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Se s’impone tacitamente il proprio paradigma, il gioco è fatto: non occorre più dimostrarlo

di Francesco Lamendola - 30/06/2015

Fonte: Arianna editrice


 


 

Vi sono due maniere per far sì che si imponga una idea sulle altre, un sistema di pensiero e perfino un sistema di valori sugli altri:  una è quella di convincere, in un modo o nell’altro, nel breve periodo o in quello lungo, chi la pensa diversamente, si tratti di individui o del complesso di una intera società; l’altra è quella di procedere come se tale opera di convincimento fosse stata svolta e condotta a buon fine, come se le persone o la maggioranza del gruppo sociale si fossero persuase ad abbandonare le loro precedenti convinzioni, ed eventualmente anche i loro antichi valori, per abbracciare quelli nuovi, anche se tale persuasione, di fatto, non vi è stata; ma, in compenso, vi è stata una forzatura da parte delle idee o del paradigma emergenti, nonché una specie di finzione, consistente nell’eludere ogni ostacolo e presentare se stesse come definitivamente accreditate dalla maggioranza o, quanto meno, dalla maggioranza di quanti sono titolati, per così dire, a fare opinione, vale a dire gli esponenti più prestigiosi del mondo culturale.

Questa seconda maniera è la comoda e la più disinvolta, quando ci si voglia risparmiare la fatica di un confronto ad armi pari. Di fatto, è ben raro che due paradigmi culturali si affrontino ad armi pari: il nuovo tende a ricorrere ad essa sfruttando la propria forza d’urto, un po’ come quando un’automobile in movimento va sbattere contro un’automobile ferma: indipendentemente dalla massa rispettiva delle due automobili, è evidente che quella in movimento possiede una superiorità, quanto alla forza che si sprigiona nell’impatto, dovuta alla sua velocità; ed è superfluo aggiungere che anche una piccola o piccolissima velocità, specialmente se aiutata da una pendenza, anche lieve, del piano stradale, è sufficiente per mettere decisamente a mal partito l’oggetto che viene investito, senza che questo possa fare altro, nel migliore dei casi, che subire e incassare il colpo. Nel caso di due paradigmi, il nuovo possiede la forza del progresso, il vecchio ha,m dalla sua, solo il peso e il prestigio di una tradizione consolidata; ma è chiaro che, se intervengono dei fattori esterni ad incrinare quel prestigio e a mettere in crisi la tradizione, la vittoria del nuovo paradigma, che, in linea teorica poteva sembrare cosa difficilissima, in pratica è assicurata fin dall’inizio, anche se esso possiede un lievissimo vantaggio intrinseco, dovuto appunto all’elemento di novità che sempre opera una sorta di suggestione: sono i fattori esterni a lavorare per esso e a spianargli la strada verso la conquista del campo.

Le società tradizionali sono fondamentalmente statiche, quelle moderne sono per loro essenza dinamiche, proprio perché fondate sulla ideologia del progresso. Nelle società moderne, le nuove idee vincono praticamente sempre sulle vecchie, sulla scia di quanto avviene nel campo della tecnica, dove i nuovi prodotti tecnologici spazzano via e sostituiscono pressoché automaticamente quelli vecchi: così con i partiti, con i prodotti dell’arte, della musica e del teatro, con l’urbanistica e l’architettura, perfino con le mode relative all’abbigliamento, o al tatuaggio o all’impiego del tempo libero: sempre il nuovo s’impone sul vecchio, relegato a simbolo di ciò che deve scomparire, di ciò che è per sua natura impresentabile, sconveniente, obsoleto. La critica letteraria si adegua a questa tendenza e così le giurie ed i premi letterari, fino ai massimi livelli, fino al Nobel: solo così, tanto per fare un esempio, si possono spiegare “strane” assegnazioni, come quella del Nobel per la letteratura ad un autore come Dario Fo, che c’entra poco con la letteratura e praticamente nulla con i meriti di uno scrittore. Nelle aule universitarie, nelle pubblicazioni della grande editoria, avviene lo stesso processo di selezione: le nuove teorie, le nuove modalità espressive si affermano; le vecchi,e per quanto intrinsecamente valide, scompaiono.

