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La modernità distrugge le differenze preparando la sua stessa fine

di Francesco Lamendola - 07/07/2015

Fonte: Il Corriere delle regioni


 


 

Uno degli aspetti più caratteristici e più funzionali della modernità è la costante, progressiva, inesorabile erosione e distruzione delle differenze, per amalgamare e ridurre ogni cosa ad un modello unico: di linguaggio, di sentimenti, di pensieri, di atteggiamenti e di comportamenti, compresi gli aspetti - apparentemente minimi - dell’alimentazione, dell’abbigliamento, del tempo libero, per arrivare fino alle credenze filosofiche, spirituali, religiose.

Si tratta, lo ripetiamo, di un aspetto funzionale; tale è la natura del mondo moderno: dell’economia moderna, della finanza moderna, della politica moderna; basate, rispettivamente, sul consumo di massa, sull’emissione di titoli bancari slegati dal valore reale del denaro, nonché sulla democrazia, vale a dire su una forma di governo che esclude, per sua natura, tutto ciò che potrebbe dispiacere alle masse, per cui nessun politico democratico sarà così pazzo da andare contro la pubblica opinione, quand’anche ne vedesse gli errori più palesi e suscettibili di conseguenze catastrofiche, onde non correre il rischio di non essere più eletto.

Stiamo andando a marce forzate verso una crescente distruzione delle differenze e delle identità e verso una omologazione sempre più diffusa: questo è il fatto. Fatto che può sembrare in contrasto – ma non lo è, al contrario; sono le due facce della stessa medaglia – con un altro fatto: la crescente proclamazione dei diritti delle minoranze, la crescente insurrezione dei “diversi” e dei discriminati, addirittura il capovolgimento dei valori e perfino delle leggi della maggioranza, ad opera di minoranze sempre più agguerrite e combattive.

A parole, tutti – o quasi tutti – riconoscono i benefici della diversità e ne magnificano il valore per l’intero corpo sociale; in pratica, succede che la “diversità” di cui si mena vanto, e di cui si fa l’elogio, è quanto di più innocuo, esteriore e ininfluente si possa immaginare. Qualcosa che non si oppone affatto, ma che, al contrario, è funzionale al sistema dominante. Un esempio classico è quello della cosiddetta “contestazione giovanile” degli anni Sessanta del XX secolo: capelli lunghi, cantanti “urlatori”, cinema alternativo, esaltazione della vita hippy, tutte queste cose sono entrate nel circuito del mercato e si sono trasformate, da elementi suscettibili di cambiamento sociale, in altrettanti simboli di un consumismo sempre più esplicito e sfacciato.

La stessa cosa si osserva nel campo della cultura. A parole, si esalta il pluralismo e la libertà di pensiero; alla prova dei fatti, si constata che l’uno e l’altra non sono altro che il sottile strato di vernice sotto il quale si rafforza un Pensiero Unico sempre più invasivo e tirannico, sempre meno tollerante di ogni dissenso e di ogni prospettiva alternativa; e lo si vede in ogni campo: dalla scienza alla filosofia, dalla politica all’economia, dall’arte alla letteratura. Del resto, dovrebbe ormai essere chiaro, anche ai più ingenui e sprovveduti, che, quando i fautori di un certo sistema si affannano a decantare le virtù del pluralismo, deve trattarsi per forza di cose d’un “pluralismo” quanto mai annacquato e addomesticato, da sfoggiare come una falsa credenziale di libertà.

Non si tratta di una congiura di persone brutte e cattive, decise a mettere in atto ogni possibile strategia affinché, gattopardescamente, «tutto cambi, affinché tutto resti come prima»; o, almeno, non solo di questo: anche se, indubbiamente, sono moltissimi coloro che, sfamandosi al desco del Pensiero Unico, hanno ogni interesse a servire fedelmente il potere che li tiene a libro paga. Ma vi è qualcosa di molto più complesso: un sistema finanziario, economico e politico che, per potersi perpetuare ed espandere costantemente, e in maniera sempre più parassitaria, ha bisogno di mettere in opera ogni mezzo possibile per distruggere la diversità e instaurare l’omologazione.

