Etnologia e diritti dei popoli
di Giovanni Monastra - 20/10/2005
Fonte: estovest.net
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"I Bororo sono degli Arara", asserì nel 1912 Emile Durkheim.
l'eminente sociologo, convinto che la religione fosse una proiezione dell'esperienza socio-ambientale, intendeva dire che la tribù india sudamericana dei Bororo si autoidentificava con una specie di pappagalli del nuovo continente, chiamati appunto Arara. A parere di Durkheim ciò avrebbe dimostrato che ai Bororo mancava la coscienza di essere uomini, cioè, secondo i canoni occidentali, esseri razionali ormai affrancatisi dalle "cupe nebbie" della dimensione naturalistica, tipiche della vita condotta dai cosìddetti primitivi. I Bororo rientravano quindi tra i popoli ingenui dediti al totemismo, un termine usato talora a sproposito dagli etnologi, spesso preoccupati di stabilire rassicuranti confini tra i presunti "popoli di natura" (secondo la definizione di W. E. Muhlmann, uno studioso tedesco: "popoli con pochi mezzi per dominare la natura, ovvero pochi mezzi tecnici") e gli occidentali "civili" (diremmo: tecno-scientificamente progrediti). James Frazer definì il totem "una classe di oggetti materiali che il selvaggio considera con rispetto superstizioso, credendo che esista tra la propria persona e ogni membro della classe un'intima e particolarissima relazione"1. Il totemismo venne situato nella improbabile -e gratificante per l'uomo bianco- gerarchia delle forme di pensiero cosmico-intuitive dei vari popoli, al di sopra dell'animismo e al di sotto del politeismo, a sua volta giudicato meno "evoluto" del monoteismo...
Per lungo tempo i "comportamenti più bizzarri -scrive un etnologo atipico come Jean Servier- vengono attribuiti ai primitivi, con la preoccupazione di far colpo, come dicono i giornalisti, per sottolineare meglio la particolarità e l'isolamento della civiltà occidentale. Mai i fatti citati sono posti nel loro contesto; mai si è avuto un tentativo per trovare nell'uomo bianco analoghi comportamenti e modi di pensare"2. Sarebbe veramente istruttivo che un etnologo pellerossa o negro esaminasse, dal punto di vista della sua cultura, la nostra società, rimarcandone superstizioni, credulità, ossessioni, manie, unilateralità. Il quadro non sarebbe certamente edificante...
"L'occidente", scrive ancora Servier, "ha decisamente avuto la gran fortuna di non essere stato studiato da etnologi di tutti gli angoli del mondo"3. Infatti l'uomo bianco da lungo tempo si è posto al di sopra degli altri popoli, arrogandosi ogni diritto su di essi e sulle loro realtà, materiali e spirituali, ergendosi a giudice e a legislatore mondiale, espropriando i diritti altrui sostenuto da una superbia nutrita da suggestioni parareligiose, talora regredite a livello inconscio, e da illusioni tecnoscientiste. Così, pure nel nostro secolo, etnologi di notevole spicco, come Lévy-Bruhl, hanno inventato l'esistenza di una "mentalità primitiva" ancora ferma ad uno stadio prelogico, infantile, rinforzando l'errata e banale analogia tra l'uomo delle società arcaiche e il bambino, analogia funzionale rispetto allo schema evoluzionista in campo culturale, formalizzato in epoca positivista da Auguste Comte. Secondo tale filosofo, ciascuna branca della conoscenza umana, e l'uomo stesso nei suo complesso, passa successivamente per tre stadi teorici differenti:
- lo stadio teologico, o fittizio, in cui tutte le realtà vengono ritenute opera di agenti soprannaturali;
- lo stadio metafisico o astratto, modificazione del precedente, dove le forze soprannaturali vengono sostituite da entità astratte inerenti ai diversi enti del mondo, causa dei fenomeni osservati;
- lo stadio scientifico, o positivo, nel quale l'uomo, abbandonata ogni velleità di conoscere l'assoluto, si applica a scoprire le leggi che, laicamente, regolano la natura, svelando la concatenazione causale dei fatti empirici mediante il ragionamento e l'osservazione.
