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«La città morta» di D’Annunzio è una tragedia mancata?

di Francesco Lamendola - 16/06/2015

Fonte: Arianna editrice


 

 


 

«La città morta», scritta da Gabriele D’Annunzio nel 1896, ma già concepita l’anno prima, durante il viaggio in Grecia, e portata sulle scene italiane da Eleonora Duse, su quelle parigine dalla mitica Sarah Bernhardt, nel 1898, è una tragedia che pone un serio problema al critico e allo storico della letteratura. Deve essere considerata come un’opera “sbagliata”?

Da sempre, gli studiosi di D’Annunzio si dividono, riguardo ad essa, in due gruppi e, diciamo così, in due opposte scuole di pensiero: che vede ne «La città morta» un grosso sforzo dell’Autore per creare un’opera duratura, capace, addirittura, di rivaleggiare con l’antica tragedia greca, e, nella fattispecie, con l’«Antigone» di Sofocle; e chi, tutto al contrario, la considera un’opera minore in ogni senso, composta in maniera frettolosa e approssimativa, più per ragioni estrinseche – e, in modo particolare, per le impellenti necessità economiche – che sotto l’impulso di un’autentica e profonda ispirazione.

Ma poiché ci sembra che abbia poco senso fare il processo alle intenzioni, vediamo di attenerci ai fatti e di formarci poi una opinione, basandoci innanzitutto su di essi; e i fatti, in materia di critica letteraria, non possono essere altro che il testo. Proviamo dunque a valutare serenamente, dal punto di vista estetico, «La città morta», non per quello che avrebbe potuto o dovuti essere in base a questo o quel preconcetto ideologico, ma per ciò che essa effettivamente è; evitiamo di lasciarci influenzare da elementi di giudizio extra-estetici.

Innanzitutto, l’azione drammatica. L’archeologo Leonardo è riuscito a coronare il suo sogno: al termine di una campagna di scavi «nell’Argolide sitibonda e ricca d’oro», presso la città di Micene, ha portato alla luce le favolose tombe di Agamennone e di Cassandra, fatti uccidere da Clitennestra dopo il ritorno del re dalla guerra di Troia, insieme alla nuova concubina greca.  Con Leonardo sono sua sorella, Bianca Maria, dolce creatura che trascorre il tempo leggendo Sofocle, e gli amici Alessandro ed Anna, marito e moglie, lui poeta, lei, priva della vista, altra dolce creatura: due donne che vivono in adorazione dei loro uomini, rispettivamente il fratello e il marito. Ma Alessandro è innamorato di Bianca Maria e, a un certo punto, non può trattenersi dal dichiarare il suo amore alla giovane donna, la quale sta maneggiando le maschere d’oro scavate dal fratello (scena che ricorda il comportamento realmente tenuto dalla moglie di Schliemann, alla cui figura D’Annunzio si è certamente ispirato per delineare il personaggio di Leonardo). Ella respinge Alessandro, non solo per rispetto alla povera Anna, ma anche per un oscuro sentimento che la lega indissolubilmente al fratello, al quale ha deciso di consacrare la propria intera esistenza, restando vergine. Leonardo, a sua volta, ama Bianca Maria, ma l’ama di un amore possessivo, geloso: l’ama come un amante e non come un fratello, anche se non osa parlare di questo con lei, anzi, tenta in ogni modo di nasconderle un tale sentimento, di cui sente tutto il peso e la vergogna.

Le cose giungono alla svolta irreversibile allorché Leonardo, folle di gelosia nei confronti di Alessandro, e temendo che la sorella ricambi la passione dell’amico, si apparta con Bianca Maria in una passeggiata verso la fonte Perseia, nella campagna solitaria, meditando il delitto che dovrà liberarlo dal timore di perderla e, nello stesso tempo, da quell’amore incestuoso che lo ossessiona oltre ogni sopportazione. Anna, che ha intuito l’amore del marito per la fanciulla, e anche l’incombere di una inesplicabile tragedia, lo incita ad affrettarsi verso la fonte, ma egli vi giunge troppo tardi: Bianca Maria, ormai, è morta; subito dopo, brancolando, giungerà pure Anna.

Si sostiene che D’Annunzio ha voluto creare un dramma moderno, capace di rivaleggiare con la tragedia greca; e, in particolare, che ha voluto rappresentare un dramma “catartico”, capace, cioè, di sublimare le passioni del pubblico, mettendo in scena la vicenda dei suoi personaggi e offrendo Bianca Maria come vittima espiatrice, un po’ come la figlia di Agamennone, Ifigenia, era stata offerta in sacrificio per propiziare la partenza della flotta greca, immobilizzata dalla bonaccia, alla volta della dei lidi troiani.

