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Le tre forme della metafisica classica: dell’Uno, dell’Essere e della Persona

di Francesco Lamendola - 30/06/2015

Fonte: Arianna editrice


 

 



Nella tradizione filosofica occidentale siamo abituati a pensare alla metafisica e all’ontologia come concetti press’a poco equivalenti, ma questo non è esatto, né storicamente, né concettualmente. L’ontologia corrisponde ad una forma della metafisica, precisamente alla scienza dell’essere in quanto essere – giusta la famosa definizione aristotelica; ma, prima di essa, nel pensiero greco si era sviluppata la metafisica dell’Uno, fin da Parmenide e poi, soprattutto, con Platone.

La metafisica greca, dunque, nasce con l’assolutizzazione dell’Uno: da qui ha origine tutta l’impostazione monistica del pensiero occidentale, che si differenzia nettamente dalle filosofie orientali, specialmente dell’India, basate, invece, sulla scienza della non-dualità. Dire che l’essere è l’Uno e dire che l’Essere non è due sono, evidentemente, cose diverse: potremmo dire che, laddove il pensiero occidentale procede in linea retta, secondo un procedimento rigorosamente logico-matematico, quello orientale si caratterizza per un incedere elastico e duttile, preoccupato più di aderire all’essenza della cosa che a produrre definizioni concettualmente limpide e ineccepibili, ma, inevitabilmente, connotate da una buona dose di astrazione.

La sottigliezza orientale vede che definire l’Essere come ciò che non è divisibile in parti, non equivale a pensarlo come l’Unità: perché l’Unità, in senso rigorosamente logico-matematico, è, appunto, ciò che si contrappone alla pluralità, mentre l’Essere, in quanto tale, non solo non è divisibile, ma non è neppure pensabile, a rigor di termini, se non per ciò che non è: non è dualità, non è molteplicità; ma non sarebbe esatto definirlo come l’Uno, perché dell’Essere nessuna possiede scienza completa ed esaustiva. Se la possedesse, non sarebbe più un ente, sarebbe esso pure l’Essere: dal momento che solo l’Essere ha piena conoscenza di sé, ma niente che non sia l’Essere può arrivare ad afferrarlo concettualmente, tranne che, appunto, in senso negativo, cioè nel senso del’esclusione. Si può escludere che l’Essere sia due, o tre, o quattro; ma non si può dire che l’Essere sia Uno, perché farlo equivarrebbe ad averlo colto, e l’Essere, soggetto metafisico per eccellenza, non è esperibile, non è pensabile in quanto tale, ma è pensabile solo e unicamente nei suoi riflessi o nelle sue manifestazioni fenomeniche.

Ma torniamo al pensiero occidentale, che rifugge da tali sottigliezze e che ama procedere, passo passo, mediante dimostrazioni di tipo geometrico e matematico. Spetta peraltro ad Aristotele, generalmente considerato (ma a torto) come il più rigorosamente razionale dei filosofi antichi, il ruolo storico di aver mostrato la differenza tra i concetti di “metafisica” e di “ontologia”. Perché egli ha fondato una ontologia dell’Essere, là dove Parmenide e Platone avevano posto una ontologia dell’Uno. Per Aristotele, l’essere e l’uno sono una cosa sola, ma non sono esprimibili alla stessa maniera. Egli fa notare come “uomo” e “un uomo” siano espressioni sintatticamente differenti, ma equivalenti sul piano del significato, in quanto vogliono dire la medesima cosa.  Dire “un uomo” non significa dire qualcosa di diverso dal dire “uomo”: e da ciò egli conclude che il concetto di unità è compreso nel concetto di essere e non è affatto qualcosa di distinto da esso.

Fin qui è arrivata la speculazione greca. Per il pensiero cristiano, l’ontologia si arricchisce di una nuova e più pregnante categoria: quella della persona. L’uomo, nel pensiero cristiano, diventa la più alta delle creature, perché Dio si è fatto uomo, laddove i filosofi greci, Aristotele compreso, avevano negato che l’uomo rappresentasse il vertice di ciò che esiste in natura (per non parlare della nozione, per loro addirittura ripugnante, di Dio che si fa uomo).

