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La didattica centrata sul cliente

di Paolo Di Remigio - 16/06/2015

Fonte: il-main-stream




Il ministro Giannini, di fronte alle proteste contro la riforma della scuola, ha dichiarato alla stampa: “Sbagliato protestare, l’autonomia è di sinistra; vogliamo una scuola autonoma, responsabile e valutabile. Sono i principi della sinistra italiana progressista e illuminata che già aveva indicato Luigi Berlinguer”. È una frase che merita una riflessione.

Sbagliato protestare, l’autonomia è di sinistra”. Di fatto l’autonomia scolastica è stata introdotta con un governo di sinistra, cioè dalla legge Bassanini nel 1997 e dalla legge Berlinguer del 1999. C’è però un problema: questi esponenti politici di sinistra attuavano una politica di sinistra, cioè favorevole al progresso e all’emancipazione dei lavoratori dipendenti, o addirittura volta all’instaurazione rivoluzionaria della nuova società socialista? No, affatto. La riforma Bassanini e quella Berlinguer sono volte ad adeguare lo stato italiano all’impianto neoliberista dell’Unione Europea. L’Unione Europea, anche a voler credere alle sue migliori intenzioni, è condizionata nell’azione dalla Banca Centrale Europea, autonoma dal potere politico, che per statuto persegue come obiettivo fondamentale la lotta all’inflazione; ma si lotta all’inflazione debilitando la domanda, quindi rallentando la crescita economica così da aumentare la disoccupazione e diminuire i salari; cioè lottare contro l’inflazione implica l’attacco al tenore di vita e alla dignità dei lavoratori dipendenti, come vuole la destra. L’Unione Europea è dunque di destra, e Bassanini e Berlinguer, introducendo l’autonomia scolastica, pur continuando a dichiararsi e a essere creduti di sinistra, erano al servizio di un progetto di destra. A modo suo il ministro Giannini lo dice subito dopo: “Sono questi i principi della sinistra italiana progressista e illuminata”; in altri termini: l’autonomia è la riforma voluta non dalla sinistra retriva e oscurantista, ossia fedele alla sua tradizione, ma dalla «nuova» sinistra, quella che ha tradito i lavoratori e si è impegnata a impoverirli e a umiliarli. In effetti, i governi di destra, pasticciando le loro riforme, non hanno mai messo in discussione l’autonomia scolastica.

La proposizione: “Sbagliato protestare, l’autonomia è di sinistra” contiene dunque un termine contraddittorio: la sinistra di cui parla è una sinistra-destra. Agli insegnanti essa rimprovera l’incoerenza: protestano contro la riforma Renzi, che dell’autonomia è il semplice completamento, benché da quasi vent’anni si siano adattati alla riforma dell’autonomia; ma è un rimprovero a cui è facile ribattere che chi si appoggia a un fondamento contraddittorio si priva del diritto di lamentarsi dell’altrui comportamento contraddittorio. Non solo, richiamando le origini dell’autonomia dalla sinistra progressista e illuminata, il ministro fa un secondo passo falso: fa apparire la riforma dell’autonomia non estranea alla degenerazione attuale della scuola italiana. Il ministro vuole somministrare la riforma perché la scuola non funziona; ma ammette che la scuola che non funziona è quella che è già stata riformata. Quindi gli insegnanti che protestano non sbagliano: nella riforma sentono non un rimedio, ma l’esasperazione autoritaria di quel mutamento con cui si è innescato il disastro della «scuola autonoma, responsabile e valutabile», che distrugge la didattica e relega i giovani nell’ignoranza. Manca però loro la consapevolezza di quale specifico mutamento introdotto dall’autonomia scolastica sia responsabile del degrado.