Ora, sarebbe relativamente facile mostrare che, se questa è stata intenzione di D’Annunzio, egli è caduto in tutta una serie di più o meno gravi fraintendimenti del senso della tragedia greca, stravolgendo concetti fondamentali come quello di “destino”, di “espiazione” e perfino di “tragedia”: perché i suoi personaggi non violano le regole base dell’”ethos” classico, né, tutto sommato, di quello moderno, a parte l’amore incestuoso di Leonardo per Bianca Maria, che, però, ha l’aria di essere “imprestato” al dramma come situazione accessoria e tutta letteraria, ben lungi, com’è, dall’offrire la struttura portante della tragedia stessa.

La quale ruota, invece, sul fatto dello scavo archeologico e della resurrezione della città morta: tale è la grande, profonda passione di Leonardo, passione di scienziato più che di artista, anche se gli la vive con esaltazioni e furori romantici, degni più d’un esteta del Decadentismo: spia di una fondamentale incertezza del D’Annunzio stesso, che, in quegli anni, ondeggiava fra teorie estetiche positiviste, di cui sembrava condividere l’impostazione “obiettiva”, “realista” e “scientifica”, e la sua autentica vocazione simbolista e decadentista, che lo orientava, invece, verso una dimensione lirica, soggettiva, creativa e, soprattutto, mitica e allegorica.

Molto acute le osservazioni svolte in proposito dallo storico del teatro Andrea Biscicchia in «D’Annunzio e il teatro. Tra cronaca e letteratura drammatica» (Milano, Mursia, pp. 30-5):

 

«”La città morta” è un’opera di apprendistato, formata da un accumulo di termini presi in prestito ora da Nietzsche, ora da Aristotele, ma che, alla prova dei fatti, si mostrano alquanto anacronistici.

