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Quando i nazisti progettavano lo Stato del Friuli con Marco d’Aviano quale nume protettore

di Francesco Lamendola - 16/06/2015

Fonte: Arianna editrice


 

 


 

È una cosa abbastanza nota che gli Italiani conoscono poco la propria storia, e il proprio patrimonio culturale, se conoscere vuol dire saper andare al cuore delle cose, sfrondato di ogni retorica; e la stessa cosa vale, a maggior ragione, per un piccolo popolo che vive da sempre ai margini della Penisola, quello friulano.

In effetti, i Friulani si sentono e non si sentono un popolo; possiedono una propria lingua e, da qualche decennio, hanno imparato ad andarne orgogliosi, mentre prima, un po’ se ne vergognavano; amano anche, in linea di massima, le loro tradizioni; tuttavia non si può dire che conoscano bene il proprio patrimonio culturale, né che siano del tutto consapevoli della propria specificità. La parlata friulana ha perso molto terreno, nel corso del Novecento: è pressoché scomparsa da Udine e si difende, non sempre con successo, dal dilagare del friulano e del dialetto veneto importato dalla Serenissima dopo la caduta del potere temporale dei patriarchi di Aquileia.

Per sentirsi un popolo è necessario non solo avere, oggettivamente, una propria storia, una propria lingua, una propria radice etnica: bisogna che a tutto questo si accompagni una coscienza e, inoltre, bisogna avere, nel proprio retaggio storico, qualche nome illustre, qualche evento speciale, nei quali tale coscienza appaia pienamente matura, come una specie di bandiera ideale. L’ideale sarebbe avere la propria Giovanna d’Arco o il proprio Dante Alighieri: qualche eroe, qualche esempio insigne di vita, di pensiero, di azione, sia pure di umile estrazione, anzi, meglio se di umile estrazione, perché più direttamente legato alle radici popolari: qualche personaggio di cui andare fieri e in cui si compendiano le migliori qualità nazionali.

Il popolo friulano, sospeso fra tre mondi – quello latino, quello germanico e quello slavo – possiede una sua specificità storica, geografica e culturale, se pure largamente influenzato dall’influsso tedesco – i Longobardi, la nobiltà feudale, i patriarchi aquileiesi di nazione germanica – ma, nello stesso tempo, ha una debole coscienza di sé; il suo tipo psicologico più caratteristico è segnato dalla laboriosità e dalla sobrietà, ma anche da una certa tendenza alla rassegnazione stoica, frutto di una plurisecolare povertà e di una lunga esperienza di emigrazione. Il contadino e il manovale friulani sono apprezzati in tutto il mondo: hanno costruito la ferrovia transiberiana e messo a coltura le colline del Rio Grande del Sud, in Brasile; ma, come gli eroi di Verga, non sono tipi propensi alla ribellione o al gesto clamoroso, soffrono in silenzio e piegano il capo al destino.

Se si chiedesse ad un Friulano di media cultura di ricordare qualche illustre personaggio della sua terra, che abbia particolarmente illustrato le qualità della stirpe, difficilmente si arriverebbe, crediamo, a più d’una decina di nomi, e forse anche meno; difficilmente si andrebbe molto indietro nel tempo, perché per fare questo ci vuole memoria storica, e le nuove generazioni vivono molto, forse troppo, nella dimensione del presente. Certo, da qualche anno si parla del frate cappuccino Marco d’Aviano, che predicò la difesa d’Europa presso le corti e i sovrani del XVII secolo, dando un contributo decisivo alla difesa di Vienna e alla vittoria nella battaglia del Kahlenberg contro i Turchi, nel 1683, alla quale era presente per rincuorare le truppe. Ma è significativo che questo personaggio, famosissimo al suo tempo e popolarissimo a Vienna (ove gli fu eretto un monumento) e a Budapest, alla cui riconquista era, ancora, presente, non sia mai stato molto conosciuto nella sua terra natale e meno ancora fosse stata compresa e riconosciuta la statura continentale del la sua persona e della sua opera, senza la quale, probabilmente, la storia d’Europa sarebbe stata diversa.

