Padre cielo e madre terra. Nozze solari nel neolitico
di Luca Leonello Rimbotti - 04/09/2006
I miti e i riti comunitari delle società europee storiche rimontavano ad archetipi primordiali.
La piana di Amesbury
nel Wiltshire,
non lontano
da Salisbury, nell’Inghilterra
meridionale, è
uno di quei posti
in cui il primordiale appare all’improvviso.
Il celebre edificio megalitico
di Stonehenge, pur inflazionato
dalla pubblicistica new age, è
ancora in grado di far sentire il suo
potere. Nonostante la commercializzazione
del mistero, che ormai
ogni giorno butta nel mucchio le
piramidi, i disegni di Nazca, Atlantide
e Rennes Le Château come
fossero attrazioni di una fiera, a
Stonehenge si riesce ad alzare il
velo della protostoria. Senza avere
la sensazione di trovarci in un
documentario della “BBC”.
Come ognuno sa, si tratta di gigantesche
pietre disposte circolarmente
entro uno spazio evidentemente
rituale, sui cui scopi e sulla provenienza
etnica dei costruttori gli studiosi
si dannano l’anima da qualche
secolo. Il cerchio megalitico
più esterno, fatto di pietra arenaria
chiamata sarsen, ne racchiude uno
più interno - il Bluestone Circle -
composto da megaliti di roccia vulcanica
bluastra, trascinati dalle lontane
montagne del Galles fin sulla
piana di Salisbury: e nessuno sa
esattamente come, da chi e perché.
E neppure quando, dato che gli
esperti, nelle loro datazioni di Stonehenge,
vagano dal 3.200 al 1.800
a. C., dal Neolitico all’età del
Bronzo. Recentemente, si
è giunti alla conclusione
che Stonehenge sia stato
un interminabile “work in
progress”, un lavoro di
costruzione durato dal
3.150 a. C. al 1.500 a. C.:
dallo scavo delle buche
per le arcaicissime henge
in legno, marcite da millenni,
sino all’erezione del
cerchio esterno in pietre
sarsen architravate e dei
cinque triliti interni in pietra
azzurra: due pietre verticali
sormontate dall’architrave
orizzontale. Il
cerchio monumentale, del
diametro di circa trenta
metri, è caratterizzato dai sedici
monoliti rimasti - sui trenta originari
- e dagli architravi arcuati che
ne sormontano i vertici, raggiungendo
in totale un’altezza di quasi
cinque metri. All’interno, i resti di
altre pietre più piccole sono disposti
a ferro di cavallo e al centro di
tutto il sistema giace la cosiddetta
Altar Stone, un blocco di cinque
metri di pietra verde, oggi semisepolto
dalle rovine dei triliti cadutigli
sopra. Poco distante, al di fuori
dei cerchi, staziona imponente e
solitario il menhir chiamato Hell
Stone.
Ed è proprio la presenza di questa
pietra decentrata che ha convinto
taluni studiosi della possibilità che
Stonehenge sia stato un centro di
religiosità solare, basato sull’orientamento
dell’architettura nel senso
dei solstizi. Ma si trattava di una
religiosità solare non solo astrale,
ma cosmica, e posta in relazione
particolare con la terra. Non quindi
soltanto osservatorio astronomico,
come si è ipotizzato, e nemmeno
“computer di pietra” o mappa celeste.
Ma luogo d’incontro tra le energie
fondamentali della vita: il cielo
e la terra. Ad esempio, si è notato
che all’alba del solstizio d’estate i
raggi del sole giungono precisamente
al centro di Stonehenge e che
l’ombra proiettata da quel fallo
gigantesco che è la Hell Stone,
opportunamente posizionato all’esterno,
sia pure con uno scarto nel
frattempo intervenuto per la precessione
degli equinozi, va a inondare
esattamente il centro del cerchio,
oltrepassando l’arco di un trilite
esterno - paragonabile ad una vagina
neolitica - e penetrando nelle
viscere del tempio. E finendo col
coprire la Altar Stone, proprio come
se si trattasse di un matrimonio
cosmico tra il Sole e la Terra. Come
nel mito indiano del coito cosmico
tra le forze genesiche - il Grande
Mahituna -, a Stonehenge ritornerebbe
dunque l’idea dell’ombra che,
in combinazione con i raggi solari,
compie opera di fecondazione.
