destra, sempre lungo il Viale Vat, in direzione di Godia, un paesino remoto che aveva già nel nome qualche cosa d’insolito e remoto, qualcosa di barbarico. Il traffico era scarso e per nulla fastidioso, il viale bello ampio, tutto incorniciato dai platani che, in primavera, parevano risvegliarsi a nuova vita e ingentilirlo con i teneri germogli che spuntavano sui rami.

Le casette del lato sinistro, all’altezza del viadotto interrotto, erano sopraelevate rispetto al piano ella strada, perché la roggia correva nel letto scavato entro la massicciata: e quest’ultima veniva a scorrere, così, tra la fila ininterrotta dei platani da una parte, e i muretti dei giardini o le facciate delle case, dall’altra; una serie di ponticelli consentiva il passaggio dalle case al marciapiedi, conferendo all’insieme un singolare aspetto di città semi-acquatica, semi-veneziana, in contrasto con il resto dell’insieme, che sapeva più di una cittadina austriaca per molti aspetti dell’architettura e per il colore stesso delle pareti degli edifici.

Ricordo che immancabilmente, passando lungo quel tratto del viale, posavo lo sguardo su una di quelle casette, che aveva attratto, fin dall’inizio, la mia attenzione, e mi concedevo, per il breve volgere di qualche istante, una ingenua ed innocente fantasticheria. Era l’edificio più misero, il più patetico di tutti: spiccava in mezzo a quelle case tanto modeste, perché non appariva modesto anch’esso, ma decisamente povero, se non proprio squallido; né valevano ad attenuarne lo squallore i vasi di fiori alle finestre. Si affacciava direttamente sulla roggia, e i suoi muri scrostato parlavano di umidità e di un lungo abbandono: avrebbe avuto bisogno non solo d’essere ridipinto, ma proprio ristrutturato, perché s’intuiva che, se non cadeva ancora a pezzi, tuttavia poco ci mancava. Ebbene, su quella poverissima dimora io fantasticavo ogni volta e m’immaginavo che quella fosse la mia casa e che io vi abitassi, assolutamente povero, ma per il resto uguale a quello ch’io ero in effetti, con gli stessi pensieri, gli stessi sentimenti, e del tutto privo di vergogna quanto al fatto della mia povertà, che accettavo come una cosa perfettamente naturale, così come si accettano il sole e la pioggia, senza protestare e senza la pretesa di cambiarli.

E proprio in quella casa poverissima, dove tenevo, accanto al letto, i miei libri e custodivo i miei sogni, veniva a trovarmi, un giorno, una bella fanciulla che di me si era un poco innamorata; e neppure lei mostrava imbarazzo per la miseria dell’ambiente, forse per non mettermi a disagio, ma chiedendosi, senza dubbio, come io potessi vivere in tanta indigenza; e nello stesso tempo, mi pareva, quasi fiera di me, della mia dignità di ragazzino povero, ma indipendente, che non domandava aiuto a nessuno e non aveva bisogno di nessuno, ma guardava alla vita con serenità e coraggio, per quello che essa è, nella buona come nella cattiva sorte. La fantasia era tutta qui: non c’era un seguito, non c’erano scene d’amore: solo quella visita della ragazza, che avrebbe messo in imbarazzo qualcun altro, ma che in me non ne produceva affatto, anzi, semmai un moto di orgoglio, perché di essere povero io non mi vergognavo, tutto al contrario, mi pareva una condizione sociale come un’altra, qualcosa che rende una persona più interessante, perché deve averle insegnato cose che le altre non sanno e non immaginano neppure.

Oltrepassata la casetta in questione, anche la fantasticheria ave va termine: questione di alcuni secondi in tutto, forse un minuto al massimo; ma era come un rito, si ripeteva ad ogni volta; perfino se passavo a bordo dell’autobus non potevo non cercare con lo sguardo quell’edificio ormai familiare, né evitare di ricamarci sopra il minuscolo romanzo sentimentale a sfondo romantico, un romanzo senza capo e senza coda, indeterminato e vago quanto altri mai, e tuttavia gradito perché capace di evocare un sentimento strano, mescolanza di fierezza e di dolcezza, come una dolce carezza sulla fronte calda di febbre, tanto più consolante e gratificante quanto meno essa è aspettata e “dovuta”. Sia come sia, quella era diventata, senz’altro, la “mia” casetta; impensabile percorrere il viale senza indugiare a osservarla e senza fare la breve scorribanda nei regni dell’immaginazione: in fondo, è questo il segreto della geografia interiore: che cosa sono i luoghi, per noi, se non quello che noi abbiamo deciso che siano?