Una certa abitudine dei nostalgici del Sessantotto ha portato a indicare il mutamento degradante indotto dalla riforma dell’autonomia con il termine scuola-azienda. Ma questa indicazione non coglie il fatto saliente. L’accostamento all’azienda non sarebbe di per sé degradante per la scuola; infatti un’azienda non è necessariamente un lager, ma un luogo in cui le persone lavorano, e la condizione dell’alunno ha alcune corrispondenze con la condizione del lavoratore: come il lavoratore l’alunno non decide cosa fare, si affatica, ha un compenso. Il fatto saliente è invece che con l’autonomia le scuole (ma anche le università) si mettono in concorrenza tra di loro per attrarre il maggior numero di alunni; se ne deduce che nella scuola-azienda il ruolo degli alunni è quello di clienti, non quello di lavoratori.

Il vero mutamento degradante non è tanto che le scuole siano considerate aziende, quanto che in queste aziende gli alunni siano stati trasformati in compratori della merce-formazione, in «domanda formativa» di un’«offerta formativa». Il problema non è la mercificazione della cultura; la merce non è il male, perché risulta dalla proprietà privata e dal suo scambio, fondamenti del diritto che ci consente di convivere, e il male consiste semmai nella loro lesione; la mercificazione della cultura è una sua forma di esistenza, forse preferibile a quelle alternative del mecenatismo e della committenza. Il problema è un altro e meno controverso. Lo scambio di merci, per quanto fondato sull’uguaglianza dei loro valori, implica un’asimmetria tra venditore e compratore: il venditore ha una merce che pochi vogliono, il compratore ha il denaro, che tutti vogliono; dunque il venditore è più debole del compratore. Con la sua trasformazione in cliente, l’alunno diventa quindi più forte della scuola, la scuola più debole dell’alunno. Tutte le insensatezze dell’autonomia scolastica discendono da questa sua assurdità originaria per cui il mondo adulto che si mette alle dipendenze del mondo immaturo, e dagli espedienti che invano cercano di nasconderla e renderla inoffensiva.

L’assurdità è tradita già nell’espressione «insegnamento-apprendimento», comune nella pedagogia dell’autonomia. Essa, come quella di compra-vendita, esprime una contemporaneità tra i due atti; mentre però il comprare e il vendere sono lo stesso atto considerato dai due punti di vista implicati, l’insegnamento è l’inizio della didattica e solo in quanto sottopone l’alunno alla fatica dello studio individuale e ne controlla i risultati termina con l’apprendimento. A un’ora di insegnamento universitario ne corrispondono molte di studio individuale; in diversa misura questa sproporzione vale sin dalle elementari: lo studio degli alunni si completa nei compiti a casa, somma cioè l’impegno scolastico e quello domestico. Ogni apprendimento è infatti condizionato dalla fatica della ripetizione meccanica; senza questa fatica la memoria resta vuota, l’abilità non si sviluppa, la creatività resta dilettantismo; nessun metodo didattico può risparmiarla, proprio come la preparazione del cibo non è la digestione e non può sostituirla. Svanita la centralità della fatica dello studio individuale, cessa anche il criterio che distingue la didattica efficace; questo criterio consiste nella capacità di presentare la scienza come un’esigenza vitale, il suo studio desiderabile, la difficoltà del suo momento meccanico sormontabile; ma la scuola dell’autonomia, timorosa di perdere clienti con la severità della disciplina, ha espulso la scienza e dispensato gli alunni dalla disciplina; così trovare docenti che facciano lavorare è sempre più difficile: c’è chi assegna per casa compiti a piacere, chi non li assegna affatto per timore di mortificare la creatività dei suoi alunni con attività meccaniche o per paura di correggerli.

Poiché si presenta come offerta formativa, cioè come venditrice, la scuola dell’autonomia si umilia fino al servilismo. Sarebbe noioso enumerare le mille forme di questa umiliazione; possiamo menzionare il disprezzo della lezione frontale, cioè dell’autonomia del logos, la rinuncia al linguaggio in favore dell’immagine, il disperdersi nel creativo a scapito della ripetizione, l’energia dispersa nell’apparato pubblicitario (l’«open day») con tanto di balletto per aumentare le iscrizioni. Ma, più in profondità, la scuola dell’autonomia si umilia disprezzando l’autorevolezza della scienza e della tradizione culturale e l’autorevolezza che l’insegnante trae dal padroneggiarle – un’autorevolezza fondata non su dogmi, ma sul duro lavoro di riflessione critica: la forza del sapere rispetto alla debolezza dell’ignoranza, contro la quale la pigrizia naturale appare come colpevolezza.