Osservava John Stuart Mill – un filosofo che non ci piace molto, ma che, in questo caso, ha fatto delle riflessioni meritevoli della massima attenzione - nel capitolo «Dell’individualità come elemento del bene comune», di una delle sue opere più importanti (da: J. S. Mill, «Saggio sulla libertà»; titolo originale: «On Liberty», 1859; traduzione dall’inglese di Stefano Magistretti, Milano, Il Saggiatore, 1993, pp. 99-102):

 

«Ci si sarebbe aspettati che la Cina scoprisse il segreto del progresso umano e si mantenesse costantemente alla testa del movimento di innovazione mondiale. Invece, sono diventati statici – lo sono rimasti per migliaia d’anni, e se mai riusciranno a migliorare, dovrà essere ad opera di stranieri. Sono riusciti al di là di ogni aspettativa in ciò a cui tendono così industriosamente i filantropi inglesi – a formare un popolo tutto uguale, i cui pensieri e le cui azioni sono guidati dalle stesse massime e norme: ed eccone i risultati. Il moderno dominio della pubblica opinione è, in forma disorganizzata, ciò che il sistema educativo e politico cinese è in forma organizzata; e se l’individualità non riuscirà a farsi valere contro questo giogo, l’Europa, nonostante il suo nobile passato e il suo proclamato Cristianesimo, tenderà a diventare un’altra Cina.

Che cosa ha finora risparmiato all’Europa questa sorte? Che cosa ha reso le nazioni europee un settore dell’umanità che si evolve e non resta statico? Nessuna loro intrinseca superiorità – che, quando esiste, è un effetto e non una causa -, ma piuttosto la notevole diversità di caratteri e culture. Individui, classi e nazioni sono stati estremamente diversi gli uni dagli altri: hanno tracciato una gran quantità di vie, che portano tutte a qualcosa di valido;  e anche se in ogni epoca chi percorreva vie diverse non tollerava gli altri, e avrebbe giudicato ottima cosa costringerli tutti a seguire la sua strada, i tentativi reciproci di impedire il progresso altrui hanno raramente avuto un successo definitivo, e a lungo andare tutti hanno acuito la possibilità di recepire i risultati postivi altrui. A mio giudizio, l’Europa deve a questa pluralità di percorsi tutto il suo sviluppo progressivo e multiforme; ma è una dote che si sta già riducendo in misura considerevole. L’Europa sta decisamente avanzando verso l’ideale cinese di rendere tutti gli uomini uguali Il signor de Tocqueville, nella sua ultima importante opera, osserva che i francesi di oggi si rassomigliano molto di più di quelli anche solo della generazione precedente. Un inglese potrebbe dire lo stesso, e a molto maggior ragione. In un passo già citato, Wilhelm von Humboldt indica due condizioni necessarie allo sviluppo umano – perché necessarie per differenziare gli uomini -, la libertà e la varietà di situazioni. In questo paese, la seconda condizione svanisce ogni giorno di più. Le circostanze in cui vivono classi e individui diversi, e che formano i caratteri, diventano di giorno in giorno più simili. Una volta, stati asociali comunità locali, mestieri diversi vivevano in quelli che potevano essere definiti mondi diversi; oggi il mondo è in buona misura lo stesso per tutti. Relativamente parlando, oggi la gente legge le stesse cose, ascolta le stesse cose, vede le stese cose, va negli stessi posti, spera e teme le stesse cose, ha le stesse libertà, gli stessi diritti, e le stesse possibilità di farli valere. Per quanto siano grandi le differenze che ancora sussistono tra gli uomini,  non sono nulla in confronto con quelle che sono scomparse. E il processo di assimilazione continua: lo favoriscono tutti i mutamenti politici di questo periodo, che tendono senza eccezione a innalzare chi sta in basso e viceversa. Lo favorisce ogni estensione dell’istruzione, perché essa sottopione tutti a influenze comuni e li pone in contatto con il complesso delle conoscenze e dei sentimenti generali. Lo favorisce il miglioramento delle comunicazioni, che pone in contatto gli abitanti di località distanti tra loro e incoraggia rapidi e frequenti spostamenti di residenza da un posto all’altro. Lo favorisce l’espansione del commercio e dell’industria manifatturiera, che diffonde sempre più ampiamente i benefici materiali e offre alla competizione generale anche i più elevati oggetti di ambizione, per cui il desiderio di ascendere nella società non caratterizza più una classe particolare, ma tutte. Un fattore che ancor più di questi appena elencati favorisce la generale somiglianza degli uomini è l’influenza, ormai consolidata in questo e altri paesi, dell’opinione pubblica sullo Stato. Col graduale livellamento delle varie distinzioni sociali che permettevano a ci si barricava dietro di esse di ignorare l’opinione delle masse; con la progressiva sparizione dalle menti degli uomini politici dell’idea stessa di opporsi alla volontà pubblica, nei casi in cui la si conosca con certezza, il non-conformismo perde qualsiasi sostegno sociale. Scompare cioè qualsiasi consistente potere sociale che, essendo di per se stesso contrario al dominio della massa, sia interessato ad assumersi la protezione di opinioni e tendenze diverse da quelle del grande pubblico.