Inutile dire che in questo schema assai meccanico, oltre che falso, i "selvaggi", bambini ingenui che adorano la natura divinizzata, stanno nel primo stadio, ben lontani dall'uomo bianco, artefice della scienza di cui egli elargisce i "benefici" al mondo intero. E a rinforzare questo schema evoluzionistico si impegnò anche un altro filosofo positivista, Herbert Spencer, che prima di Darwin parlò di "sopravvivenza del più adatto" (Il Progresso, sua legge e sua causa di Spencer apparve nel 1857, mentre L'origine della specie è del 1859). Egli postulò l'esistenza di un progresso continuo, lineare e unidirezionale, della specie umana, processo necessario e benefico. Questi schemi, poi rinforzati dall'evoluzionismo biologico di Darwin, vennero fagocitati dal pensiero etnologico negli anni successivi, influenzando ora più, ora meno i vari Morgan, Frazer, Malinowsky, Lévy-Bruhl, fino, purtroppo, allo stesso Lévi-Strauss, almeno in certi aspetti del suo pensiero.
Così, tutti i pregiudizi diffusi in Europa da viaggiatori, mercanti e missionari sui popoli di colore ricevettero una validazione "scientifica". In tale contesto l'affrancamento, o emancipazione, dalla natura costituiva un passo decisivo sulla via dei progresso, tanto che Frazer arrivò a scrivere: "v'è più libertà, nel miglior senso della parola, libertà di pensare il proprio pensiero e di foggiarsi i propri destini, sotto il più assoluto dispotismo, sotto la più opprimente tirannia, che sotto l'apparente libertà della vita selvaggia, dove la sorte dell'individuo è foggiata dalla culla sino alla tomba nella ferrea forma del costume ereditario"4. L'equivalenza natura = prigione costituiva una condanna, per lo meno implicita, di tutti i popoli che non avevano voluto o saputo sfuggire a tale cappio. Il colonialismo diventava di fatto una "liberazione"! La storia veniva considerata come una scala alla cui sommità si poneva (con una vera e propria autoincoronazione) l'uomo bianco.
Anche coloro i quali erano animati dalle migliori intenzioni sottostavano a tale visione distorta; così l'Aborigines Protective Society, fondata a Londra nel 1838, aveva lo scopo di "studiare la vita degli indigeni nelle colonie [...] e portare loro la benedizione della civilizzazione"5. E questa per lungo tempo è stata, ed è tuttora per molti, la "missione dell'uomo bianco" nel mondo. Le diverse correnti di pensiero dell'etnologia, pur divise su molti aspetti, convergevano di fatto nel consolidare tali idee. Si pensi al funzionalismo di Malinowsky, a cui si possono avvicinare anche le teorie di Morgan, l'etnologo che, tra l'altro, inventò di sana pianta una "origine promiscua" della famiglia monogamica (affermazione ripresa poi da Engels). Per costoro la cultura costituisce la realizzazione strumentale di necessità biologiche: quasi una traduzione coerente e globale dell'azione e dell'interesse pratici.
La cultura è il "soddisfacimento di un bisogno del corpo"6, ha scritto Malinowsky, cioè un prolungamento metaforico delle funzioni fisiologiche della digestione. Ponendo come base di tutto l'utilità pratico-organica appare evidente che ne deriva una immediata conseguenza: l'uomo occidentale, avendo realizzato la forma più elevata di cultura funzionale ai bisogni 'umani', cioè l'apparato tecnologico-produttivo che lo avrebbe liberato dalla schiavitù della natura, riceve una investitura 'oggettiva', 'scientifica', di superiorità rispetto ai popoli arcaici.
Se tutto va giudicato sul parametro dell'utilità e della funzionalità in chiave materiale, quale società può anche lontanamente rivaleggiare con quella "moderna", nata nell'orbita euro-americana? Almeno così ragionarono e ragionano in molti, giustificando la colonizzazione modernizzatrice, tesa a rendere planetario il nostro modello di sviluppo. Si dimentica di riflettere sul fatto che la civilizzazione occidentale costituisce una anomalia ben strana anche e soprattutto nel campo dei valori fondanti, di fronte alla polifonia delle culture arcaiche, certo diverse tra loro per molti aspetti espressivi ma unificate da un comune e forte radicamento nel sacro, di fronte al quale il concetto di utilità, così caro all'Occidente, assume un ruolo marginale e subordinato.