Ed ecco, il viadotto è oltrepassato, l’ampia curva del viale ha voltato decisamente a destra, si procede sotto le fronde dei platani lungo facciate di case sempre meno “cittadine”, sempre più campagnole, qualche bottega di alimentari, qualche piccolo bar di periferia, cortili e giardinetti sempre più frequenti, e un senso di vita tranquilla e sempre uguale a se stessa: monotona, forse, guardata da un certo punto di vista, ma per me così rassicurante, come il segno d’un trascorrere lento e solenne, come una musica d’organo, che non ha fretta, che non si lascia distrarre dalle cose secondarie, che procede dritto verso l’essenziale. E cose essenziali, per me, erano il canto del gallo, o il profumo delle caldarroste, o il tumultuare allegro della roggia che scorre entro i suoi argini e pare una giovane amica sempre in procinto di scoppiare in un’allegra risata. Essenziale era anche il movimenti uguale e misurato delle pale del mulino, lo stesso di un giorno prima, di un anno prima, forse di un secolo prima: simbolo della continuità della vita, del coraggio e della forza della vita, che va innanzi a dispetto di tutto e non si arrende mai, perché ha un segreto troppo bello e prezioso da custodire e tramandare alle nuove generazioni.

In fondo, tutta la vita non è che la ricerca di ciò che è essenziale e la capacità di riconoscerlo, tralasciando ciò che non lo è. Per i bambini, essenziale è la poesia, essenziale è il mistero della bellezza: per quella via essi si avvicinano alla verità ultima delle cose più di quanto riescano a fare gli adulti, con tutti i loro complicati ragionamenti. Perciò i bambini devono essere lasciati liberi di seguire tale istinto, e, se possibile, incoraggiati, non mortificati quando si adoperano per soddisfarlo: seguono l’istinto, che è infallibile, se esso non viene stravolto e seppellito sotto cumuli di cattive abitudini, trasmesse proprio dagli adulti. L’abuso dei giochi elettronici e, in generale, della tecnologia, così come la smania di distruggere le dolci credenze dell’infanzia, le fate, le presenze soprannaturali, sono cose che vanno nella direzione contraria al naturale sviluppo dell’anima infantile. I bambini amano sognare: è il loro modo di accostarsi alla realtà e d’interpretarla, ed è giusto che possano farlo.

Queste cose le penso ora, che tanto tempo è passato e quei luoghi sono probabilmente assai cambiati; o forse non sono cambiarti, forse anche allora non erano in altro modo che come li vedevo e li sognavo io, ed è un errore e un’illusione pensare che esista una realtà fisica oggettiva, perché le cose sono come noi le percepiamo, e null’altro.

Intanto il viale alberato si stendeva trionfante innanzi ai miei passi, maestoso, festoso, pur se immerso in una vaga malinconia da mercato in partenza; l’aria era piena del profumo della terra bagnata e qua e là si alzavano le nuvole di fumo delle foglie secche e delle ramaglie bruciate; il sole brillava alto e indorava le superfici, carezzandole dolcemente. Non avevo una meta: non c’era un punto preciso da raggiungere, per poi tornare indietro; seguivo l’ispirazione. Qualche volta prendevo per le stradine laterali, osservavo le piccole case di periferia, con i loro tetti ancora umidi di pioggia o della neve sciolta, con gli orticelli fradici, che evaporavano ai raggi del sole, e con la roggia che scorreva davanti ai portoni, passando sotto minuscoli ponticelli.

