Elogio della bicicletta
di Franco La Cecla - 04/09/2006
È nata assieme all’automobile, ma il più democratico mezzo di locomozione ne è stato sopraffatto. Eppure potrebbe risolvere i problemi delle nostre città angustiate da traffico e smog.
La lezione di Ivan Illich
La nostra società dedica invece un tempo enorme agli spostamenti, è vittima del funzionamento ingombrante e controproducente che ha come centro l'auto. L'automobile è un ossimoro. La risposta individuale alla mobilità finisce per impedire all'individuo di spostarsi: il traffico e l'imbottigliamento non sono un effetto secondario del sistema, ne sono l'essenza. Già negli anni '60 la cosa era talmente chiara da diventare il tema centrale dei film di Fellini - vi ricordate la scena di «8 e mezzo?»- e di Jean Luc Godard. Julio Cortazar ne fa il centro della sua riflessione in un racconto paradossale: lo spostamento in auto il fine settimana diventa un safari di stanziali sull'autopista.
La nostra società è ancora vittima dell'automobile e l'automobile ormai è un soprammobile da città che ha perso qualunque carattere anche vago di utilità. Guardate le pubblicità ossessive che ormai invadono tutto il campo della pubblicità televisiva. L'auto è proposta non come mezzo per spostarsi, ma come opera d'arte, la gente si volta a guardarla come se fosse una bella donna, suscita stupore e soprattutto regala - almeno apparentemente - un vantaggio sul prossimo, l'invidia che suscita negli altri essere visti alla guida di un'auto siffatta. Oppure la promessa è ancora "via dalla pazza folla". Gigantesche Suv e 4 per 4 che conquistano i pochi boschi e le poche montagne rimaste. La cosa ancor più ferale è che oggi non c'è più quasi una critica sociale all'automobile o sembra essersi rassegnata al dato di fatto - proprio oggi che siamo agli sgoccioli energetici e ambientali e che il disastro urbano è giunto al limite -, o è una leggera scalfitura ad un sistema che ormai diamo quasi tutti per scontato a cui mettere ogni tanto pezze e di cui turare a turno i buchi. L'effetto è fare credere ai più che l'ecologia sia solo una questione di stile di vita e di scelta - de gustibus- e non l'ultima uscita possibile.
Ivan Illich aveva scritto il testo che ora esce in italiano col titolo Elog io della bicicletta chiamandolo Energie et equité, su invito del direttore di Le Monde, a seguito del successo che in tutto il mondo qualche tempo prima aveva avuto I limiti dello sviluppo. Si parlava allora (nel '73) - si parla ancora - di crisi energetica, di fine prossima del petrolio. Rispetto ad allora sappiamo con certezza che il nostro clima è stato alterato indelebilmente dalla concentrazione di C02 nell'atmosfera, che il livello degli Oceani si sta alzando e che i Poli si stanno sciogliendo. Sappiamo poi, quotidianamente - lo sanno anche i negazionisti alla Crichton- che la nostra vita quotidiana è peggiorata, che le città sono camere a gas ed incubi ad aria condizionata, che le automobili hanno okkupato - sì okkupato - gran parte dello spazio che dovrebbe essere riservato ad una convivenza piacevole e sana e che di tutto questo le industrie automobilistiche, i governi, gli amministratori se ne fanno un ricco baffo e fanno pagare a noi i costi. Come se tutto ciò fosse inevitabile, il prezzo da pagare ad un progresso che nel 1973 poteva ancora avere dei fedeli ma che oggi è veramente solo glamour, cinismo ironico delle brand e fatalismo dei politici. Oggi nell'agenda di nessun politico c'è l'eliminazione del traffico privato dalle città, né esiste un solo paese d'Europa dove la contrazione del numero di vetture circolanti viene visto come un necessario, inevitabile provvedimento. Ancora una volta come trent'anni fa vince la miopia, il brevissimo termine di una civiltà che nel suo insieme si sta suicidando e sta suicidando il mondo.
Illich ci ricorda che la bicicletta è una invenzione contemporanea a quella dell'automobile. E' anch'essa un omaggio all'individuo ed è l'inno alla meccanica, alla capacità di ruote e rondelle di cambi e bielle di moltiplicare la spinta umana, di rendere miracolosamente redditizio lo sforzo umano che già lo è di per se (anche l'uomo del risciò o del cyclo lo sa). E' una soluzione funzionale perché ha la velocità giusta per un a città, riesce a districarsi in mezzo ad altre mille bici, non ha un problema di occupazione di spazio, non prevede l'eliminazione dell'uomo che cammina né l'invenzione del pedone. Era una idea geniale, ma qualcuno ha trovato immediatamente il modo di metterla dentro una riserva: piste ciclabili si chiamano. La bicicletta è il modo inventato per dare il massimo della libertà a tutti ed il massimo della democrazia ad una città. Non richiede che le strade divengano piste né che i centri storici vengano condannati perché ostili alla circolazione.
Oggi l'effetto più controproducente del monopolio automobilistico è che non è credibile che urbanità e auto possano convivere. Nemmeno le grandi riforme urbanistiche dell'800 con i grandi boulevard e la città disegnata per assi di percorrenza "tengono più". L'auto postula la fine della città, non ne ha bisogno, se ne serve solo come tappa per parcheggiarvi per un po', ma della qualità dei suoi spazi e soprattutto della fruibilità di strade e piazze non se ne fa nulla. Per l'auto l'unica vera città è un autogrill, l'idea che la città è da fruire come piazzola di sosta o come luogo di passaggio. L'ipotesi, praticata da tutto il «Movimento moderno per l'architettura», con in testa Le Corbusier, è che la città sia destinata a finire per dare luogo a "snodi" e nuclei molto concentrati di servizio agli spostamenti in auto. Questa ipotesi è talmente poco credibile però che l'unico effetto dell'auto è stato solo di allontanare il centro, non di eliminarlo: è stato l'ingigantimento delle periferie.
L'auto ha allontanato la città come possibilità di godimento, è stata la causa e non la soluzione della crescita urbana, ha dilaniato e slabbrato una forma che è diventata una massa senza intelligenza né pensiero. Nella carrellata del pensiero attuale della classe degli architetti è grottesco quanta poca intelligenza ci sia della impossibile convivenza tra auto e città. Le soluzioni funzionali, le sopraelevate, i parcheggi sotterrane i, i raccordi e le tangenziali, i tunnel e via dicendo servono solo ad aumentare il traffico. Una strada aperta al traffico è una strada destinata a riempirsi.
Architetti, urbanisti e amministratori continuano a giostrarsi nella mediocrità di soluzioni e proposte a breve e brevissimo termine. I primi potrebbero avere la capacità immaginativa per capire che siamo alla fine e che nessuno si illude più, ma non hanno il coraggio di essere radicali e intelligenti. Preferiscono essere i "designer" della città, quelli che ne aggiustano i ritocchi mentre la qualità urbana va a catafascio. La rinascita delle città passa per lo sgombero della strada dalle auto. Nessuno ha mai deciso che le strade dovessero appartenere all'auto e non ai cittadini.