L'uomo bianco, con il suo presuntuoso fardello da esportare a tutti i costi, non ha nemmeno ascoltato l'esortazione di un Oswald Spengler a rispettare le culture concretamente e a non dimenticare che la comprensione di una cultura risulta assai difficile se non vi si appartiene (richiederebbe, semmai, una vera e propria catarsi, specie per molti occidentali). In questo, il filosofo tedesco è stato un precorritore delle concezioni più aperte. Ha osservato M. K. Ramaswamy che, a parte certe esagerazioni, "la sua concezione della cultura è relativamente vicina a quella della etnologia moderna"7, di carattere pluralista e lontana dall'eurocentrismo, anche se non necessariamente indifferente ai valori.
Ci sembra importante chiarire fino in fondo questo punto, demistificando anche le forme mascherate di eurocentrismo, apparentemente antirazziste, nate con il mito del "buon selvaggio" di Rousseau, che ritroviamo in certi aspetti del pensiero di uno studioso di alto livello come Claude Lévi-Strauss. Quando infatti l'etnologo francese oppone i primitivi ai civilizzati, valorizza i primi in un'ottica eurocentrica, tipica di un certo progressismo "stanco", con punte di esotismo primitivista un po' da salotto. I "primitivi" sarebbero un esempio di società semplice, meccanica ed egualitaria, mentre la società occidentale sarebbe una ribollente macchina a vapore, ingiusta con le sue disuguaglianze sociali. Ciò equivale a falsare i termini del problema, inventando una particolare versione dei "primitivi", in sintonia con il pensiero di Rousseau, a cui Lévi-Strauss si richiama esplicitamente8.
L'essenza delle società arcaiche, costituita appunto dal sacro, di cui è espressione il mito, viene ancora una volta ignorata e quasi disprezzata. Infatti Lévi-Strauss afferma che "il mito è l'inautenticità radicale [...] D'altronde mito e mistificazione sono parole molto simili"9. Bisogna dire, per inciso, che queste sono tra le pagine che fanno meno onore al grande studioso francese, in altri casi estremamente lucido e acuto nelle sue analisi.
In un panorama così complesso, ma coerente nel falsare, in un senso o nell'altro, le culture "diverse", emergono pochi studiosi veramente validi, che hanno dato vita ad un'etnologia non solo pluralista, ma anche attenta alla dimensione spirituale dei vari popoli, che non può essere ridotta a epifenomeno della loro vita materiale. Nei loro studi, per la prima volta, l'universo religioso viene posto al centro dell'indagine etnologica, ribaltando il percorso classico teso a interpretare la concezione spirituale di un popolo attraverso il suo mondo tecnico-strumentale.
La storia dell'uomo non deve essere storia degli attrezzi mediante i quali egli ha trasformato l'ambiente, ma deve appuntare la propria attenzione sul significato e sul valore simbolico (metastorico) di miti, riti, atti, oggetti. La loro essenzialità, secondo Servier, non è segno di un presunto stato 'primitivo', ma piuttosto di purezza e di immediatezza metafisica.
«Sappiamo ora, dopo lunghi e pazienti studi, che è necessario respingere il giudizio degli antichi viaggiatori. I popoli quasi totalmente sprovvisti di tecniche materiali, come gli Australiani, i Pigmei o i Boscimani, hanno credenze religiose complesse e precise. I loro sistemi di pensiero non sono per nulla 'primitivi' e niente ci permette di citarli come possibili esempi per illustrare la nostra teoria evoluzionistica dei primi balbettii del pensiero umano, all'alba dei tempi»10.
Abbandonata la pretesa di svelare le astuzie della storia, della specie, delle strutture economiche e dei rapporti di produzione, intesi come burattinai dell'anima religiosa e dei suoi miti, si intraprende un viaggio verso l'"altro", riconoscendo dignità, significato e coerenza al suo mondo più vero, quello del sacro.
Gli etnologi dell'Invisibile, a cui molto deve l'uomo occidentale che voglia liberarsi dai pregiudizi, sono il già citato Servier e poi Griaule, Brown, Dieterlen, Zahan, Schneider. Nasce con essi uno strumento prezioso in favore del diritto di ciascun popolo ad essere se stesso fino in fondo e a vedersi riconosciuta una pari dignità come struttura comunitaria compiuta e autonoma, al di fuori di ogni schema progressista e storicista, che cela l'ansia e il desiderio di vecchie e nuove colonizzazioni.