La tragedia inizia con Bianca Maria che legge l’”Antigone” di Sofocle; basterebbe confrontare questo attacco con i dialoghi successivi per notare l’enorme differenza linguistica e per capire come tutto in Sofocle nasce da uno spasimo di verità che coincide col desiderio di morte dell’eroina greca, protesa a portare fino in fondo la sua missione. D’Annunzio riporta la Strofe, l’Antistrofe e le battute del Corifeo, m attraverso una tradizione che privilegia la parola Eros ad Amore, a cui fa seguire le dolenti parole di Antigone (siamo nel terzo canto, intorno all’ara). C’è, quindi, un preludio di morte che dovrebbe accordarsi con la storia di Bianca Maria che non è certamente un’eroina. D’Annunzio per giustificare l’azione tragica ed il delitto finale, inventa una sorta di ereditarietà tra gli antichi delitti e quelli di oggi, una continuità del Fato; ma la crea con le parole, con lunghi monologhi che cercano di spiegare tutto, mentre la vera tragedia non ha alcun bisogno di spiegazioni. Il pretesto di Leonardo di fare della sorella una novella Ifigenia, la vergine figlia di Agamennone condotta al sacrificio, è solo tale; egli è proteso alla realizzazione di un’idea che soltanto esteriormente si trasforma in passione e in tormento. Bianca Maria ne avverte l’esaltazione; ma anche il suo partecipare alla febbre del fratello, sa di esteriorità. Quando confessa ad Anna di essersi consacrata al fratello, e di vivere il destino di Antigone, non credo che sappia cosa voglia dire destino della tradizione greca, non vi scorge né la coscienza della fatalità, né il conflitto tra finito ed infinito, né il cammino di una esperienza interiore. In D’Annunzio, l’esperienza tragica si trasforma in esperienza estetica, e solo più avanti, in esperienza rituale. Bianca Maria si immedesima in Antigone solo esteriormente, prova pietà per la creatura sofoclea e partecipa al suo dolore, mentre Alessandro, il poeta, vorrebbe che Bianca Maria, di cui è innamorato, leggesse l’”Elettra”, sempre di Sofocle. Troppe letture, troppi rimandi, come se i destini di Antigone, Ifigenia ed Elettra fossero eguali! Ciò che le accomuna  l’esperienza del sacrificio; ma i loro percorsi sono diversi: Antigone rappresenta lo scontro tra potere e libertà; Ifigenia consuma sulla scena la mostruosità del potere; Elettra vive per la vendetta. Bianca Maria per che cosa vive? Leonardo ha un destino da compiere? Alessandro ed Anna che cosa rappresentano? Può bastare l’eredità della maledizione, quella che pesò sugli Atridi e che ritorna dopo la scoperta delle loro tombe?» Una simile scoperta può esaltare l’orgoglio di un archeologo, non può certo risvegliare delle colpe inesistenti. E poi quali colpe? La colpa tragica è qualcosa di diverso, essa colloca l’eroe in una situazione di fatalità, di un “limite” con il quale si scontra. Il “limite” può essere raffigurato nella legge, nell’invidia del dio, in un ordine precostituito. Chi trasgredisce ne paga il fio. Leonardo ha trasgredito ad alcun ordine o legge? Semplicemente ha svolto la professione di ricercatore, con ottimi risultati. La sua colpa potrebbe essere conseguenza non di uno stato razionale, ma di una situazione allucinatoria, di una malattia, che va curata clinicamente, diventerebbe, al massimo, un assioma psicanalitico. Nella colpa di Leonardo è assente la necessità tragica; la sua colpevolezza potrebbe essere una variante dell’angoscia. Ma allora chiediamoci perché è angosciato? Forse perché la scoperta delle tombe ha risuscitato in lui l’antico orrore, quello della strage? Ma quale rapporto esiste tra la strage degli Atridi ed una idea di strage? Alessandro si accorge del suo stato allucinatorio: “Tu parli come uno che esca da una allucinazione / come uno che sia in preda al delirio”. La costrizione del personaggio di Leonardo fa, quindi, pensare ad una tipologia che D’Annunzio ha già sperimentato nei “Sogni”; può così far parte di una galleria con quadri dallo stesso soggetto. In questo senso, Leonardo è un personaggio del proprio tempo, dato che la crisi della psiche coincide con la crisi di identità.  Certamente Leonardo soffre questo stato di allucinazione, ma il suo dolore non ha nulla a che fare col dolore tragico, per il quale esiste una precisa grammatica del patire. D’Annunzio per dare credibilità alla colpa di Leonardo, inventa il motivo dell’incesto; solo che nel dramma se ne avverte la superficialità, poiché appare più come un espediente tecnico, che una necessità tragica. […] Il patimento di Leonardo mi appare perivo di dolore, proprio perché sofferto in uno stato allucinatorio, di ebbrezza, dovuta anche alla gloria che gli deriverà dalla scoperta. Soltanto più avanti, verso la fine dell’atto secondo, scopriamo l’amore per la sorella, durante la confessione che farà ad Alessandro, un amore che si è trasformato in febbre terribile ed in angoscia, in lotta disperata contro la necessità della natura, vissuta più con le parole che con gli spasimi. Solo Anna-Cassandra ha il presentimento della tragedia; ella più volte ha sentito il turbamento di Leonardo, come ha avvertito quello di Alessandro per Bianca Maria, tanto da credersi già in possesso della verità: “Della verità che io conosco ormai e che nessuno / può nasconde e che nessuno può mutare,  nessuno / può mutare.”Anna, con la sua cecità, si accusa, a sua volta, di essere la causa di tanta miseria, divenendo un ostacolo al vitalismo dannunziano, piuttosto che alla fatalità tragica.  Da Anna, Leonardo apprende l’amore di Bianca Maria per Alessandro; una notizia che lo predispone alla catastrofe, ovvero a punire la sua trasgressione attraverso un meccanismo sacrificale  che risulta ben lontano da quello dell’esperienza tragica. È noto come i tragici greci ricorrano al rito del sacrificio per sottolineare la sofferenza  dei loro eroi, una sofferenza che si conclude con la morte, e che fa ricorso ad un linguaggio ben preciso. […] D’Annunzio continua a sprecare termini come: colpa, destino, necessità, che però rimangono estranei  all’azione della sua tragedia mancata che, nel quinto atto, prende, però, una svolta originale attraverso la ricerca dell’atto puro, grazie al quale Leonardo, ormai in delirio, intende salvare l’anima della sorella dall’orrore.  Si tratta di una catarsi tutta dannunziana che sfrutta il sacrificio in chiave decadente, e che conclude la “Città morta”, ovvero una tragedia che registra l’assenza di ambiguità, di problematiche reali, di approfondimenti psicologici, ma ricca di debiti e di crediti rispetto al modello originale, che ne mettono in evidenza tutti i difetti di costruzione. […] Del resto Leonardo un archeologo-poeta , che aspira alla “visione” più che alla scoperta in sé;  in lui l’anima dell’artista ha spesso il sopravvento su quella dello scienziato. È una costante, questa, che troveremo spesso in D’Annunzio e che vedremo sottoposta ad una serie di varianti, sia quando si rapporto col mito, con le leggende o con la storia. È, in fondo, la costante dell’estetismo che ha il sopravvento su un vero e proprio recupero del “genere” tragico. L’inconsistenza di certe rievocazioni antiche fu sottolineata da Mario Morasso nel 1903, quando a proposito del fato, rievocato da D’Annunzio,  ne sosteneva la pura verbalità, perché “mai non si vede scaturire come una necessità. […] Necessità fisiologiche e estenuazioni, debolezze nervose ben note, a questo si potrebbe ridurre il pauroso fato che sconvolge gli eroi della “Città morta”. In questo modo quello di D’Annunzio diventerebbe  non un equivalente del tragico fato ellenico, ma addirittura, l’antitesi.»