La combinazione di queste cause forma una tale massa di influenze ostili all’individualità che è difficile immaginare come essa riuscirà a sopravvivere. Incontrerà difficoltà sempre maggiori se non si riesce a farne comprendere il valore alla parte più intelligente del pubblico – a fargli comprendere che la diversità è positiva, anche se non è sempre migliore e talvolta può sembrare peggiore di ciò che è comunemente accettato. Se i diritti dell’individualità devono essere fatti valere, questo è il momento, quando manca ancora molto perché l’assimilazione forzata sia completa.  È solo resistendo fin dall’inizio che si  possono sconfiggere gli abusi. La pretesa che tutti si rassomiglino cresce quanto più la si nutre:  se si aspetta a resistere fino a quando la vita sarà quasi completamente ridotta a un tipo uniforme, ogni deviazione da essa finirà coll’essere considerata empia, immorale, persino mostruosa e contro natura. Gli uomini diventano rapidamente incapaci di concepire la diversità quando per qualche tempo si sono disabituati a vederla.»

 

Stuart Mill sembra convinto, da buon liberale e da perfetto utilitarista, che la diversità sia la molla del progresso (progresso sul quale non ha alcuna obiezione da fare: tanto è vero che non prova il minimo imbarazzo ad affermare che la Cina, per “migliorare”, deve smetterla di essere statica); e vede nella società moderna una minacciosa tendenza a smussare e limitare sempre più quella preziosa fonte di progresso.

La diversità, dunque, per lui, è un valore in se stessa, non importa di quale diversità si tratti; inoltre, egli affronta la questione come se dipendesse solo da fattori intellettuali ed educativi, e i poteri finanziari ed economici non vi avessero parte alcuna – e questo proprio nell’Inghilterra della Rivoluzione industriale, ossia nella nazione guida del cambiamento a livello planetario! «Dove c’è diversità, c’è movimento, dunque c’è progresso»: non importa in che direzione si vada, l’importante è che si vada in parecchie direzioni diverse; prima o dopo, tutti quanti potranno usufruire dei benefici, diretti o indiretti, del fatto che molte strade differenti sono state battute.

A quanto pare, non gli viene in mente che non è importante solo la libertà di muoversi, ma anche la direzione in cui si vuole andare. Basta che non si rechi danno alla società, e ciascuno può prendere la direzione che vuole; l’importante è non essere statici: questa è la sua filosofia. È una filosofia fondata su un individualismo esasperato, concepita allo scopo di difendere i sacri “diritti” del singolo contro l’invadenza della società e dello Stato. Non si accorge che, in una società cosiffatta, non è vero che tutti tendono a pensare, dire e fare le stesse cose, perché vi è una grande differenza tra chi possiede i mezzi per formare e manipolare l’opinione pubblica, e chi è ridotto al livello, quanto mai passivo, di elettore-contribuente-consumatore.

Certo che la diversità è importante; ma non qualunque diversità: non, ad esempio, quella degli individui perversi, antisociali, nemici del pubblico bene; è importante, e benefica, la diversità che nasce dalla identità, e non quella, artificiale, creata dal capriccio individuale o dalle mode collettive. La diversità che si radica nella tradizione è positiva; ma lo è - anch’essa - non in senso assoluto, bensì relativo: vale a dire, tenendo conto del contesto sociale in cui s’inserisce. Per fare un esempio: la diversità culturale, politica, religiosa, è un valore, se la società possiede il modo di ridurre tali diversità ad un compromesso ragionevole, basato sulla difesa dell’ordine sociale e della pace comune; altrimenti, esse diventano fattori di disgregazione, di odio, di violenza.

Non si dovrebbe farsi paladini della diversità in astratto, ma della diversità che si fonda su una tradizione, e quindi su una identità; e su di una identità che sia compatibile con le altre identità, cioè che possieda sufficiente spirito di tolleranza, da accettare il dialogo con le altre identità, o, quanto meno, da non desiderarne e perseguirne la distruzione violenta e sistematica. È chiaro che una società multietnica e multiculturale è una contraddizione in termini, perché nessuna società sarà materialmente in grado di gestire delle identità che si contrappongano le une alle altre, che rifiutino il dialogo: cosa che sempre accade, inevitabilmente – la storia ce lo mostra – quando il mosaico delle differenze supera la capacità di amalgamarle da parte  della società che le ospita al suo interno.