Il concetto olistico di cultura come "complesso di componenti che rimandano le une alle altre e che si integrano a vicenda"11 viene dignificato ed elevato dal rango puramente materiale a quello più complessivo di ordine spirituale, in senso dichiarato. Da tale interdipendenza, che si manifesta sia orizzontalmente che verticalmente, deriva un fatto fondamentale: se si distrugge un solo aspetto della cultura di un popolo, difficilmente l'intero complesso continuerà a sussistere senza alterazioni globali. E ciò vale a maggior ragione per gli elementi centrali, quali sono quelli inerenti alla sfera del sacro, come è stato più volte sottolineato anche da uno studioso di simbolismo e arte sacra, Ananda Coomaraswamy.
Ci sembra evidente, a questo punto, la responsabilità che portano molti missionari, sia pure animati dai migliori sentimenti, i quali hanno dato il via al processo di deculturazione di tanti popoli del Terzo Mondo, troppo frettolosamente convertiti alla "vera fede", senza alcun rispetto per le tradizioni, le mentalità locali e addirittura gli stessi inoffensivi usi della vita materiale, giudicati secondo un intollerante, dogmatico, criterio dottrinario (si ricordi che nelle isole dell'oceano Pacifico dove prosperava l'albero del pane il missionari cristiani obbligarono gli indigeni a estirpare del tutto questo tipo di pianta ritenuta "peccaminosa" in quanto forniva il sostentamento agli abitanti senza che questi dovessero guadagnarselo lavorando, cioè "con il sudore della fronte"... e -si sa!- l'ozio è "necessariamente" il padre dei vizi).
Se volessimo trovare un denominatore comune di ordine metodologico tra i vari etnologi sopra citati, lo potremmo individuare nella tendenza a "far parlare" le varie culture dal di dentro, attraverso la viva voce dei loro esponenti più qualificati. Così, Marcel Griaule descrive il mondo mitico dei Dogon, una popolazione dell'Africa orientale, per bocca del vecchio saggio Ogotemmeli, mentre John Epes Brown ci presenta la suggestiva figura di Alce Nero, capo dei Sioux, di cui espone, in forma diretta, la profonda sapienza. In tutti i casi questi etnologi sembrano entrare in punta di piedi nella realtà che stanno cercando di conoscere: partecipano, infatti, senza preconcetti al mondo culturale studiato, mai sezionato e analizzato in un asettico e meccanico rapporto di separazione Io/Cosa, Soggetto/Oggetto. Sono uomini calati nella vita pulsante della comunità verso la quale hanno rivolto il loro interesse scientifico.
Brown, parlando dei Pellerossa, ha scritto:
«Se si vuole imparare da questi popoli, bisogna viverci insieme: bisogna andare a caccia e fare dei viaggi con loro, partecipare a tutti i momenti della loro vita. E colui che fa questo viene immensamente premiato perché, nonostante gli Indiani vivano in una spesso grande povertà materiale, nella loro vita, nel ritmo della loro società, nella bellezza delle forme della loro antica cultura, è ancora oggi possibile trovare quelle grandi qualità per mancanza delle quali il mondo moderno si è impoverito pur essendo diventato materialmente più ricco»12.
Così lo studioso statunitense poté correggere molte idee inesatte e sconfiggere numerosi pregiudizi sui nativi nordamericani, considerati a lungo ingenui idolatri pagani, affascinati dalle perline di vetro e abbrutiti dall'alcool. Brown ha evidenziato come l'acculturazione degli indiani si è risolta in un tentativo di assimilazione globale, a tutti i livelli, dentro il crogiolo USA, anche quando sono stati toccati settori quali il tipo di produzione dei beni materiali, in apparenza marginali rispetto alla cultura di quei popoli.
«Sforzi governativi mal concepiti di risollevare l'economia finirono di volta in volta in totali fallimenti, in gran parte dovuti al fatto che l'agricoltura, che l'uomo bianco identificava ancora con la civiltà, era una attività in contraddizione con tutti i valori indiani secondo i quali la terra dev'essere sacra e inviolata e da non lacerare con l'aratro»13.