Quanto sta accadendo con la teoria evoluzionistica darwiniana è un buon esempio di come un nuovo paradigma – scientifico, in questo caso – possa affermarsi non per l’evidenza delle prove e delle dimostrazioni che i suoi sostenitori hanno saputo portare – la questione, infatti, è ancora sostanzialmente indecisa, allo stato attuale delle conoscenze -, ma proprio per il fatto che gli scienziati, i divulgatori scientifici, i professori di scuola e di università e le pubblicazioni scientifiche hanno preso massicciamente partito per tale teoria e l’hanno promossa, arbitrariamente, allo status di “fatto”: non la discutono più, non si sforzano di dimostrarne la giustezza: la danno per acquisita, anzi, per scontata, e riservano un’alzata di spalle e un sorrisetto di disprezzo per quei pochi che dimostrano di non essere ancora interamente persuasi. Per costoro, evidentemente, non esistono più le condizioni onde portare avanti una seria discussione scientifica: e dichiarare apertamente che l’evoluzionismo darwiniano è una teoria tuttora non dimostrata in maniera definitiva, equivale a una specie di suicidio della propria carriera scientifica e della propria credibilità e serietà intellettuale.

Assai pertinenti, in questa direzione – anche se riferite a un soggetto specifico, l’hegelismo e la sua interpretazione del rapporto fra stato e individuo, che qui non c’interessa e che, del resto, non condividiamo del tutto – ci sembrano le considerazioni svolte da Alberto Burgio nel suo pregnante saggio introduttivo al libro di Eric Weil «Hegel e lo stato, e altri scritti hegeliani» (Milano, Guerini e Associati, 1988, pp. 9-10):

 

«Accade spesso che una discussione termini prima ancora di cominciare. Il fatto che uno degli interlocutori sia riuscito a imporre tacitamente o esplicitamente (capita il più delle volte tacitamente) il proprio modello argomentativo, il proprio quadro di riferimento – oggi si direbbe: il proprio “paradigma” – costituisce non di rado il presupposto dell’affermazione del suo punto di vista su quello altrui e, insieme, la premessa della deformazione dei punti di vista avversari, della loro trasformazione secondo forme del discorso e del concetto ad essi estranee.

Se appare comprensibile che questa operazione di deformazione-sconfitta dei punti di vista concorrenti sia tanto più urgente e violenta quanto più alta è la posta (economica, politica, morale) dello scontro delle opinioni, non stupisce che,m nel caso della filosofia politica di Hegel, dove è coinvolto, si può dire, il centro stesso delle dispute ideologiche di natura politica della nostra cultura, la violenza sia stata massima, tale da produrre, PRIMA DI OGNI AUTENTICO CONFRONTO FRA LE RAGIONI CONTRAPPOSTE, la deformazione totale del punto di vista avversario, e la sua forzata sottomissione a un’alternativa che esso rifiutava, il rifiuto della quale – la discussione critica di ENTRAMBI I SUOI POLI – era stata, anzi, la prima e più importante ragione del suo stesso costituirsi.»

 

Nell’ambito della ricerca e della discussione filosofica, storica e politica la tecnica di imporre una sistema di idee senza prendersi il disturbo di dimostrarlo, ma semplicemente dandolo per acquisito e per vincente, è resa ancora più facile, e naturalmente più subdola, dall’indebito ricorso alla sfera ei giudizi morali. Il fatto che l’uomo sia una creatura morale e che egli non possa mai separare il giudizio sul bene e sul male dai pensieri e dalle azioni di cui è fatta la vita, sia nella sfera individuale che in quella collettiva, è, di per sé, un’ottima cosa (tanto è vero che i paradigmi culturali che mirano al controllo e alla manipolazione dell’uomo, tendono a ottundere tale sensibilità etica in ogni modo, e sovente con un notevole grado di successo); però presenta anche un possibile inconveniente: l’uso strumentale che un paradigma può fare del senso etico per screditare e per criminalizzare certe idee, certe esperienze storiche, certi modelli politici. Scatta, in simili casi, una sorta di riflesso condizionato: non è possibile neppure fare un accenno, un riferimento, una semplice allusione a quelle idee, a quelle esperienze, a quei modelli – magari per discuterli e non allo scopo di condividerli o di esaltarli -, che subito l’individuo benpensante, sentendosi investito della sacra missione di difendere i valori morali, si rifiuta di discutere quegli argomenti e chiude le porte al dialogo, insinuando o proclamando che qui si vuole rivalutare ciò che la storia e la morale hanno irrevocabilmente condannato, una volta per tutte.