Scrive Giovanni Reale nel suo saggio introduttivo al libro di Karlol Wojtyla «Persona e atto» (titolo originale: «Osoba i czyn», 1969; traduzione dal polacco a cura di G.Reale, Milano, Rusconi, 1999, pp. 15-18;  27):

 

«In genere si ritiene che la METAFISICA coincida con l’ONTOLOGIA e si ritiene che la definizione data di essa da Aristotele, ossia “scienza dell’essere in quanto essere”,  sia paradigmatica in senso assoluto. Ma così non è: l’ontologia non è LA metafisica, bensì UNA specie di metafisica. Va sempre più emergendo dagli studi contemporanei che il paradigma metafisico di base da cui è nato e attorno a cui si è sviluppato  il pensiero greco è quello HENOLOGICO, ossia quello della metafisica dell’UNO, al quale si è affiancato quello ONTOLOGICO, ossia quello della metafisica dell’ESSERE. Questo secondo ha raggiunto i suoi vertici con Aristotele, ma in Grecia non si è sviluppato, ed è rinato solo con gli Arabi e con la Scolastica e poi sotto varie forme in epoca moderna. In Grecia si può ben dire che sia rimasto predominante quello HENOLOGICO.

Già i Presocratici davano al problema dell’”Uno” e dei “Molti” grande rilievo (e non solo gli Eleati). Platone e gli Accademici consideravano l’Uno-Bene “al disopra dell’essere”, ossia lo intendevano come il Principio da cui deriva l’essere stesso. Con i Neoplatonici la problematica dell’Uno diventa centrale a tutti i livelli.

La fondazione della metafisica dell’essere, in un certo senso, risale a Parmenide, e Platone stesso in parte la sviluppa; ma è stato Aristotele a codificarla nella “Metafisica”, un testo che ha avuto una storia di influssi forse senza pari. 

Aristotele ha assorbito la problematica dell’Uno in quella dell’Essere, ha negato che l’Uno sia al disopra dell’essere, e ha costruito la metafisica appunto come “scienza dell’essere come essere”, formula da cui è derivato il paradigma ontologico nella sua imponente statura. […]

Come è evidente, la radicale negazione della differenza (al limite addirittura concettuale) fra Uno e Essere fatta da Aristotele si impone come la cifra emblematica del nuovo paradigma  ontologico, che lo Stagirita contrappone come alternativo a quello platonico.

La filosofia cristiana ha assunto ambedue questi paradigmi: i Padri della Chiesa hanno cercato di operare una loro mediazione, ma mantenendo la superiorità dell’Uno sull’Essere; gli Scolastici hanno dato preminenza pressoché assoluta alla metafisica dell’essere.

Tuttavia, a mio giudizio, proprio nell’ambito del pensiero cristiano è nato un terzo paradigma, quello della METAFISICA DELLA PERSONA.

Si ricordi che la “persona” in quanto tale nel pensiero ellenico NON È STATA PORTATA A LIVELLO DI ASSOLUTA SUPERIORITÀ ASSIOLOGIA NELL’AMBITO DEGLI ENTI.

Aristotele afferma che l’intelligenza è la cosa più elevata, e che la vita secondo l’intelligenza è vita divina, e scrive addirittura quanto segue: “Non bisogna seguire quelli che consigliano che, in quanto noi siamo uomini, dobbiamo attendere a cose umane, e che, in quanto siamo mortali, a cose mortali; invece, per quanto è possibile, dobbiamo farci immortali, de fare di tutto per vivere secondo la parte più elevata che è in noi” (“Etica Nicomachea”,  X 7, 1177b 31-1078 a 2). E in tale testo Aristotele raggiunge un vertice di straordinaria elevatezza. Tuttavia vi scrive: “Vi sono cose più divine  dell’uomo per natura, come, per restare alle più visibili, gli astri di cui si compone l’universo” (Ibidem,  VI 7, 1141 a 34-.b 2).

Solo sulla base del messaggio cristiano l’uomo ha scoperto  di avere valore assoluto come persona: Cristo, il Figlio di Dio che si incarna nell’uomo, conferisce all’uomo stesso come persona  una sacralità in senso totale.

E in Agostino, come anche in Tommaso, tutta la problematica metafisica gira attorno all’uomo, assumendo di conseguenza una “sporgenza” di notevole consistenza rispetto a quella dei Greci. Riporteremo […] un passo di San Tommaso, in cui si afferma in modo ben preciso che la persona, come realtà razionale, è “ciò che c’è di più perfetto in tutta la natura”, capovolgendo, in questo modo, l’affermazione di Aristotele che abbiamo sopra letto. […]”Persona significat id quod est perfectissimum in tota natura scilicet subsistens in rationali natura” (“Summa Theologiae.”, I q. 29 a.3).»

 

Ci sembra, tuttavia, di cogliere un aspetto non condivisibile nella ricostruzione che Giovanni Reale fa dell’evoluzione storica del concetto di metafisica nella tradizione speculativa dell’Occidente. Se ci sembra esatto che i Greci hanno sviluppato due categorie metafisiche, quella monista (scienza dell’Uno) e quella ontologica (scienza dell’Essere), e se è pure vero che il pensiero cristiano ha introdotto una terza e rivoluzionaria categoria della metafisica, quella personalista, quest’ultima nozione non va intesa nel senso che il pensiero cristiano abbia fatto ruotare la metafisica intorno alla persona umana, bensì intorno alla Persona divina.