Effettivamente, da molte parti è stato
riconosciuto il fatto che, nelle
epoche preistoriche che vanno dal
Neolitico al Bronzo, in Europa si
praticavano culti solari e che taluni
di questi culti - tra cui, appunto,
quello di Stonehenge - erano legati
alla celebrazione delle nozze mistiche
tra il Cielo e la Terra. I miti
legati al ciclo della Grande Madre
pre-indoeuropea, incentrati sul culto
primitivo della fertilità, venivano
reiterati con statuette e intagli grossolani
che rendevano con immutabile
maniera gli organi genitali femminili
sovradimensionati. A questa
pratica si sovrappose, con l’espansione
indoeuropea databile nelle
sue varie fasi tra il 3.000 e il 1.200
a. C., la celebrazione delle divinità
uraniche. Il Padre Cielo che ad ogni
stagione solstiziale si accoppia alla
Madre Terra, fecondandola e rinnovando
i cicli esistenziali. Gli
Indoeuropei non celebravano solo il
Padre dominatore, ma anche la
Madre come scrigno della nascita,
della discendenza e dell’eredità. E
questo è proprio il caso di Stonehenge:
il Cielo che feconda simbolicamente
la Terra, rendendola
matrice di vita.
Tra gli altri, è stato Mircea Eliade a
sottolineare che i miti e i riti comunitari
delle società europee storiche
rimontavano ad archetipi primordiali,
al centro dei quali, come massima
solennizzazione, si aveva l’evento
l’evento
delle Nozze Cosmiche, la
ierogamia tra Cielo e Terra che simboleggiava
la ricreazione dell’Universo
attraverso la Nascita. Come
sostiene il ricercatore Terence Meaden,
il segreto di Stonehenge
andrebbe individuato proprio tra
queste pratiche in uso nell’Europa
arianizzata, quando i culti solari si
unificarono a quelli tellurici, creando
una religione della vita e delle
energie della natura che poi sarà al
centro anche della religiosità classica.
Basta pensare a quanto dice
Eschilo. «Il sacro Cielo esiste per
congiungersi alla terra/ e la
Madre-Terra nutre un amore coniugale…
». Divinità solari fecondatrici
- a cominciare dal greco Zeus -
recavano i segni del potere della
luce, la folgore e l’ascia. E su alcune
pietre di Stonehenge si sono trovate,
per l’appunto, raffigurazioni
di asce e di pugnali tipicamente
micenei.
Questo lascia pensare che, con ogni
probabilità, la civiltà megalitica
nord-europea fosse una diramazione
di quella mediterranea. O,
meglio, che entrambe derivassero
da un unico ceppo irradiatosi.
Sarebbe cioè ipotizzabile che le
popolazioni del Neolitico dedite a
queste costruzioni solari fossero le
medesime in tutta Europa: e soltanto
gli Indoeuropei hanno lasciato
tracce di sé ovunque. Costruzioni e
allineamenti geometrici di pietre sul
tipo di Stonehenge ne sorgono un
po’ dappertutto: dalla Gran Bretagna
(Inverness, Castle, Rigg, Barbrook)
alla Francia (Carnac),
dalla Germania (Gollenstein)
all’Italia (menhir di Bisceglie).
Si trattava di popolazioni
evolute, per nulla assimilabili
ai cavernicoli. Nel
museo di Salisbury sono
esposti manufatti di pregevole
fattura provenienti dalla
zona di Stonehenge: oggetti
d’oro lavorato, else levigate,
punte di freccia e ceramiche
decorate. Probabilmente, è
giunto il momento di ripensare
scientificamente il Neolitico
come qualcosa di completamente
diverso dall’età
della pietra come l’intendiamo
di solito. Queste popolazioni
avevano approfondite conoscenze
di geometria e astronomia
alcuni millenni prima di Pitagora,
sapevano misurare il terreno, possedevano
una tecnologia adatta a trasportare
e innalzare blocchi di pietra
da cinquanta tonnellate. Sapevano
di architettura e di carpenteria,
come si osserva nel caso delle connessioni
tra le pietre, unite tra loro
da speciali incastri a linguetta. Tutto
questo non poteva essere appannaggio
di energumeni primitivi. È
evidente che l’Europa, già nel 3.000
a. C., era popolata da genti ad alto
grado di civilizzazione. Questa evidenza
ha fatto parlare di Stonehenge
come del capolavoro di una
“scienza megalitica olistica” e
come di “un’icona di Albione”. Una
terra strettamente legata, sin nel
nome, ai miti della Terra di Thule e
della Urheimat aria e ai cicli delle
divinità iperboree, che sono l’immediato
antefatto della nostra civiltà storica.