La sua riscoperta è cosa recentissima, forse anche perché le sue spoglie mortali riposano nella Chiesa dei cappuccini, a Vienna, dove gli era stato tributato, nel 1699 (l’anno della risolutiva battaglia di Zenta contro i Turchi); in pratica, coincide con la sua proclamazione a beato, da parte di Giovanni Paolo II, nel 2003. Ebbene, i primi a porre una lapida commemorativa sulla facciata della sua casa natale furono i nazisti del Kommando “Adria”, insediato nel Litorale Adriatico (comprendente le province di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume, Lubiana) dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Essi avevano creato uno speciale ufficio per lo studio e la valorizzazione del  patrimonio etnico e culturale friulano e intendevano promuovere la fama di padre Marco nel contesto d’un progetto politico volto alla creazione di un futuro stato-cuscinetto (Pfufferstaat) del Friuli, che, a guerra finita, avrebbe dovuto fare da intercapedine tra una Italia ridimensionata nelle sue ambizioni di grande potenza e un Terzo Reich assurto al ruolo di potenza egemone del continente europeo.

Era successo che, dopo la battaglia di Stalingrado e, poi, quella di El Alamein, perfino fra gli orgogliosi capi politici e militari tedeschi si era insinuato il dubbio nella possibilità di una vittoria totale, cosa che aveva reso alcuni di essi meno rigidi e più possibilisti riguardo al progetto, già prima avanzato, ma solo da pochi, di un maggiore coinvolgimento di alcune nazionalità “minori” nel disegno del Nuovo Ordine europeo. Hitler, per esempio, si era sempre opposto al reclutamento di soldati fra i militari fatti prigionieri e le popolazioni dell’Unione Sovietica, in funzione anti-sovietica; ma, dopo Stalingrado, apparve chiaro che sarebbe stato un grave errore quello di rifiutare l’offerta di collaborazione del generale Vlasov e di altri elementi, specialmente cosacchi, per costituire dei reggimenti e delle divisioni da impiegare in guerra. Perfino nel reclutamento delle SS, le truppe di élite dell’ideologia razzista del nazionalsocialismo, si divenne meno esigenti e Himmler fu autorizzato ad arruolare, nelle loro formazioni, tenendole però separate da quelle tedesche, volontari francesi, belgi, italiani, slavi e perfino bosniaci di religione musulmana, beninteso sotto la guida di ufficiali superiori di nazionalità germanica.

Per quanto riguarda le truppe russe anticomuniste, però, apparve subito chiara l’estrema difficoltà di impiegarle sul fronte orientale, perché i Sovietici, in caso di cattura, le passavano senz’altro per le armi; si cominciò allora a destinarle ai Balcani, nelle operazioni di controguerriglia, e, a un certo punto, anche nell’Italia settentrionale. Nacque così l’idea di trasferire in Friuli, e precisamente nelle valli della Carnia, circa 40.000 persone, fra soldati e le loro famiglie, sotto la guida dell’ataman Krasnov, destinandoli alla lotta contro i partigiani italiani e sloveni e promettendo loro, a guerra finita, una nuova patria, un Kosakenland, proprio in quella terra. Fu uno spettacolo impressionante e quasi incredibile, per i cittadini di Udine, nel 1944, l’arrivo di quelle truppe esotiche, le quali, scese da ben cinquanta tradotte ferroviarie, attraversarono tutta la città con i loro mezzi e perfino con i loro reparti cammellati, diretti verso la Carnia, ove andavano a spazzar via l’effimera repubblica partigiana ivi proclamata nel corso dell’estate.

Come i nazisti pensassero di conciliare l’idea di far risorgere uno stato friulano nominalmente indipendente, cin quella di creare in esso una nuova patria per i Russi anticomunisti del Don, del Caucaso e di regioni ancor più lontane, è cosa che non appare del tutto chiara: ma questo è il fatto. Venne perciò creato un ufficio di propaganda, con numerosi corrispondenti, più una stazione radio insediata a Trieste, e venne curata la stampa, al fine di sensibilizzare l’opinione pubblica al tema della identità culturale friulana e, un poco alla volta, a quello della eventuale indipendenza. Furono promossi le danze popolari e tutti quegli aspetti del folklore che avrebbero potuto irrobustire e rivitalizzare il sentimento patriottico ladino; la posa della lapide per Marco d’Aviano rientrava in questo disegno ad ampio raggio.

