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Capitalismo e decadenza irrazionale

di Alex Barone - 09/06/2015

Fonte: L'intellettuale dissidente


Il capitalismo, con le sue logiche produttive della creazione illimitata di merci e dello sfruttamento della manodopera ad oltranza (in nome di un guadagno senza controllo), ha prodotto, nelle coscienze umane, un progressivo annullamento delle logiche del limite e dell'ordine che, invece, avevano dominato la cultura greco-Latina, producendo effetti devastanti sull'ambiente e nelle vite sociali dei soggetti umani.

Il mondo contemporaneo, in seguito al crollo progressivo e radicale dei sistemi politici ed economici di stampo socialista, successivamente all’ormai notorio anno del 1989 (che, oltre ad indicare la data storica dell’abbattimento del muro di Berlino, indica, anche, teoreticamente la nascita ufficiale del moderno neo-liberismo), é divenuto, quasi interamente schiavo di un unico e globale modello politico, sociale, economico, ma, soprattutto, culturale: il capitalismo. Il capitalismo, infatti, non si rivolge esclusivamente all’ambito dei rapporti economici di produzione e di potere (perpetuando la sua scellerata strategia della libertà di mercato e di privatizzazione del maggior numero possibile di beni e servizi, producendo l’effetto contraddittorio della creazione di un sistema apparentemente democratico dove, nei fatti, il dominio sociale appartiene ad oligarchie finanziarie), ma, specialmente, elargisce nelle coscienze umane la folle e sciagurata ideologia dell’illimitatezza. Il capitalismo, infatti, pone alla base del suo operare, propriamente, il principio della produzione senza limite, senza ordine, senza freno e senza possibilità; da questa costante il sistema di produzione del capitale trae la sua linfa vitale, sviluppandosi, proprio, a partire dall’imperativo assoluto della creazione ad oltranza (poco importa che gli effetti devastanti di questa mancanza di equilibrio si abbatta ineluttabilmente sull’ambiente, sulle fasce sociali più deboli e sulle strutture del pensiero in generale). La logica della non logica della produttività senza inibizione, senza controllo, del consumismo sfrenato, dagli anni sessanta del precedente secolo ad oggi (periodo storico nel quale l’industrializzazione globale é divenuta una costante mondiale quasi senza arresto), gli assetti del pensiero, della riflessione, del giudizio e dell’azione stessa si sono alterati, nelle coscienze degli individui, i quali si sono sottomessi, sempre più intensamente, ai principi dogmatici della nuova religione del capitale, fatta anch’essa di rituali e liturgie mistiche follemente irrazionali proprie dei sistemi religiosi secolari, a partire dalla scelta dei costumi, del lessico, dei comportamenti e della visione globale del mondo, ma, soprattutto, gravitante attorno all’unica etica morale della ricerca spasmodica di tutto ciò che travalichi il senso dell’equilibrio, della moderazione e del razionale (poiché il capitalismo, con le sue contraddizioni più profonde e il suo infantile perseguimento del successo finanziario, non é razionale e l’ordinamento del mondo e delle società entro logiche di limite ragionevole implicherebbe la conseguente caduta del complesso capitalista, che si sviluppa a partire dagli pseudo-valori della liberissima azione individuale). Le società occidentali post-industriali, infatti, rispetto a quelle antiche (ad esempio quella greco-Latina), sebbene anche queste ultime, per alcuni aspetti, fossero sostenute da primarie forme di capitalismo produttivo (ad esempio per quanto riguarda il commercio degli schiavi), hanno visto un progressivo dissolvimento della cultura dell’ordine universale e del limite come perfezione delle cose che aveva caratterizzato quasi tutta la filosofia e la cultura dell’antichità. Pitagora ed i pitagorici esaltavano il limite rispetto all’illuminismo ed Aristotele, ad esempio, parla di “Giusto mezzo”, inteso come equilibrio etico-morale nel compimento di determinate azioni, dettato dai rigorosi principi della ragione, la quale, per forza di cose, pone limiti ed imperativi nell’azione umana. Il limite, inoltre, nel mondo greco e latino in generale, era sinonimo di compimento riuscito delle cose, mentre l’illimitato di caos, disordine, ingiustizia, malvagità. Una bella opera d’arte, nei canoni di bellezza dell’uomo antico -nel corso della storia ai canoni di giudizio estetico, come molta cultura filosofica rende noto, sono cambiati considerevolmente, adattandosi, sempre, alle strutture socio-politiche-, era considerata tale se rispettava precise norme e precisi schemi di creazione, inserendosi in un contesto di pensiero di ordine universale delle parti.

Oggi, invece, questo senso di controllo razionale delle cose, questa strutturazione ore-definita della realtà, nell’era del capitalismo scellerato, sono divenuti, quasi, orpelli della mente da superare ed abbattere, poiché una democrazia, per dirsi realmente tale, deve procedere verso la liberalizzazione totale del soggetto, che deve potersi muovere nel mondo seguendo le vie dell’illimitato (tanto che limite, oggi, é sinonimo di mancanza, mentre illimitatezza, di successo e stile). Chi non possiede più alcun valore di riferimento, oggi, non é più un disorientato che, probabilmente, deve ancora prendere coscienza di quel che vorrà fare ed essere nel mondo, ma un emancipato (come se l’emancipazione non fosse più rappresentata dalla propria capacità di combattere per i propri ideali, concretizzandoli, il dal fatto stesso di non aver alcun ideale).  Chi non rispetta più alcuna morale (che non dev’essere necessariamente quella religiosa, ma anche semplicemente una scala di valori filosofici), non é più considerato negativamente (chi non segue norme morali, probabilmente non possiede morale alcuna e nemmeno un pensiero ed una visione filosofica del mondo, probabilmente), ma un giusto, un moderno, un uomo di successo, che se ne infischia se attorno a sè esista un mondo, esistano rapporti sociali, esista una vita che meritano d’essere assorbiti in maniera più degna rispetto al semplice “fregarmene a-priori”. Negli stessi rapporti sociali ed, anche, mediatici, si nota questa aberrante deriva decadente dell’irrazionale: le trasmissioni televisive sono costellate di retoriche del turpiloquio senza limite, la frivolezza dell’irrazionale prevale sull’ ordine del razionale e non esiste nemmeno piú un canone di limite nelle esternazioni e dichiarazioni, tanto che il successo mediatico é determinato dalla capacità di esprimere i concetti meno sensati (sebbene siano provocatori) e non più trasmettere i messaggi piú sensati, razionali ed equilibrati. Nel mondo politico questa condizione si manifesta fenomenologicamente nei tormentoni retorici dei “grandi” leader, i quali ottengono ormai consensi non piú in relazione a quel che dicono ma al come lo dicono, e se la forma d’espressione é il piú irrazionale possibile, meglio ancora. Il capitalismo, in sintesi, ha prodotto, nelle coscienze umane un progressivo adattarsi alla morale dell’illimitato, una morale che, celandosi dietro alla bella apparenza dei principi della “libertà d’espressione (che in realtà rappresenterebbe altra cosa), distrugge ogni forma di controllo limitante del mondo, partendo dalla cultura e compiendosi definitivamente nella libera distruzione di ogni cosa, dall’ambiente, ai diritti sociali degli esseri umani. Nell’era della fede capitalista, poco importa che le scelte siano irrazionali e dannose all’intero sistema planetario, l’importante é che non siano dettate da alcun limite.