L’uomo, di per sé, non può essere pensato come l’oggetto della metafisica, ma solo come il soggetto che la pensa: la metafisica è la scienza dell’assoluto e pertanto l’uomo, anche se viene innalzato – rispetto alla concezione greca – al disopra di tutti gli altri enti, resta pur sempre ente, dunque separato dall’Essere da una distanza infinita. E ben vero che questa creatura è stata fatta a immagine di Dio e che Dio stesso si è incarnato in questa creatura, nobilitandola al massimo grado; ma il fatto che nell’uomo vi sia un riflesso o una scintilla dell’essenza divina non equivale ad affermare che l’uomo sia, di per se stesso, di natura divina. Una simile affermazione ci porterebbe fuori del terreno del cristianesimo, verso il pensiero gnostico: il cristianesimo ha innalzato la creatura umana al massimo grado della dignità creaturale, ma non l’ha equiparata al suo Creatore, tutt’altro; dunque, non ha abolito la distanza fra gli esseri finiti e l’Essere infinito. Se lo avesse fatto, si sarebbe concettualmente suicidato, vanificando sia la Redenzione, sia la tensione dell’uomo verso Dio: perché l’uomo dovrebbe solo scoprire di essere, egli stesso, Dio, e a quel punto non dovrebbe più nemmeno auto-redimersi, dovrebbe solo attuare la propria natura divina.

Il mondo, a quel punto, diverrebbe un puro gioco di apparenze; la natura, una mascherata o uno scherzo; la vita e la morte, un sogno divino, dal quale l’uomo, ridestandosi, realizzerebbe automaticamente il radicale superamento, scoprendosi Dio. Ma Dio, a quel punto, non sarebbe più Persona: perché “persona” è ciò che di più perfetto esiste in natura; ma Dio non esiste in natura, egli è il creatore della natura, e la natura è un prodotto della intelligenza, della sua volontà e del suo amore. Dunque, dire che il pensiero cristiano ha introdotto la metafisica della persona non significa affatto che il cristianesimo ha assolutizzato, o magari divinizzato, l’uomo: perché è chiaro che al disopra dell’uomo, persona finita, si pone Dio, la Persona infinita: Lui solo capace di offrire sostegno ontologico a tutto ciò che esiste, Lui solo degno di essere caratterizzato come ciò di cui non si può dire se non che è Altro dalle sue creature, pur se egli le chiama a sé e se esse tendono a ritornare a Lui con tutte le loro forze.

Il fatto è che al pensiero greco rimane del tutto estranea l’idea di un Dio creatore: esso non si spinge oltre l’idea di un Demiurgo che dà ordine al mondo, ma senza averlo creato; e questo perché un Dio creatore è anche un Dio che ama le sue creature e che le innalza verso di sé, attraendole nel suo piano infinitamente saggio e infinitamente buono, ma ciò, al pensiero greco, sarebbe parso una imperfezione, una degradazione, una corruzione del concetto di Dio. Il pensiero greco, pertanto, rimane profondamente naturalistico: vista la distanza infinita che separa la divinità dal mondo terreno, non resta che divinizzare la natura; e, in una natura divinizzata, non è detto che l’uomo sia la creatura più alta. Gli astri, per Aristotele, che sono esseri vivi e intelligenti, sono alquanto più perfetti dell’uomo, forse perché splendenti di luce immortale, anzi, sono addirittura delle divinità, anche perché collocati nella sfera eterea, la più sottile e sempre in movimento.

È pur sempre una visione quantitativa degli enti, nella quale non compare la nozione di “persona”, perché non compare la nozione di “atto”. L’atto è solo l’atto della persona, e l’atto di Dio è la creazione: gli animali non compiono “atti”, perché non agiscono secondo ragione e libertà. Neppure gli astri, per Aristotele, compiono “atti”, nemmeno il Demiurgo: perché libertà implica possibilità di errore e perché amare implica possibilità di amore mal diretto; mentre la divinità, per i Greci, è infallibile non perché è perfetta nell’amore, ma perché non ama; ed è incorruttibile non perché crea, ma perché non crea; ed è perfetta non perché è Persona, ma perché è impersonale.

Dunque, la metafisica cristiana è una metafisica della persona: ma lo è perché la Persona divina fonda, nobilita e redime la persona umana; e, attraverso di essa, nobilita e redime l’intera creazione.