La meta, in fondo, era indeterminata, perché abbracciava tutto:la pianura all’orizzonte, le montagne bianche di neve, il cielo azzurro, infinito, la cui vista, dopo un poco, faceva venie le vertigini. La meta era ovunque e in nessun luogo: nel canarino che cantava sul balcone; nel viluppo della vite selvatica che arabescava tutta una parete; nella vecchia intabarrata nella sciarpa di lana, che tornava in bicicletta, con le borse della spesa appese ai due lati del manubrio; nel rumore della roggia che andava e andava, scintillando sotto i raggi del sole, gonfia d’acqua per le recenti piogge e per il disgelo sui monti, giovane e scalpitante come una puledra che vuole misurare le sue forze ed è insofferente di dover correre imprigionato fra due pareti di pietra.

Qualche volta, a caso, mi perdevo a guardare la cartina topografica della città, sempre attratto dagli ami spazi verdi che si aprivano tutto intorno, e specialmente a Settentrione, Avevo scoperto che ogni tratto, ogni “quadrante” aveva il suo nome specifico, che non aveva niente a che fare con i nomi delle vie e delle frazioni; uno, ad esempio, mi aveva colpito, perché era denominato “Gran Selva”, e, inutile dirlo, questo nome aveva acceso le mie più vive fantasie. Da quel momento, quella zona dell’estrema periferia era diventata una delle mete predilette delle mie escursioni solitarie: non mi chiedevo, come si chiederebbe un adulto, a quanto tempo addietro risaliva un nome di quel genere; e non sapevo che nel Medioevo, subito fuori le mura, esistevano boschi enormi, popolati da briganti, che si spingevano fino quasi alle porte cittadine. Non lo sapevo e, anche se l’avessi saputo, non credo che l’avrei collegato col presente, che avrei pensato all’origine storica di certi toponimi. Se c’era scritto che lassù era la Gran Selva, la gran selva doveva esserci: né valevano a spegnere le mie aspettative, con l’acqua fredda della delusione, il fatto di non incontrare alcuna foresta, ma , tutt’al più, macchie di alberi e sterpaglie, inframmezzate da campi e da vigneti. La foresta doveva ben esserci, da qualche parte, ma forse era ancora un po’ più avanti: bisognava aver fede e proseguire, senza stancarsi, senza vacillare. C’era, questo era sicuro; e ciò, appunto, era l’essenziale. Il fatto di non essere ancora riuscito a vederla, a raggiungerla, a toccarla con mano, era il fatto secondario: il prezzo che si deve pagare per arrivare all’essenziale.

A rafforzare questi pensieri, queste immaginazioni, talvolta giungeva un aiuto inaspettato anche dal mondo degli adulti: proprio da loro, così propensi al ragionamento positivo e a considerare quasi solo il lato pratico e utilitaristico della vita. Una volta, a scuola, un professore aveva detto, nel corso di un discorso che non c’entrava affatto, di aver saputo che esisteva, a pochi chilometri della città, - o, almeno, così mi sembrava d’aver capito: né ero tipo, allora, da alzar la mano per avere ulteriori schiarimenti - un bosco enorme, intricatissimo, simile alla selva descritta da Dante al principio della «Divina Commedia»; di non averci creduto, naturalmente; e poi, condotto lassù, di esseri realmente smarrito, e aver dovuto perciò ricredersi, tanto fitta e intricata e interminabile gli si era rivelata quella foresta: e quel che più mi aveva colpito era stato il tono della voce di quel professore, persona di solito così postata e razionale, in cui vibrava ancora un’eco di quello stupore, di quella inquietudine, forse anche di quello spavento.

Meraviglioso mondo dell’infanzia e della prima adolescenza, quando tutto appare possibile, anche stendere un braccio e toccare con mano il mistero, l’ineffabile, il meraviglioso. Tutto in essa è attesa di un’arcana rivelazione: per questo è così predisposta a ricevere le basi di un’educazione religiosa, e sbagliano di molto quelli che lo negano, quelli che giudicano troppo astratte le idee religiose per poterle trasmettere a un bambino. E che altro era, in fondo, quella ricerca dei vasti orizzonti, delle voci della campagna, della vista dei monti biancheggianti di neve, dei cieli aperti e smisurati, liberi dai tetti delle case, se non la ricerca dell’assoluto, vale a dire  la sete ardente e la gran fame di Dio?