Ancor più dirompenti si rivelarono gli interventi governativi contro la religione tradizionale dei pellerossa, totalmente incompresa.
«Furono proibiti gli elementi sacrificali della Danza del Sole, come pure i riti per la dipartita delle anime dei morti, ed è ben noto come la partecipazione alla molto fraintesa Danza dello Spirito finì con l'infame massacro di Wounded Knee»14.
Fu operato un vero e proprio capillare lavaggio del cervello. In un documentario girato negli anni trenta nelle riserve e trasmesso anni fa da un canale televisivo americano si poteva vedere un significativo cartello apposto all'ingresso del villaggio abitato dai nativi, in cui era scritto: "La tradizione è nemica del progresso". Ma gli indiani molto spesso rimasero legati alle loro radici, con una tenacia che dura ancora e che lascia stupefatti gli etnologi materialisti, incapaci di spiegarla alla luce delle loro analisi di stampo sociologistico o economicistico. L'impotenza di costoro a comprendere deriva dalla estraneità allo spirito del mondo studiato.
Infatti, secondo Brown, l'appartenenza culturale aveva e ha basi sapienziali e non banalmente profane, come ritenuto da molti suoi colleghi.
«Una dimensione essenziale di questa complessa questione, ma inaccessibile agli strumenti dell'antropologia culturale e della psicologia, che manipolano soltanto dati dell'esperienza quantitativa, è la potenza qualitativa dei princìpi metafisici, cosmologici, ed il grado in cui questi diventano virtuali o effettivi nell'intimo dell'individuo tramite la sua partecipazione ai riti tradizionali e alle pratiche spirituali»15.
Lo stesso itinerario verso il cuore della cultura di altri popoli fu compiuto, a partire dagli anni Trenta, da M. Griaule, D. Zahan, G. Dieterlen e S. De Ganay. Griaule, come si è già detto, studiò i negri Dogon, per quindici anni. Queste genti erano considerate dai bianchi feroci e rozze, soggiogate da un universo mentale caotico, oscuro e naturalistico. L'etnologo francese demistificò tale quadro, dimostrando -anche con riferimenti ad altri studi paralleli- che "i negri vivono secondo idee complesse, ma ordinate, e secondo sistemi di istituzioni e di riti nei quali nulla è lasciato al caso o alla fantasia"16.
I Dogon impostano la loro vita quotidiana "su una cosmologia, su una metafisica e su una religione che li pone sullo stesso piano dei popoli dell'antichità"17. In più, osservava Griaule, si può asserire che esiste un filo conduttore che unisce il pensiero sapienziale dei popoli di vaste aree dell'Africa, a riprova di una strutturazione ampia e profonda della cultura nera su dimensioni che trascendono l'esclusivismo tribale.
Sul piano della musica, analoghi studi, tesi a demolire le idee etnocentriche, sono stati condotti da Marius Schneider, uno dei più acuti indagatori di questa realtà, nata con lo stesso apparire dell'uomo. Tutte queste acquisizioni hanno dato un fondamento reale, assoluto, al valore intrinseco di ogni popolo come entità spirituale e carnale. Al contempo hanno evidenziato il diritto alla differenza e alla specificità, intese in senso forte, cioè prima di tutto come vie particolari, legittime, che conducono verso ciò che rappresenta e costituisce l'essere, base di ogni esistere.
"Ogni civiltà -ha scritto Servier-, da un estremo all'altro del mondo, possiede le stesse certezze negli stessi campi, ognuna sembra mettere l'accento su di un aspetto particolare di uno stesso patrimonio, secondo la propria vocazione"18. Tutto ciò si pone ad un livello ben più essenziale di quello dell'ideologia laico-radicale e storicista, più agnostica che "aperta" all'Altro da Sé, per la quale la differenza tra i popoli è un elemento marginale privo di significati che la giustifichino. In tale ottica la diversità costituisce un mero fatto, da tutelare per motivi fondamentalmente di ordine sentimentale (simpatia per i popoli del Terzo Mondo, intrisa di umanitarismo), mentre rimane salda l'idea di una uniformità, sostanziale della nostra specie come pura entità biologica, cioè orizzontale.