 

Ad ogni modo, quali che siano state le reali intenzioni di D’Annunzio, possiamo e dobbiamo chiederci se egli sia riuscito a dare vita ai suoi personaggi, a soffiare nella loro storia il fiato della realtà, a immettere nel tessuto della vicenda il senso di una fatalità reale, concreta, conseguente, oppure è rimasto nella sfera delle ambizioni mancate, dei desideri velleitari e irrealistici, mostrando dei manichini, più che dei personaggi, e un a sceneggiatura, più che una storia di vita vera? Naturalmente, è difficile - se non impossibile – rispondere a tali interrogativi, senza entrare nel terreno sdrucciolevole della personale sensibilità estetica e della soggettiva capacità di giudizio; ma sappiamo che la valutazione dell’opera d’arte, teatro compreso, è, in certa misura, un fatto relativo, non soggettivo, nel senso che esistono, comunque, una grammatica e una sintassi di base, in merito alle quali giudicare riuscita o no l’opera stessa, anche se poi i giudizi potranno divergere su singoli aspetti di essa, ma non tanto sul suo valore complessivo, come creazione unitaria.

Ebbene, a noi sembra che esistano pochissimi dubbi sul fatto che «La città morta», per come parlano i personaggi, per come si muovono, per quello che dicono e per quello che tacciono, per il mondo interiore che rivelano, pur avendo il D’Annunzio rispettato la regola aristotelica della triplice unità d’azione, di tempo e di luogo, deve essere considerata alla stregua di una tragedia mancata e, in definitiva, “sbagliata”. I personaggi, infatti, i loro dialoghi, la loro vicenda, non riflettono una tragedia realmente vissuta, scaturente dalle profondità delle circostanze e dall’intima necessità del loro dinamismo interno, ma riflettono un qualcosa di pensato, di letto, di preparato artificialmente, non in base alla logica dell’azione da cui essi sono portati, ma in base a ciò che il loro Autore ha deciso riguardo ad essi, allorché li ha creati.

Il loro peccato originale, dunque, non è tanto – come mostra di credere il Bisicchia – il non aver rispettato lo spirito autentico della tragedia greca, ma il n on aver dato espressione alla loro sostanza profonda, di non essere stati coerenti con se stessi; in altre parole, di non essere stati all’altezza di ciò che la loro storia, peraltro assai sforzata e artificiosa, li avrebbe portati a dire, a fare, ad essere. E non c’è difetto peggiore per un’opera teatrale.

Leonardo, in particolare, appare come sospeso ed incerto fra due poli: la sua vocazione totale di archeologo, “invasato” dal sacro fuoco della volontà di potenza, proprio nel senso nietzschiano (diventare il signore del tempo, far rivivere ciò che era morto) e la sua pulsione erotica e incestuosa nei confronti della sorella; ma un eroe tragico non può essere diviso fra due destini divergenti quanto alla specie, semmai quanto al contenuto; altrimenti scivola inevitabilmente nel confuso, nel vago, nell’irrisolto. E tali caratteristiche possono attagliarsi all’anti-eroe, all’inetto (come, per certi versi, è, effettivamente, Andrea Sperelli ne «Il piacere» (scritto nel 1888 e pubblicato l’anno dopo: dunque, sette anni prima de «La città morta»); ma Leonardo non è, né vuol essere, un inetto, semmai un eroe tragico che si rivela non all’altezza della meta che si è posto (un po’, se ci si concede il raffronto, come Raskol’nikov in «Delitto e castigo» di Dostoevskij.

Persino la tragedia finale, l’assassinio di Bianca Maria da parte di Leonardo, il fratello che appassionatamente l’ama, ma che odia con tutto se stesso il proprio amore, non convince, perché ha qualche coxa di vago ed irreale: essa è stata bensì preparata, psicologicamente, da una serie di indizi in crescendo, che hanno creato un climax di attesa angosciosa – più alla maniera di Maeterlinck, in verità, che alla maniera di Sofocle -, ma in una forma che non convince, perché priva, o troppo debole, di dinamismo interno, di forza propria, come se a guidarla fosse un disegno esterno: quello, appunto, dell’Autore. E, anche da questo lato, non sapremmo immaginare un difetto più grave per un’opera teatrale: quello di apparire come diretta da una logica estrinseca e non dalla forza intima dei personaggi e delle loro motivazioni.