Tutto questo fu svolto con molta discrezione, perché il destino finale del Litorale Adriatico rimaneva, ufficialmente, impregiudicato: contrariamente a quel che si crede, non venne fatto alcun passo concreto in vista di una sua annessione alla Germania (così come nel caso della Zona di guerra delle Prealpi, comprendente le province di Belluno, Trento e Bolzano). Di fatto, oltre al riguardo personale che Hitler aveva nei confronti di Mussolini, esistevano diversi orientamenti anche all’interno dei circoli politico-militari del Terzo Reich riguardo al destino finale di quelle terre. Alcuni, come l’alto commissario Friedrich Rainer (ed il potente capo delle SS e della Polizia colà insediate, Odilo Globocnick), caldeggiavano una futura Grande Austria, sempre legata alla Germania, però autonoma, ed estesa alla Slovenia, alla Croazia, all’Ungheria e alla Romania); altri, come il dottor Franz Hradetzky, capo dell’Ufficio propaganda SS, pensavano, come si è detto, alla costituzione di uno Stato-cuscinetto del Friuli. A rendere il quadro ancora più complesso, c’erano poi i disegni imperiali di Goebbels ed altri, i quali sognavano una Grande Germania che non solo avrebbe continuato a inglobare l’Austria, ma si sarebbe annessa tanto il Litorale e l’Alpenvorland, che  l’intero Veneto, sulla base della passata appartenenza di questa regione all’Impero asburgico, oltre che della presenza di alcune “isole” linguistiche tedesche nella zona prealpina.

Riportiamo un passaggio di quella autentica miniera di notizie insolite e tuttavia ben documentate che è il libro «Lo sterminio mancato» (Milano, Mursia, pp. 87-89) di Pier Arrigo Carnier – autore di un altro libro prezioso e insostituibile, «L’armata cosacca in Italia, 1944-45», due opere che, se l’Italia fosse un Paese normale, e la cultura italiano non fosse monopolizzata dalla solita banda di furbi e raccomandati, basterebbero a fare di lui uno storico d’importanza nazionale:

 

«…Eravamo quindi nella fase preparatoria e culturale, assunta direttamente dalle SS che faceva capo a Berlino. La costituzione del Pfufferstaates Friaul prescindeva dai programmi della normale direzione politico-amministrativa delegata al commissario supremo Rainer. Himmler, Reichsführer SS, che deteneva i poteri per il consolidamento del carattere nazionale tedesco riguardanti anche il “sangue di popoli affini”, intervenne direttamente con lì apparato SS.

Il territorio dello stato cuscinetto Friaul, secondo la concezione tedesca, si riferiva geograficamente alla provincia di Udine, intesa nella sua estensione al momento dell’inizio della prima guerra mondiale(1915). In pratica, a Nord, la delimitazione era data dalla catena elle Alpi a Est il confine si attestava secondo la vecchia linea, a ovest di Grado, delimitata dall’Isonzo e da Pontebba. A Ovest il confine correva lungo il limite territoriale del Cadore, a Sud-Ovest lungo il Livenza. Il territorio contava circa mezzo milione di abitanti, Stando ai limiti di confine indicati la val Canale restava esclusa dal Pfufferstaates Friaul e veniva assorbita nuovamente dalla Carinzia.

Premeva evidentemente ai nazisti di rafforzare celermente nel Friuli quelle condizioni che contribuivano ad accentuare gli aspetti della tradizione.

Gli specialisti delle Waffen SS si avvalevano del principio di grandi esperti e studiosi, austriaci in particolare, in materia di minoranze, secondo i quali l’autodifesa di una minoranza sta nella unità culturale e folkloristica e nel mantenimento di una comunità chiusa.

Tale principio generale avrebbe dovuto esser applicato al Friaul. L’iniziativa di una totale autonomia, e cioè l’elezione a stato, caldeggiata dai teorici tedeschi, avrebbe dovuti farsi strada nelle coscienze dopo secoli di silenzio. Erano infatti trascorsi cinque secoli dal momento in cui, nel 1452, i patriarchi di Aquileia avevano cessato di governare l’area della ladinità.

Eroi e personaggi, comunque legati alla storia o al ceppo della ladinità, dovevano essere ravvalorati. I corrispondenti di guerra erano all’opera per cogliere le figure del passato. Tutto doveva essere reimpostato alla luce di un realismo vivo, con riflessi positivi nel presente, debellando un persistente immobilismo che avvolgeva ogni cosa.  