È stato persino creato un vocabolo allo scopo di meglio stigmatizzare l’atteggiamento di chi rifiuta il principio di autorità (strano destino: sacralizzare, oggi, il principio di autorità, proprio da parte di coloro che si rifanno alla tradizione del libero pensiero, che è di matrice liberale e democratica) e mostra una deprecabile tendenza a riaprire la discussione su cose che si pretende siano state giudicate e archiviate una volta per tutte: “revisionismo”. È stato pensato e creato in funzione di insulto e il suo scopo è quello di intimidire e scoraggiare quel tipo di atteggiamento, esponendo chi ne è colpito ad una sorta di morte sociale, di radicale esclusione non soltanto dai salotti buoni della cultura, ma anche dal consorzio degli esseri civili.

E allora ci sembra il caso di ribadire che la storia, e a maggior ragione il pensiero speculativo, non sopportano briglie né museruole; che niente è dimostrato una volta per sempre, fuori del campo delle scienze esatte (e anche lì, con una  certa dose di prudenza: vedi, per fare un esempio, la scoperta delle geometrie non euclidee, che ha sovvertito radicalmente il modo stesso d’intendere la geometria); che la pretesa di aver chiuso una questione in via definitiva equivale alla pretesa di fermare il corso dei fiumi diretti verso il mare: si possono, sì, erigere delle dighe, ma non si può evitare che l’acqua, evaporando, ritorni comunque, e sia pure per una via diversa, alla propria sorgente originaria: il mare, appunto.

La storia è revisionista in se medesima, nel senso che la ricerca storica porta ad una continua revisione, ad un continuo aggiornamento e ad un continuo ripensamento i fatti dei quali si occupa; quanto al pensiero speculativo, va detto che non esistono pensieri, o sistemi di pensiero, che si possano bandire o che si possano “promuovere” a dottrine ufficiali di una società democratica; questo avviene, appunto, nelle società totalitarie: dunque, se avviene anche nella nostra, vuol dire che la stessa democrazia può essere pensata e realizzata secondo modalità tipicamente totalitarie – il che è come dire che essa abdica a se stessa e alla propria ragion d’essere, ogni qualvolta arrivi ad insediare dei paradigmi culturali che abbiano la pretesa di essere definitivi, incontrovertibili e incontestabili.

Certo, esiste un pericolo: quello che un pensiero intrinsecamente malvagio e intrinsecamente intollerante, finisca per conquistare una egemonia culturale e, da lì, riesca ad imporsi anche sul terreno delle strutture politiche e sociali: ma è un pericolo che bisogna accettare. Gli anticorpi contro simili malattie esistono e, purché vengano coltivati e non –come spesso accade – combattuti, sono generalmente assai più efficaci di qualunque azione repressiva di natura ufficiale. In altre parole, una società che abbia a cuore il principio della libertà dei suoi membri può difendere assai meglio tale principio consentendo loro il massimo della libertà di pensiero, di ricerca, di confronto, beninteso purché essa rimanga sempre coerente con le proprie premesse, che non possono consistere nella mera difesa a oltranza degli interessi individuali, che sono, tendenzialmente, egoistici, ma tenendo sempre presente l’obiettivo del bene comune. Questo è il vero antidoto contro ogni tentazione totalitaria: la pratica della libertà nel rispetto del bene comune; che è come dire la pratica di una libertà bene intesa, vale a dire intesa come la possibilità di fare non qualunque cosa, anche la più distruttiva (libertà negativa), ma di fare quello che è buono e giusto, quello che risponde al concetto del bene comune e della giustizia generale (libertà positiva).

Certo, sappiamo bene che le dottrine politiche fondate sull’egoismo individuale, prima fra tutte il liberalismo, insorgeranno a una simile affermazione, e subito i loro seguaci alzeranno la voce, dicendo: «E chi stabilirà ciò che è buono e giusto; chi stabilirà ciò che risponde al concetto del bene comune? Lo Stato, forse? Dovremo così tornare allo Stato etico, allo stato che esercita il massimo d’invadenza nella sfera della libertà individuale, riducendola, a suo piacimento, fino ai minimi termini?». No, certo: niente Stato etico. La cosa poteva funzionare nel Medioevo, quando il sistema complessivo dei valori era universalmente condiviso: allora non si trattava che di reprimere la trasgressione di quei valori da parte di piccolissime minoranze. Oggi sarebbe impossibile, dati che abbiamo eretto la libertà individuale a valore assoluto, anche quando la sua pratica diventa, potenzialmente o esplicitamente, distruttiva per la società nel suo insieme. E allora, chi mai potrà farlo? Evidentemente, soltanto la legge interiore: che deve essere, appunto, ridestata e rivitalizzata: perché essa, ed essa soltanto, può offrire una base sicura su cui fondare il nostro progetto di vita…