Siffatta cecità di fronte alle realtà "verticali", ritenute inconsistenti, rende vano ogni tentativo di salvare le culture delle genti extraeuropee mediante una propaganda di tipo ideologico in senso progressista e genericamente antirazzista, che si rivela anch'essa distruttiva sotto il profilo culturale perché, di fatto, assimilatrice. Invece l'antirazzismo differenzialista, aperto verso tutte le dimensioni secondo l'insegnamento di Griaule, Servier, Brown e degli altri etnologi citati, teso a far coesistere i popoli attraverso una conoscenza reale, aderente alla molteplicità irriducibile dell'esistenza, ci sembra una via da praticare, piena di possibilità, che va arricchita con nuovi apporti.
Se il diritto primario dei popoli è quello di vivere secondo la propria cultura, nella globalità delle sue espressioni, dobbiamo opporci alla diffusione (leggi: propaganda) dei cosiddetti "valori universali" (progresso unidirezionale e totalizzante, benessere edonistico, emancipazione in senso laicista, ecc.), che vanno considerati piuttosto come espressioni di una particolare cultura in un suo particolare momento storico. Esportare a senso unico significa, ancora una volta, colonizzare e sfruttare, ben coperti dall'ipocrita moralismo della "ideologia moderna".
L'unità che può essere ricercata è ben diversa dalla uniformità, tipica delle cose morte: l'unità non annulla la diversità, ma anzi la arricchisce di significati. Lungo questa strada potranno ritrovarsi anche quei popoli che, dopo aver subito l'invasione occidentalista, vorranno rivitalizzare le loro radici profonde, rifiutando l'omologazione.
Gli etnologi dell'Invisibile potrebbero rivelarsi preziosi custodi di conoscenze in parte dimenticate, rimaste a livello inconscio. Non solo le credenze religiose, ma anche le pratiche della medicina tradizionale (oggi rivalutate dalla stessa scienza ufficiale come insostituibili per la difesa della salute dei nativi), le tecniche agricole, naturaliter ecologiche, le usanze e i costumi, tutti elementi inscindibili dalla totalità di una cultura, potranno riemergere, magari talora dopo una metamorfosi richiesta dall'epoca presente.
Un mondo plurale non è solo alle nostre spalle: forse è anche nel nostro futuro. La così frequentemente citata globalizzazione nasconde tanti "mondi locali"19.
Note
1- James G. Frazer, Il Totemismo, Newton Compton, Roma 1971, pag. 25. torna al testo ^
2- Jean Servier, l'uomo e l'invisibile, Borla, Torino 1967, pag. 62. torna al testo ^
3- Ivi, pag. 63. torna al testo ^
4- James G. Frazer, Il ramo d'oro, Boringhieri, Torino 1976, pag. 79. torna al testo ^
5- Citato in M. K. Ramaswamy, Introduzione all'etnologia, Garzanti, Milano 1989, pag. 29. torna al testo ^
6- Bronislaw Malinowsky, Teoria scientitica della cultura e aitri saggi, Feltrinelli, Milano 1962, pag. 44. torna al testo ^
7- M. K. Ramaswamy, op. cit., pag.31. torna al testo ^
8- Claude Lévi-Strauss, Primitivi e civilizzati, Rusconi, Milano 1970, pagg.59 e segg. L'influenza delle idee di Rousseau si riscontra anche nelle concezioni di Franz Boas e Margaret Mead, due noti etnologi di indirizzo egualitarista. torna al testo ^
9- Ivi, pag.81. torna al testo ^
10- Jean Servier, op. cit., pag. 89. torna al testo ^
11- M. K. Ramaswamy, op. cit., pag.14. torna al testo ^
12- Alce Nero, La sacra pipa (a cura di John Epes Brown), Borla, Torino 1970, pag.10. torna al testo ^
13- John Epes Brown, Persistenza dei valori essenziali fra gli indiani delle pianure, in AA.VV., Eternità e storia, Vallecchi. Firenze 1970, pag. 327. torna al testo ^
14- Ibidem. torna al testo ^
15- Ivi, pag. 328. torna al testo ^
16- Marcel Griaule, Dio d'acqua, Bompiani, Milano 1968, pag. 10 (nuova edizione: red, Como 1996). torna al testo ^
17- Ibidem. torna al testo ^
18- Jean Servier, op. cit., pag.197. torna al testo ^
19- Clifford Geertz, Mondo globale, mondi locali, il Mulino, Bologna 1999. torna al testo ^