Ci si accorse ben presto che la storia del Friuli non aveva registrato moti di ribellione in senso stretto [si vede che gli esperti nazisti non tennero conto del “crudele giovedì grasso” del 1511], né la germinazione di circoli culturali su base politica tendente all’irredentismo vero e proprio, o, tanto meno, alla difesa della vitalità effettiva della minoranza e dei suoi diritti, nel contesto generale, con azioni vigorose. Storicamente, in questo senso, si era registrato uno stato d’inerzia.

La Filologica Friulana, di cui la popolazione non aveva mai avvertito una funzione penetrante con una presa di coscienza a largo raggio e che pertanto restava un’istituzione isolata, aveva avuto una proposta, o intimazione, di quiescenza dal fascismo, motivata certamente dalla linea politica fascista che bandiva le istituzioni non rispondenti ai propri obiettivi.

Un corrispondente di guerra del Kommando “Adria”osservò che al Friaul mancava, nel passato, la figura di un Hofer: un martire o personaggio che simboleggiasse l’irredentismo o la maturità etnica espressa con dignità eroica. I tedeschi, per le loro valutazioni, si basavano su personaggi come Skanderberg, il patriota albanese che combatté per vent’anni, verso la metà del ‘400, per la libertà.

Ma il Friuli non aveva un simile personaggio. Caso vuole che anche il territorio friulano avesse dovuto subire, nei secoli passati, le scorrerie dei turchi. Provenendo dalle loro sedi della Bosnia-Erzegovina, con due invasioni, rispettivamente nel 1479 e 1499, i turchi, che avevano incontrato indomite resistenze soprattutto in Croazia, passarono crudelmente sulla terra del Friuli travolgendo, con furibonde cavalcate, le deboli opposizioni delle milizie veneziane.

Vi erano comunque stati dei moti di ostilità contro gli austriaci, durante il periodo della loro dominazione. Ciò tuttavia non risolveva affatto il problema. Non si era trattato, peraltro, di moti rilevanti.

Ci si rese conto che questa popolazione che si fa risalire a un’origine celtica, attraverso una certa rassegnazione e fatalismo, sulle cui ragioni rimaneva aperto un ampio interrogativo, dimostrava che ancora non si era verificata una presa di coscienza per una propria distinzione di carattere tecnico-politico, vale a dire per una vera autonomia.

La ricerca delle Waffen SS andò naufragando, rispetto al proprio obiettivo, poiché non si reperirono sostegni storici in tal senso. Fu scoperto tuttavia un personaggio, quasi ignorato nel presente, di notevole mole:  padre Marco d’Aviano (Carlo-Domenico Cristofori), il grande cappuccino che, nel 1683, aveva svolto un’ardita azione diplomatica. Padre Marco, che aveva avuti i natali sulla destra del Tagliamento, a Somprado di Aviano, accordando regnanti, duchi e principi imperiali, aveva ottenuto, come risultato, la cacciata dei turchi che assediavano Vienna; e lui stesso, con grande rischio, s’era affiancato all’azione militare per rincuorare condottieri e combattenti imperiali.

Alle Waffen SS del Kommando “Adria” piacque questa storia dei turchi, poiché, proprio coi turchi, aveva avuto a che fare per lungo tempo anche Skanderbeg, l’eroe albanese.

In un certo senso il cappuccino impersonava il principio della difesa d’Europa dalle invasioni d’Oriente. E, infatti, gli austriaci gli avevano eretto un imponente monumento a Vienna.

La figura di padre Marco colmava solo apparentemente il vuoto riscontrato. La sua azione aveva sicuramente un significato molto ampio, ma non rifletteva quella situazione realisticamente etnica e razziale alla quale il Kommando “Adria” cercava di dar corpo scoprendo ragioni radicate nel passato. Le autorità tedesche avevano deciso comunque di richiamare all’attenzione delle popolazioni del Friuli il ricordo di padre Marco d’Aviano. Collocarono quindi, con cerimonia ufficiale, una lapide marmorea ad Aviano sulla facciata della casa dove era nato il grande cappuccino.»