Poiché esprime domanda formativa, l’alunno-cliente non è un individuo che soffre la piaga dell’ignoranza; la scuola dell’autonomia lo esalta: come il cliente ha i suoi gusti e le sue esigenze, l’alunno ha un suo sapere, per esempio quello accumulato in tante ore di video-giochi, non meno valido di quello della scuola. Anziché insegnare ex cathedra, questa deve liberarne la creatività; anziché tediarlo con teorie obsolete, deve dargli l’opportunità di esprimersi in attività nuove e divertenti; anziché assillarlo con le verifiche e le valutazioni, rassicurarlo del successo scolastico – obiettivo non proibitivo dopo la vanificazione dei contenuti scientifici che appiana ogni difficoltà di studio, anzi, conseguibile senza eccezioni in quanto nell’apprendimento dell’alunno ci si limita a rilevare ciò che c’è e si ignora ciò che non c’è.

Così la scuola si riduce a una finzione, e se gli alunni imparano ancora qualcosa ciò avviene soltanto per l’impegno caparbio degli insegnanti che conservano il senso della loro dignità.

Il primo motore di questo processo è la volontà del capitalismo neoliberista di trasformare in occasione di profitto gli ambiti della vita sociale che lo stato ha gestito con successo a partire dal secondo dopoguerra. Questa volontà escogita dapprima riforme per sabotare progressivamente la scuola pubblica; poi, passando sotto silenzio che proprio le riforme sono la causa del male, facendo anzi finta che il male sia la residua presenza del vecchio, attua come se fosse il rimedio il completamento della riforma. In realtà il capitalismo neoliberista sa bene che non è così: la scuola anglosassone che da sempre tratta gli alunni come clienti è una vergogna di cui gli stessi anglosassoni arrossiscono; ma non rinuncia al suo piano, perché sa ancora meglio che la scuola-centro commerciale è occasione molteplice di profitto, innanzitutto come consumatrice di paccottiglia formativa, poi perché il suo degrado crea la domanda di una scuola privata meno degradata di quella pubblica.

Si pone il problema di perché gli insegnanti italiani non abbiano reagito alla degenerazione imposta alla scuola e all’umiliazione della loro dignità. I motivi sono vari. Innanzitutto nelle prime fasi della riforma gli arricchimenti extra-curricolari che hanno soppiantato l’insegnamento effettivo sono stati non solo incoraggiati ideologicamente, ma anche compensati col fondo d’istituto. La riforma ha poi garantito ai sindacati un ruolo come finta controparte del dirigente e ha permesso loro di mettere le mani nella pasta del fondo d’istituto; così non solo ha evitato ogni loro reazione, addirittura li ha conquistati all’entusiasmo per la causa. Inoltre la coscienza professionale degli insegnanti era già devastata dalla mentalità sessantottina. Una canzonaccia sulla scuola del povero Antonello Venditti, che purtroppo si è impressa nella memoria di chi scrive, anticipa di almeno trent’anni alcune atmosfere della riforma Renzi: dopo aver diffamato Dante per esigenze metriche, i professori perché ripetono sempre le stesse cose, il cantautore musica l’anelito studentesco alle “assemblee”, ai “cineforum” e ai “dibattiti”, cioè formula il principio della superiorità didattica del piacere di parlare a ruota libera rispetto alla fatica del ripetere. Infine l’autonomia scolastica, da Bassanini a Renzi, è dettata dall’Unione Europea; finché questa non è riconosciuta come strumento principale del disastro europeo e italiano, la natura maligna di quella resta al sicuro dalla consapevolezza.