 

Carnier ha avuto la possibilità di intervistare personalmente alcuni dei personaggi coinvolti in questa vicenda assai poco conosciuta; va detto, inoltre, che molti documenti ufficiali sono stati distrutti o fatti sparire. Infatti, nel maggio del 1945, i Cosacchi di Krasnov, che si erano ritirati dal Friuli in Carinzia, dovettero arrendersi ai Britannici i quali, macchiandosi di un vergognoso tradimento, li consegnarono ai Sovietici, che li giustiziarono in massa; molti preferirono suicidarsi, gettandosi nelle acque della Drava. Il generale von Pannwitz, che, in quanto tedesco, avrebbe potuto salvarsi, non volle separare il suo destino da quello delle valorose truppe russe e affrontò anch’egli la condanna capitale.

Fu in quel tragico contesto che molti documenti riservati del comando di Rainer (estradato in Jugoslavia e giustiziato il 19 luglio 1947) e quello di Globocnik (suicidatosi il 31 maggio del 1945) andarono smarriti o, forse, vennero acquisiti dai Britannici, dai Sovietici e dagli Jugoslavi ed è certo anche per questo che, ancora oggi, pochissimo si sa della strana operazione tedesca mirante a trasformare il Friuli in uno stato satellite, così come altri che avrebbero dovuto sorgere alla periferia del Terzo Reich, sfruttando la presenza di alcune “isole” tedesche lontane dai confini della Germania (come i Sassoni della Transilvania) e la specificità linguistica e culturale di alcune popolazioni europee che i gerarchi e gli studiosi nazisti consideravano, a torto o a ragione, etnicamente affini.

È abbastanza logico che ai Friulani possa non piacere questo antecedente delle loro rivendicazioni autonomistiche; tuttavia la conoscenza dei fatti storici non può essere ignorata, quando essi non collimano con le nostre convinzioni politiche e morali; né le strategie messe in opera dai nazisti, sul piano propagandistico e culturale, per rianimare la coscienza di sé del popolo friulano, rappresenta in alcun modo una macchia per quest’ultimo. Quella propaganda e quei piani, benché chiaramente strumentali ai fini egemonici tedeschi, stanno semplicemente a indicare che, in Italia come in Friuli, succede spesso che ad accorgersi di quel che vi è di più valido e interessante nel proprio patrimonio storico e culturale tenda a passare inosservato o a cadere presto nell’oblio, ma non sfugge all’occhio più imparziale degli stranieri: più imparziale proprio perché sciolto dalle logiche di campanilistiche o, peggio, di consorteria, che tengono la cultura e la tradizione in possesso, e in ostaggio, di élite politiche e intellettuali tutte prese dai loro scopi e dai loro schemi mentali di parte e pochissimo propense, o disposte, a riconoscere il valore e l’importanza di quelle situazioni e di quegli aspetti che meriterebbero di essere fatti conoscere al grande pubblico, fuori da ogni logica di campanile, di partito, di corporazione.

Un grazie, in ogni caso, spetta a quegli studiosi i quali, senza guardare in faccia a nessuno, procedono dritti e risoluti nella ricerca della verità, anche quando essa è scomoda o discorde da ciò che insegna la Vulgata politico-culturale dominante: e, fra essi, un posto ragguardevole spetta a Pier Arrigo Carnier. Si veda, a titolo di esempio, ciò egli che scrive del bombardamento aereo dei “liberatori” anglo-americani di Treviso. Del 7 aprile 1944; oppure dei fatti do Ovaro del 1-2 maggio 1945, che videro un attacco partigiano ai Cosacchi in ritirata e una dura rappresaglia di questi ultimi. Il fatto è che ricerche come quelle del Carnier turbano i comodi schemi mentali e insinuano troppi scomodi dubbi in quanti credono di aver compreso tutto della seconda guerra mondiale. E questo è un discorso particolarmente difficile da fare in una terra difficile come il Friuli, posta al confine di tre grandi aree culturali, ove la situazione politico-militare era quanto mai complessa. Basti pensare alla sorte del Battaglione bersaglieri Mussolini e al Reggimento alpini Tagliamento, i quali, per aver difeso l’italianità di quella terra dalle mire annessionistiche dei comunisti slavi, oltre ad aver pagati un prezzo altissimo sul campo di battaglia, subirono anche l’oltraggio di venire dipinti, a guerra finita, più o meno come dei reparti di collaborazionisti, specializzati in crimini di guerra e meritevoli, pertanto, del massimo disprezzo da parte di ogni “vero” italiano e di ogni “vero” democratico…